Pannella, il guerriero controcorrente che “odorava di bucato”

Marco Pannella è morto oggi all'età di 86 anni

Non avevamo nemmeno diciotto anni quando, armeggiando con la vecchia radio, ci imbattemmo per la prima volta nella sua voce. Erano le frequenze di Radio Radicale, quel tribuno dall’eloquio colorito e torrentizio era Marco Pannella. Assolutamente digiuni di politica, ancora discretamente lontani dall’ingresso in quel mondo giornalistico che poi sarebbe stato il nostro acquario, rimanemmo letteralmente folgorati dalla forza e dal carisma di quell’omone dalla chioma candida che oggi tutti rimpiangono, compresi i tantissimi che lo hanno avversato in vita o non gli hanno riconosciuto i meriti che aveva.

Quante ore passate ad ascoltare i suoi comizi e quelli della sua corte dei miracoli radicale, quante notti insonni per vivere in diretta i lavori del Parlamento o i congressi di partito. Essere d’accordo o non con le sue idee era del tutto irrilevante. Né mai ci ha sfiorato anche solo l’idea di prendere la tessera del Partito radicale (e Dio sa quante volte Pannella ha lanciato campagne di reclutamento vagamente ricattatorie: “o la tessera o chiudiamo tutto”). Ci ha svezzato alla politica, ci ha offerto una visione alternativa, a volte così radicalmente opposta a quella tradizionale della Prima Repubblica, di cosa significa battersi per le cause in cui si crede. Fino al proprio sacrificio personale, compresi i tanti scioperi della fame e della sete che pur non ci hanno mai persuaso del tutto. Per i nostri valori di riferimento, a volte vicini a volte lontani, Pannella è sempre stato un termine di confronto. Era bello condividere le battaglie, ma lo era ancora di più ascoltare con quale veemenza cercava di convincere gli interlocutori che non la pensavano come lui.

Certo non le ha azzeccate tutte. Candidare Cicciolina o Toni Negri, pur situazioni diversissime, è stato un errore di sottovalutazione. Anche se quelle scelte, viste con gli occhi di oggi, sono meno dissacranti dell’immagine dell’istituzione di talune facce di attuali ministri e parlamentari. E anche sulla liberalizzazione delle droghe leggere, che pure è tema che si presta a opinioni legittimamente divergenti, non è riuscito a vincere la diffidenza (o la paura). Ma che dire della battaglia per e con Enzo Tortora? Oggi che si ciancia tanto di politica e giustizia bisognerebbe avere l’umiltà di andare a ripercorrere quella vicenda, studiare con quale rispetto delle istituzioni l’allora presentatore televisivo visse il suo dramma e con quale forza denunciò, nel disinteresse generale, le disfunzioni dell’apparato giudiziario e l’inadeguatezza di un pugno di magistrati desiderosi solo di guadagnare le luci della ribalta.
Rammentare le battaglie per il divorzio e l’aborto è perfino banale, eppure hanno segnato la storia di un Paese che fino ad allora, fintamente perbenista, si teneva le mani legate, rovinando la vita alle persone. E poi i temi della libertà di informazione, della parità di accesso alla comunicazione televisiva, della lotta ai monopoli. Ma è inutile continuare, Pannella è tante cose insieme che non si finirebbe mai di raccontare.

Quel che di lui ci rimane è soprattutto la sua capacità di andare controcorrente. Una questione di stile, prima che di idee. Uno stile che apparteneva anche all’altro dei due fari che hanno illuminato, con il loro esempio, il nostro cammino umano e professionale. Marco Pannella e Indro Montanelli, così diversi, è vero, eppure così uguali. E forse è anche per questo che il grande vecchio di Fucecchio guardava all’orso abruzzese con mai nascosta simpatia. “Odora di bucato” diceva Indro del leader radicale. Anche Montanelli, come Pannella, ha combattuto tante battaglie vincendone pochissime. Il grande giornalista era affezionato ad un motto, ripreso dagli hidalgo spagnoli, che citava spesso: “Le sconfitte sono la medaglia delle anime bennate”. Vale per Marco come per Indro. Sconfitti, sì, ma sempre a testa alta. I fari si sono spenti, il loro esempio rimarrà nel cuore e nell’anima.


Il nuovo pericolo nel campo minato delle banche

MontepaschiBanche, avanti la prossima. Che a questo punto dovrebbe essere Veneto Banca. Sono già stati superati cinque ostacoli (i quattro istituti della risoluzione e Popolare Vicenza) nel campo minato che il sistema bancario sta cercando di disinnescare, con il sostegno del governo, ma la strada è ancora lunga e soprattutto il fiato inizia a farsi sentire. Con tutta la buon volontà legata anche all’interesse della propria sopravvivenza, sia del sistema creditizio che di quello economico e di conseguenza di quello politico, l’impresa è ciclopica: si tratta di spianare, o almeno di ridimensionare, senza che frani tutto, una montagna di prestiti di difficile, se non impossibile, restituzione cresciuta con la crisi, ma allo stesso tempo lasciata lievitare anche per mancati interventi precedenti. Inutile comunque recriminare, a questo punto: il bubbone c’è e bisogna sgonfiarlo evitando che esploda.

Le banche hanno tutto l’interesse per farlo perché il tracollo di un istituto, lo insegna la storia non solo italiana, ha effetti a catena che travolgono tutto il sistema. Così, con uno sforzo congiunto diretto, le banche sono riuscite in passato a salvare il Banco Ambrosiano (diventato poi la base di uno dei due big nazionali, Intesa Sanpaolo) e con uno indiretto, attraverso il Fondo interbancario,  a propiziare soluzioni per istituti minori, come Tercas e Caripe. Operazioni, queste ultime che continuano a fare le Bcc con il loro Fondo di categoria. Ma Salvatore Maccarone, il presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, l’istituto che dovrebbe garantire i depositanti sotto i 100 mila euro, ha ammesso recentemente di avere le casse vuote anche per il contributo, a rigore fuori competenza, al rimborso degli obbligazionisti delle quattro banche salvate. Questo perché, come capita spesso in Italia, buone iniziative rovinano in maniera distorta.

Aggiungendo che in questo momento nessun istituto è disposto a impegnare il proprio patrimonio in salvataggi dei quali non si riesce a capire a priori il costo, le risorse per gli interventi con gli strumenti utilizzati finora ormai scarseggiano, drenate dall’intervento autunnale, per quelli che in fondo erano ostacoli da primo allenamento. E già si è rischiata la guerra civile per evitare la frana di quattro banche che si possono definire al massimo medie come Banca Marche, Popolare Etruria, Carichieti e Cariferrara. Con lungimirante intervento promosso dal governo, seppure con appoggio essenzialmente esterno per evitare aiuti di Stato, è nato comunque il fondo Atlante: sessantasette istituzioni, quasi tutti istituti di credito, hanno  dato vita a uno strumento dotato di 4,3 miliardi per intervenire in salvataggi e nell’acquisto di “Non performing loans”, i prestiti non performanti, con l’obiettivo di assicurare un rendimento del 6% attraverso queste operazioni. Un terzo delle risorse però sono già state consumate per rilevare la Banca Popolare di Vicenza, che nessuno voleva, dato che l’aumento di capitale da 1,5 miliardi è andato praticamente deserto. Adesso non si può escludere che un altro miliardo possa essere impiegato in un’altra ricapitalizzazione difficile, quella di Veneto Banca.  Se così fosse, il Fondo Atlante si troverebbe ad avere il controllo di due istituti che per anni si erano corteggiati senza riuscire però da soli a trovare un accordo. Si può ipotizzare in ogni caso che anche buona parte delle residue risorse di Atlante debbano essere poi utilizzate per il rilancio di quello che si presenta come un polo bancario potenzialmente di grande interesse.

In questo caso il Fondo Atlante avrà avuto un ruolo meritorio per il sistema credito, disinnescando la quinta mina, ma lascia ancora aperto il problema dei crediti in sofferenza, che era quello di partenza.  E apre a quella che si prospetta come la prossima (sesta) mina. Secondo gli ultimi dati di Bankitalia, a marzo le sofferenze lorde bancarie erano pari a 196,9 miliardi, con una crescita del 3,9% rispetto ai 189,5 miliardi di un anno prima (ma se si tiene conto della cartolarizzazioni e degli altri crediti ceduti o cancellati, il tasso di crescita sarebbe del 13,6%). A fine 2015 il Monte dei Paschi aveva in portafoglio 11,8 miliardi di sofferenze garantite da immobili, 6,5 miliardi con garanzie personali e 8,3 miliardi di sofferenze unsecured. Al netto delle rettifiche già effettuate, le sofferenze sono in bilancio per 9,7 miliardi. Il doppio della dotazione di partenza del Fondo Atlante. Una cifra enorme: ma se si vogliono considerare tutti i crediti deteriorati lordi (non solo quelli in sofferenza) del Montepaschi si arriva a 47 miliardi. Più di dieci volte della dotazione di Fondo Atlante, ottima iniziativa e che senza la quale ora ci troveremmo mezzo Veneto alla presa con il bail-in. Ma purtroppo ancora insufficiente.

 

 

 


Ubi, l’attacco dei parlamentari Pd alla Moratti? Un teatro dell’assurdo

C’è qualcuno sano di mente che davvero può pensare che per il solo fatto di sostenere nella campagna elettorale milanese il candidato del centrodestra Stefano Parisi la presidente del Consiglio di gestione di Ubi Banca Letizia Moratti non possa garantire cittadini e risparmiatori nell’erogazione di un prestito? Anche solo prospettarlo come ipotesi fa sganasciare dalle risate. Ma non ditelo ai dieci parlamentari lombardi del Pd che come un sol uomo hanno vergato una lettera grondante indignazione, e ispirata alla più vieta cultura del sospetto, al ministro dell’Economia, al governatore di Bankitalia e al presidente del Consiglio di sorveglianza di Ubi per chiedere di “valutare l’opportunità di adottare le iniziative necessarie a sgombrare il campo da commistioni inopportune con la politica che rischiano di compromettere la credibilità di Ubi”.
Lorsignori (tra i magnifici dieci ci sono, purtroppo, quattro bergamaschi: Sanga, Misiani, Carnevali e Guerini), silenti quando gli intrecci e gli intrallazzi avvengono tra Roma e Firenze, per esempio quando si vuole mettere a capo della cyber sicurezza nazionale il compagnuccio di Renzi Marco Carrai, agitano il drappo rosso del pericolo di un ritorno “alla stagione degli intrecci tra politica e sistema bancario” (ma quale ritorno, di grazia, se basta leggere i giornali per verificare che quel sistema non è mai tramontato?) e come torelli infuriati cercano di incornare la reproba Moratti. Peccato non si rendano conto dell’infimo livello della loro polemica.

Perché se fosse vero l’assunto, e davvero non c’è testa benpensante che possa neanche prenderlo in considerazione, dovremmo credere che anzitutto il Consiglio di gestione e, in seconda battuta, il Consiglio di sorveglianza di Ubi siano composti da teste di legno incapaci di cogliere la tremenda operazione che verrebbe ordita alle loro spalle. E dovremmo anche pensare che Letizia Moratti, di cui è lecito pensare politicamente il peggio possibile (da ministro ha fatto solo danni, da sindaco i milanesi l’hanno congedata dopo solo 5 anni…), sia così sciocca e leggera da potersi permettere di sponsorizzare affidamenti solo a persone o imprenditori con la targa di centrodestra sul sedere. Suvvia, siamo seri. I parlamentari cerchino di occuparsi di problemi reali, hanno solo l’imbarazzo della scelta. Il comportamento della Moratti può essere, anzi è, inopportuno per mere ragioni formali. Ma da qui a scomodare ministro dell’Economia e governatore di Bankitalia ce ne corre. A meno che tutto sto can can non sia il segno, l’ennesimo, della paura degli esponenti democratici di vedere il loro candidato milanese, Beppe Sala, fare la fine di quel porporato che entra Papa in conclave e ne esce cardinale. Quel Sala che, se si volesse usare il medesimo pernicioso ragionamento dei dieci Saint Just in salsa rosa, potrebbe essere sospettato di aver utilizzato il ruolo pubblico di commissario Expo per lanciare la sua campagna per Milano. Ma, appunto, le barzellette preferiamo lasciarle ai politici.

 


Piano sosta, per ora è solo una tosatura con promesse troppo vaghe

parcometroHa scomodato la parola “coraggio” l’assessore alla Mobilità del Comune di Bergamo, Stefano Zenoni, nell’annunciare le modifiche al Piano della sosta. E in effetti ci vuole davvero un bel coraggio a definire “l’Area C di Bergamo” una serie di misure che rappresentano nulla più che una tosatura degli automobilisti, residenti o provenienti da fuori. Un pacchetto di aumenti (compresa l’introduzione di una nuova gabella) a fronte del quale non si garantisce alcunché se non vaghe promesse di investimenti sulla “mobilità sostenibile”.
E dire che proprio su queste colonne, partendo dal riconoscimento del valore dell’assessore, ci eravamo permessi di sollecitare un intervento del Comune su una materia da troppo tempo lasciata nel limbo per mere preoccupazioni elettorali.  “Stiamo lavorando” era l’assicurazione che filtrava da Palazzo Frizzoni. Ci si aspettava di veder spuntare qualcosa di importante, di veramente innovativo, di realmente coraggioso (perché la materia è incandescente, le corporazioni degli automobilisti e dei commercianti sono temibili). E invece, cosa salta fuori? Un aumento del costo dei parcheggi, una estensione del pagamento anche nei giorni festivi, l’introduzione del pagamento anche per il parcheggio dei residenti nelle strisce gialle.

Anche un bambino non particolarmente sveglio capisce che si tratta di una manovra fiscale (da tassazione indiretta) mascherata da Piano della sosta. Una pesca a strascico infiocchettata da parole e paragoni che ad una prima e banale analisi critica mostra la corda. E’ il modo stesso utilizzato dall’assessore Zenoni e dal sindaco Giorgio Gori a legittimare i dubbi. Già tirare in ballo Milano e l’Area C rappresenta una pura mistificazione. Il provvedimento milanese è una “congestion charge”, cioè un pedaggio che si fa pagare a chi entra in una determinata area quale contropartita per l’inquinamento che provoca circolando. Non ha nulla a che vedere con la sosta (a questa, semmai, si aggiunge). Nella velina distribuita ai giornalisti (che se la sono bevuta senza colpo ferire, ahinoi), si dice che i residenti a Milano hanno diritto a 40 accessi gratis all’anno (oltre pagano 2 euro ad ingresso). Non si dice, perché qui cascherebbe l’asino, che i residenti non pagano la sosta nelle strisce gialle. Ergo, se si muovono all’interno dell’Area C oppure se non utilizzano l’auto per andare al lavoro oppure ancora se la utilizzano ma al di fuori degli orari di pedaggio, non sono tenuti al pagamento di alcunché. Assessore Zenoni, ci spiega dove sta la similitudine con le misure che lei vorrebbe adottare?
Il paragone con Milano è improvvido per almeno un’altra ragione. Come chiunque si sia recato almeno una volta nella vita sotto la Madunina, raggiungere il centro con i mezzi pubblici è un giochetto da ragazzi da qualsiasi zona si voglia partire. Perché ci sono parcheggi di attestamento, linee di metropolitana e di tram che consentono di spostarsi in tempi rapidi senza dover necessariamente ricorrere al mezzo privato. A Bergamo non c’è nulla di tutto ciò. Non c’è la metro, ma nemmeno quei due-tre parcheggi di interscambio – che pure sono stati realizzati – sono stati serviti da corsie preferenziali, conditio sine qua non per renderli utili. Aumentare i parcheggi di per sé non servirà a tenere lontane le auto dal centro di Bergamo se non si offriranno reali ed efficienti alternative.

Ed è qui la maggiore criticità del Piano presentato dal Comune (senza dire che sono stati forniti paragoni con un pugno di città utili solo al caso proprio, vere eccezioni in un panorama che offre situazione di segno diverso, con tariffe dei parcheggi più basse  e nessun pagamento della sosta dei residenti, Brescia docet). Da un lato, prendendo per buoni i numeri forniti da Palazzo Frizzoni, si incasseranno 650 mila euro (a fronte di un introito complessivo attuale di 3 milioni di euro, quindi una stangata del 20 per cento), dall’altro si parla di “accelerazione della mobilità sostenibile”, bike e car sharing per intenderci. Un po’ poco e un po’ troppo vago, come reinvestimento. Per la verità, c’è anche un vago accenno al metrobus. Ottimo, se non fosse che il progetto è sul tavolo del sindaco e dell’assessore da parecchi mesi ma da lì non esce. Forse, tirarlo fuori in concomitanza con l’annuncio della tosatura sarebbe stato un segno manifesto della volontà di non limitarsi ad agire sulla leva fiscale. E comunque, è arrivato il tempo di mostrarlo e, soprattutto, di metterlo in cantiere. Insieme, se ne esistono nei cassetti del Palazzo, ad altri progetti che incidano sul sistema della mobilità cittadina.
Sosta e viabilità non sono due compartimenti stagni. Anzi, l’uno è molto condizionato dall’altro. E se si interviene solo su una gamba, il risultato è di ritrovarsi alle prese con un’anatra zoppa. Si fa contento il cassiere, certo, si dà una bella sistemata al bilancio così da gonfiare il petto dicendo che non si aumentano le tasse (quelle dirette…). Ma non si raggiunge di sicuro l’obiettivo di rendere, come si dice nelle premesse, la città più vivibile.

 


Brexit, tra aziende e immigrati lo scenario si fa incerto

BrexitSi tratta di un momento storico l’elezione di un sindaco musulmano in una grande e multiculturale metropoli europea. Da venerdì Sadiq Khan è alla guida di Londra. In un momento in cui si innalza un fervore anti immigrazione e slogan populisti cavalcano la paura destata dagli attentati di Parigi e Bruxelles, si tratta di una bella notizia. Figlio di un autista di autobus pakistano e di una sarta, cresciuto in una casa popolare nel sud di Londra con altri sette fratelli, non poteva essere un candidato più diverso da Zac Goldsmith, telegenico e con un sorriso da copertina, figlio di un multimiliardario ed ecologista, studente prima a Eton e poi a Cambridge. Il nuovo sindaco di Londra, una città dove circa un residente su otto è musulmano, avrà un bel da fare davanti a sé. Quello che però tutti non sanno, è il fatto che i suoi poteri non sono vasti quanto sembrano. Londra ha un sindaco eletto dal residente solo dal 2000. Contrariamente alle città italiane, o a quelle americane, i suoi poteri riguardano il sistema dei trasporti, le forze dell’ordine e l’edilizia, ma non nella loro totalità. E’ come se avesse nelle sue mani solo cinque bottoni dell’intera stanza. Di certo, come molti londinesi, è un perfetto rappresentante di tante identità che non sarebbero facilmente coniugabili in altri luoghi nel mondo. Parlando di sé, si definisce: londinese, europeo, di fede islamica, di origine pakistana, un padre, un marito. E’ riuscito ad attrarre l’odio e le minacce delle frange più tradizionaliste della comunità islamica quando, nel ruolo di parlamentare, ha votato a favore delle nozze gay, e attrarre il voto dell’ elettorato conservatore, che non si sentiva rappresentato dalle visioni anti Europa di Goldsmith.

Non è il solo sindaco musulmano d’Europa. Ad accompagnarlo c’è, a Rotterdam, il sindaco di origine marocchina Ahmed Aboutaleb, è divenuto uno dei politici più amati nel suo Paese, ed è stato indicato da alcuni come un papabile primo ministro dell’Olanda in un futuro vicino. L’Olanda, non dimentichiamoci, che ha manifestato negli ultimi anni accesi sentimenti anti islam. Ma se da un lato Londra affida le chiavi della città a un politico che rappresenta il successo dell’integrazione, il resto del Paese sembra andare nella direzione opposta e si interroga  su come potrebbe apparire lo scenario dell’immigrazione in caso si votasse per la Brexit. Uno scenario che non piace alla City e alle grandi aziende, ma che ha numeri e statistiche interessanti. Se l’Inghilterra lasciasse l’Europa, chi già vi risiede non verrebbe cacciato via. Ma per i nuovi arrivati la faccenda si complicherebbe. E sa da un lato abbiamo chi cerca lavoro, dall’altra abbiamo le aziende che negli ultimi decenni si sono abituate a impiegare manodopera, o competenze più qualificate, provenienti dall’Europa. Due milioni e 200 mila lavoratori europei si trovano, impiegati a tempo pieno nello UK. Di questi, quasi un milione sono concentrati nella capitale, mentre oltre 2 milioni di immigrati vengono dal resto del mondo, Europa esclusa. Il dieci percento di questi sono impiagati nell’industria manifatturiera, quasi 500 mila sono nel settore turistico tra hotel, ristoranti e un numero simile è nella finanza, rappresentando circa il 7 percento dell’intero settore. Nessuno davvero sa che cosa accadrebbe in caso di uscita dall’Europa, perché nessun paese prima d’ora l’ha fatto. Di certo l’Inghilterra continuerà ad avere bisogno di immigrati, altrimenti chi servirà i clienti nei bar della capitale, e lavorerà negli hotel? O dove si troveranno degli ingegneri qualificati?

 

 


Caso Lodi, per la politica è tempo di pulizie non di attacchi alle toghe

Giorgio Gori stavolta è stato troppo impaziente. Se solo avesse aspettato di leggere gli atti che stavano uscendo da Lodi con ogni probabilità, da uomo accorto e attento a misurare le parole qual è, si sarebbe risparmiato quella che, fatti salvi gli aspetti personali, è parsa una difesa aprioristica del collega sindaco dem Simone Uggetti, arrestato per turbativa d’asta. Quel “personalmente lo conosco come persona per bene”, purtroppo per il nostro primo cittadino, stona di fronte a chi cerca di formattare il computer per nascondere le prove del trucco, si dà del cogl… da solo per non averlo fatto con la maestria dei lestofanti di professione e chiede appuntamento al comandante della Guardia di Finanza per cercare di conoscere se esiste una inchiesta su di lui. Fatta salva, come si dice sempre in questi casi, la presunzione d’innocenza, e sottolineato che non viene contestato un reato gravissimo (ma pur sempre un reato inaccettabile per un pubblico amministratore), la definizione di “persona per bene” non c’azzecca proprio con Uggetti.
Ma le battute a vuoto come quelle di Gori, seconda solo alla difesa d’ufficio del deputato pd Emanuele Fiano che a caldo ha tuonato “in tema di moralità non prendiamo lezioni da nessuno…” salvo smorzare i toni poche ore più tardi di fronte ai primi lanci di agenzia, succedono quando si mette il tema dei rapporti tra politica e magistratura su un piano di guerriglia. Come sta facendo da qualche settimana il lider maximo dei democratici. Quasi del tutto incurante degli scandali che ogni tre per due riempiono le cronache dei media, Renzi ha preso a sparacchiare parole un po’ a casaccio, fino a descrivere l’ultimo ventennio come caratterizzato da una sorta di “barbarie giustizialista”. Un marziano sceso per caso a fare un giretto tra Napoli e Roma non avrebbe saputo spararla più grossa. O forse a Firenze gli echi degli arresti avvenuti in ogni dove dello Stivale non sono mai arrivati, forse per non turbare la sensibilità artistica di chi vive in riva all’Arno.
Si capisce che, anche per talune uscite sopra le righe (più nei toni che nei contenuti) del nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo, siamo di nuovo alle prese con una delle tante riprese del lunghissimo match tra politica e toghe iniziato negli anni Novanta. Ma, senza per forza essere tacciati di giustizialismo, a noi piacerebbe che chi ha responsabilità pubbliche, si tratti di un premier o di un sindaco, cominciasse a condannare senza se e senza ma chi abusa del proprio ruolo prima di imbarcarsi in polemiche con la magistratura. Piaccia o non piaccia, fino a che i politici (di tutti i colori, intendiamoci, perché qui in Lombardia mica ce li siamo dimenticati i Mario Mantovani e i Fabio Rizzi) continuano a farsi beccare con le dita sporche di materia organica, non c’è speranza di riportare il confronto ad un clima sereno.
I cittadini ne hanno piene le tasche, reclamano pulizia e rigore. E se anche talvolta si coglie un eccesso nelle iniziative giudiziarie, ciò viene tollerato sull’altare della buona causa. L’unico modo per invertire questa tendenza, che è drammatica sia chiaro, è quella di una vera e netta assunzione di responsabilità da parte della classe politica. Che deve arrivare prima e più duramente della magistratura, che non può non sapere chi mette a tavola, che non può ritenersi impunita. Che non può definire “per bene” chi gioca con le gare d’appalto. Solo quando sarà stato fatto questo lavacro sarà possibile richiamare ciascuno ai propri ruoli. Prima di allora un bel silenzio, operoso se possibile, sarebbe la cosa migliore.

 


La Bergamo-Treviglio? Lasciamo perdere la superstrada e rilanciamo il treno

bergamo treviglioOgni tanto, a leggere le cronache locali, più che nella grigia e pragmatica Bergamo pare di vivere nella sfavillante e fantasiosa Disneyland. Se si tratta di parlare di infrastrutture, infatti, pare che sia tutto possibile. Che si tratti del treno per Orio o della fermata dell’ospedale, della linea del tram per la Valle Brembana o dell’autostrada Bergamo-Treviglio, è tutto un fiorire di idee, progetti, cartine e planimetrie. Una gara a chi vola più alto, fra buone intenzioni e demagogia politica da giovanotti in carriera, del tutto incurante della cronica mancanza di risorse da un lato e del sempre più evidente fallimento di faraoniche opere di un recentissimo passato (do you remember Brebemi?) dall’altro.
In questi giorni riaffiora, come un torrente carsico, l’idea di un collegamento diretto tra il capoluogo e la capitale della Bassa. Un tempo si parlava di una vera e propria autostrada; ora si ipotizza una superstrada a due corsie a pedaggio (?). Nell’uno come nell’altro caso, pare che ci vogliano non meno di 180 milioni di euro. Che non ci sono, che non è ipotizzabile vengano dallo Stato o dalla pur sempre munifica Regione (almeno a star a sentire l’assessore Sorte che da reincarnazione del mago Houdini pare riesca sempre a trovare soldi laddove prima non c’erano…), che non è credibile possano arrivare così facilmente da operazioni di project financing che proprio nella Bassa hanno mostrato e mostrano di non essere sostenibili senza un aiuto, diretto o indiretto, di Pantalone.
Autostrada (o superstrada) Bergamo-Treviglio no grazie, allora? Sì, è bene dirlo forte. E non per pruriti ambientalisti o per disfattismo. Ma per semplice realismo. Perché, al netto di tante visionarie trombonate che ci sono state ammannite nell’ultimo ventennio sull’ineludibile necessità di costruire arterie stradali di ogni tipo per assecondare uno sviluppo che non si è visto o che ha preferito affidarsi alle infrastrutture immateriali, un collegamento diretto tra Bergamo e Treviglio esiste già. Collega tutti i paesi intermedi lungo l’asse nord sud ed è utilizzabile sia per le persone che per le merci. Si chiama treno. La linea viaggia su un doppio binario ed è collegabile, attraverso il nodo di Treviglio, alla Torino-Venezia. Cioè una delle direttrici economiche più importante che ora verrà ulteriormente potenziata con l’alta velocità.
In qualsiasi paese moderno, dove il rapporto costi benefici abbia ancora un senso, nessuno si sognerebbe di investire decine e decine di milioni di euro per un’autostrada di 25 chilometri che poi finirebbe a sua volta nel buco nero della Brebemi. Soprattutto se già si dispone di una infrastruttura ferroviaria. Che, se proprio si manifesta la necessità di migliorare i collegamenti, può essere benissimo adeguata alle nuove esigenze con investimenti decisamente inferiori (anche non calcolando quelli ambientali, che pure ci sarebbero) a quelli che comporterebbe la maxicolata di asfalto. Se si vuole discutere seriamente nessuno guardi al servizio che oggi viene fornito sulla linea Bergamo-Treviglio.  E’ a dir poco penoso, sia in termini di orari che di carrozze messe a disposizione. Ma basterebbe poco per rilanciarlo e per renderlo appetibile, se solo chi ne ha le competenze istituzionali avesse la capacità di comprenderne la valenza strategica e se gli attori economici del territorio si mobilitassero, con la loro pur residuale influenza su quel che rimane della politica, per orientarne le scelte.
Nella Disneyland bergamasca, invece, si continua a favoleggiare. Così che perfino una banale variante per bypassare il centro di Verdello (non realizzata per l’insipienza degli amministratori locali di marca leghista), l’unica opera stradale che avrebbe davvero senso in quella fetta di territorio, diventa un impervio Everest da scalare.  C’è bisogno di aggiungere altro?


Una seconda Liberazione? Finirla con i soprusi in nome della libertà

Voglio raccontarvi una cosa che mi è capitata ieri, 25 aprile: io mi trovavo in Toscana per lavoro e, insieme a mia moglie e ad una coppia di cari amici, stavo festeggiando il mio onomastico: come spesso accade, ho voluto fare un post su Facebook, così, per sottolineare la ricorrenza e ho postato una foto artistica di un leone di San Marco. Subito, molti conoscenti hanno risposto, facendomi gli auguri. Tra questi c’era anche un ex consigliere comunale di centrosinistra, col quale sono in buoni rapporti, anche se, qualche volta, ci punzecchiamo un po’: solo che, oltre a farmi i predetti auguri, lui ha voluto metterci la provocazioncella politica. Non mi ha augurato buon onomastico, infatti, ma buona festa della Liberazione. Io gli ho risposto, un tantino piccato, che lui si festeggiasse quel che gli pareva, ma che, in quella sede, io stavo gioendo per il mio onomastico e basta: apriti cielo, come prevedibile, è partito il pistolotto! Se non ci fosse stata la Liberazione, un qualunque Pavolini (chissà poi perché proprio Pavolini?) avrebbe potuto impedirti di parlare… A questo punto, mi è saltata la mosca al naso e gli ho risposto di andare pure a farsi la sua bella manifestazione, con tanto di benedizione da parte mia, che io avrei mangiato e bevuto tale e quale.

Liberazione 25 aprilePerò, adesso, vorrei spiegare a voi e, se mi leggerà, a lui, come la vedo veramente. Il fatto è che io, venuto al mondo nel 1960, ho avuto la fortuna di nascere libero: Pavolini, quando l’ostetrica della clinica Castelli mi ha scodellato in braccio a mio papà, era morto da quindici anni e, con la mia, diciamo così, Bildung, non ha avuto niente a che fare. In compenso, quando sono arrivato al liceo, mi sono trovato davanti torme di giovanotti, più anziani di me di qualche annetto, che non mi lasciavano entrare in classe, perché avevano deciso autonomamente che tutti dovessero aderire ai loro scioperi. I medesimi o i loro omologhi erano quelli che, nelle assemblee d’istituto, impedivano, se necessario con la forza, a chi non la pensasse come loro, di parlare. Va detto che quello che loro pensavano, con il passare del tempo, si è rivelata la più colossale boiata ideologica degli ultimi duecento anni: allora, però, andava di moda, così come andava di moda zittire, con le buone o con le cattive, qualunque forma di dissenso. E, tutto questo, in nome della libertà e della democrazia. Pur essendo uno sprovveduto ginnasiale quattordicenne, notai da subito una certa discrepanza tra il dire ed il fare di questi aspiranti capipopolo: e mi montò una rabbia che ancora non mi sbolle e che, in sostanza, ha fatto di un agnostico istintivo un uomo di destra. Innanzitutto, perché mi sembrava e mi sembra un’ingiustizia mostruosa usare parole come “libertà” o “democrazia” per mascherare la prepotenza e la prevaricazione e, poi, perché questa bella abitudine, mutatis mutandis, non è affatto cambiata.

Oggi, i giovanotti di allora, divenuti spesso ricchi ed attempati professionisti, fanno ancora di tutto per isolare, marginalizzare, escludere da ogni attività e da ogni opportunità chi non sia loro sodale: e l’interpellanza in Comune a Bergamo sulla mia esclusione da ogni iniziativa per il centenario della Grande Guerra la dice lunghissima su come funzionino le cose. I loro eredi, invece, inscenano ogni tre per due allarmi democratici, manifestazioni, presidi, insultando serenamente chiunque dissenta dal loro credo, quando non mettono a ferro e fuoco qualche centro cittadino. Il che deriva, in fondo, da un misto di ignoranza abissale, di invidietta sociale e di sacrosanta paura di doversi rimboccare le maniche: i nipotini coccolatissimi della rivoluzione, alla fine, vogliono autolegittimarsi come sentinelle della democrazia soprattutto per non pagare l’affitto. Così, leggo su internet che hanno assimilato, in un medesimo odio, personaggi diversissimi come Mussolini, Sora e Locatelli, sulla base di una comune fede fascista: inutile dire che questo equivarrebbe a mettere sullo stesso piano Stalin, Gramsci e Berlinguer, ma so già che questo tipo di argomenti non arriva ai neuroni degli interessati. Dico solo che la logica delle 1.500 firme contro i tre incriminati è la stessa dei quattro giovanotti che impedivano a tutto il “Sarpi” di fare lezione: togliete pure tutte le cittadinanze che volete, ma non perché ve lo impone una assoluta minoranza di strillatori professionali, perché significherebbe dare ancora ragione alla logica inaccettabile della “prepotenza democratica”. Farla finita con i soprusi in nome della libertà: questa sì che sarebbe una seconda Liberazione!


Caro Gori, sul rilancio del centro forse si sta perdendo troppo tempo

Si torna a parlare del centro città, della sua perdita di appeal commerciale, del progressivo spopolamento. Attraverso una serie di interviste a soggetti istituzionali, L’Eco di Bergamo ha risollevato il tema, tanto vecchio quanto paradossalmente sempre attuale. Ha detto la sua, pur vincendo un’ iniziale resistenza, anche il sindaco Giorgio Gori. “Riporterò i bergamaschi a fare shopping in centro” ha garantito. E poi ha spiegato come si sta muovendo l’Amministrazione comunale. Benissimo, qualche elemento in più per capire ora l’abbiamo. Ma, pur sapendo di andare incontro al pericolo di far inarcare il sopracciglio al primo cittadino, amante più degli elogi che delle osservazioni quand’anche fatte senza alcun spirito di parte, vorremmo sommessamente osservare che proprio su questo fronte, non necessariamente il più rilevante della sua esperienza alla guida della città, non si è ancora avvertito quello scatto in avanti, quella svolta di metodo e di merito promessa agli elettori.

Sono passati quasi due anni, è doveroso ricordarlo, dall’insediamento, un tempo non lunghissimo ma nemmeno così breve per avere chiaro in testa il quadro delle problematiche di cui soffre il centro città (non Valtesse o Boccaleone, con rispetto parlando). Del famoso-famigerato concorso internazionale di idee, salvo errori, non c’è ancora traccia. Al momento, da quel che è dato sapere, visto che Gori ama lavorare sottotraccia, esisterebbe una “visione” largamente condivisa con gli attori del Distretto Urbano del Commercio. Non se ne conoscono i contenuti, ma forse è giusto che fino a che il puzzle non sarà completato rimanga riservato. Purché, tuttavia, l’attesa non si prolunghi all’infinito.

Come per gli interventi sulla viabilità, è tempo di mettere a profitto le idee. Per una ragione molto semplice: le lungaggini della burocrazia, un dazio da cui nessuno può sentirsi esentato, sicuramente imporranno lunghi intervalli fra la decisione e la realizzazione. Due anni sono già volati via, ne restano tre ma non si creda che sia poi tutto questo tempo. Soprattutto se, come qualche volta par di capire, si immaginano anche decisioni che andranno ad impattare sulla sosta e la viabilità. L’esperienza insegna che Bergamo è la città, come ebbe a dire Roberto Bruni, del “toca negot” (non toccare niente) e sempre, anche quando sono stati adottati provvedimenti che a lungo andare si sono rivelati lungimiranti (pedonalizzazione di via XX Settembre), al loro apparire hanno provocato scontri, polemiche, tensioni. E conseguente perdita di tempo.

Ecco perché Gori deve imprimere un’ accelerazione. Su altri fronti, di prospettiva, vedi il recupero della Montelungo e del teatro Donizetti, o di rilancio della politica culturale, il sindaco ha saputo dar segno di discontinuità rispetto ad un recente passato fatto di equilibrismo buonista fine a se stesso (e infatti gli elettori hanno voltato pagina). Al contrario, impiegare due anni per arrivare a definire, non ancora varare, una variante urbanistica che consenta l’apertura di superfici commerciali superiori ai 400 mq, non è proprio una performance da Speedy Gonzales. Così come si sta facendo attendere un po’ troppo lo studio (solo lo studio, eh) del tram bus, uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale.
Sono solo due esempi, altri se ne potrebbero fare. Non abbiamo dubbi che il primo ad essere conscio della necessità-opportunità di stringere i tempi sia lo stesso Gori. Forse lui, da manager di successo, lo declina all’inglese, ma anche per un amministratore pubblico vale il vecchio precetto bergamasco secondo il quale va bene discutere attorno al tavolo, ma a mezzogiorno “la polenta va messa in tavola”.


Una gaffe dietro l’altra, quanta ignoranza tra i politici

Sapete, quando si scrive o si parla in pubblico, può sempre capitare di commettere qualche errorino: io, per esempio, una volta confusi Guglielmo Giannini, quello dell’ “Uomo Qualunque”, con Alberto Giannini, quello del “Becco Giallo”. Mal me ne incolse, perché l’illustre correlatore mi fece fare una figuraccia penosa, che ancora oggi rammento con imbarazzo ed un senso fastidiosissimo di disagio irrisolto. Fu un disagio salutare, giacchè, da quel giorno funesto, prima di dire una cosa, ci penso dodici volte e mi documento più che posso: la topica resta sempre dietro l’angolo, ma, perlomeno, è un rischio più remoto. Invece, mercè forse la schiera di leccaculi, che fa sì con la testa a qualunque bestialità il capo estruda, oppure per quel senso di investitura divina che, dalle nostre parti, è solito alonare chi occupi un posto di qualche rilevanza, il comandina di turno non è mai neppure sfiorato dall’ idea che si possano berciare scempiaggini, anche se si è potenti e riveriti.

Fatto sta che costoro, con una frequenza che si sta facendo significativa, esprimono concetti ed esternazioni di un’asinità allarmante: il che, lasciatemelo dire, non è mica tanto un bel segnale. Io rammento la sparacchiata ciclotronica della Gelmini, che, evidentemente frastornata dalla velocità siderale con cui la sua auto blu la riporta a casina bella, immaginò un tunnel che portava da Ginevra al Gran Sasso. Allora, tutta l’Italia rise della maestrineggiante Gelmini: sarà che era berlusconiana, sarà che aveva un bell’accento bresciano, da fare innamorare i sassi, la cosa venne stigmatizzata e ridicolizzata secondo merito. Poi, però, questo genere di idiozie, vuoi per l’aumentata frequenza, vuoi per la mutata tendenza politica degli esternatori, ha cominciato a passare sempre più sotto silenzio. La ministra Giannini (l’ennesimo Giannini, maledizione!) ha confuso serenamente il caccia F35 con un modello di missile, e si è sentita solo qualche risatina, tra gli addetti ai lavori: ed era il ministro della Difesa, non della salumeria. Però, magari, la maggioranza degli Italiani, dopo decenni di pacifismo demente e di ignoranza scolastica, non era tenuta a riconoscere l’entità della cantonata.

Che dire, tuttavia, di questi giorni grami, in cui il presidente del Consiglio e la presidente della Camera, in meravigliosa congiunzione astrale, sono riusciti a dirne due che, davvero, fanno tremare i pilastri? Il primo, in un empito di entusiasmo, si deve essere detto: massì, balla più balla meno, spariamola grossa, che, tanto, chi vuoi che se ne accorga, in mezzo a tante balle? Così, serenamente, ha raccontato al Paese che il tunnel del San Gottardo, la galleria ferroviaria per alta velocità più lunga del mondo, capolavoro di efficienza e di ingegneria elvetica, 57 chilometri di svizzeraggine allo stato puro, in realtà l’abbiamo fatto noi. Che, a un dipresso, sarebbe come dire che abbiamo fatto noi la Tour Eiffel, il Muro di Berlino e le Piramidi, tutto assieme. Avete sentito qualcuno dare del pirla all’estensore di sì formidabile sparata? Macchè: nemmeno un plissé. Molto ben detto eccellenza, congratulazioni eccellenza, bravissimo davvero eccellenza. Pensate che delusione, quando uno dei sessanta milioni di appecorati si dirigerà pieno d’orgoglio verso il centro d’Europa, convinto di usufruire dell’altissima tecnologia italica, e a Chiasso si troverà i doganieri svizzeri! Dunque, a Renzi tre in geografia e due in onestà ideologica.

Ma che dire della presidentessa Boldrini, che, due giorni fa, l’ha sparata altrettanto grossa, passando dalla geografia alla storia? Certo, io capisco che, per assecondare l’uzzolo personale nei confronti dell’immigrazione, cui la gentile signora pare tenere più che alla propria nomea culturale, ogni arma sia buona: tuttavia sostenere, senza mettersi a ridere, che il vallo di Adriano, costruito nel II secolo dopo Cristo dall’omonimo imperatore, abbia impedito ai Romani di amalgamarsi felicemente coi loro dirimpettai, è davvero imbarazzante. Perché quello era il Limes: dall’altra parte c’erano i cazzutissimi predoni Pitti, mica i bambini siriani cogli occhioni sgranati. Così va il mondo. D’altra parte, anche noi, in fondo, abbiamo un’assessora alla Cultura che è convinta, al punto da scriverlo, che la prima guerra mondiale sia iniziata il 23 agosto. E nessuno si sogna di farle notare che è una castroneria colossale: specialmente, guardacaso, i superesperti che ha messo nel comitato per il centenario della Grande Guerra. Gli antichi progenitori, privi del fondamentale apporto culturale delle genti caledonie, avrebbero commentato: asinus asinum fricat.