Troppi giudizi parziali, così declina la nostra convivenza civile

scuolaL’idea che ci sia un giudice, a Berlino come altrove, ci rassicura da almeno trecento anni: da quando è stato introdotto il moderno concetto di diritto, se ci fate caso, tutta la nostra esistenza si è fondata sulla pacificante illusione che qualcuno valuti equamente e decida di noi e dei nostri rapporti con il mondo esterno. Ci sono maestri e professori che giudicano del nostro impegno e della nostra vocazione per le lettere o per le matematiche, confessori che misurano il nostro grado di probità, psicologi che ci dicono se e quanto siamo felici, colonnine arancioni che ci informano circa il nostro rispetto dei limiti di velocità e così via. Insomma, la nostra vita è costantemente monitorata e, quando necessario, riallineata da dei giudici, che, imparzialmente, ci assegnano palline bianche o palline nere, ci fanno avanzare o retrocedere, ci ammoniscono o ci premiano. Le suocere, in un certo senso, sono, a loro volta, giudici succedanei, se rendo l’idea. Tutto questo, come ogni trovata di origine illuminista, è molto bello, utile ed appagante, in teoria, salvo scontrarsi con la dura realtà: maestri e professori che scaricano sugli alunni le proprie personalissime nevrosi, confessori che abusano della catechista, psicologi che si inventano farneticazioni proiettive e colonnine arancioni che servono solo a fare cassa, non contribuiscono certamente a consolidare la nostra fiducia nei giudizi e nei giudici. E massime in un posto come l’Italia, in cui il grado di clientelismo, di corruzione e di imbarazzante lassità morale raggiunge picchi da manuale.

Dunque, la questione non è più quella della presenza o meno di un giudice, a Berlino come altrove, ma quella della credibilità del giudice. Non mi riferisco, naturalmente, solo alla magistratura, ossia ai giudici deputati e stipendiati allo scopo di difendere il diritto ed applicare la legge, sibbene a tutte le figure il cui compito, istituzionale o tradizionale, sia quello di esprimere giudizi. Che dire di insegnanti, ad esempio, che, in sede di scrutini o di esami di maturità, operano in modo irrituale (e sono buono usando questo aggettivo) per farla pagare agli studenti che stanno loro di traverso? E che dire di concorsi pieni di errori, di manipolazioni, di pasticci, che devono essere rifatti ogni volta per vizi formali e sostanziali? Qualche dubbio ci viene, non è vero? E questo dubbio, questa idea che la legge non sia mai uguale per tutti, che a me per uno scontrino da due euro diano un multone e a te, per una truffa milionaria, non facciano niente, è come un tarlo, che corrode la nostra fiducia nella società, nello Stato, nella gente che ci circonda. E’ la morte dell’idea comunitaria di istituzioni. Ognuno, perciò, vive nel sospetto di essere gabbato: guarda al proprio vicino come ad un potenziale competitore, chiedendosi di quali appoggi goda, chi lo abbia raccomandato, a chi si sia rivolto. E’ la società clientelare, che si contrappone alla società del diritto, casomai volessimo dare un nome alle cose.

Anche a me, nel mio piccolo, è capitato mille volte di scontrarmi con questa bruttissima realtà: giudici che danno ragione ai ladri, in quanto enfants du pays e torto al forestiero che ha dalla sua la legge, professori che insufflano nel collega che ti deve esaminare pregiudizi devianti, vigili che si mostrano implacabili verso la tua pagliuzza e malleabilissimi verso le altrui travi…eh, cari miei, troppe ne ho viste. E chissà quante ne avrete viste voi! In definitiva, è come se sapere che, a Berlino come altrove, ci sia un giudice non ci bastasse più: non ci fidassimo più del criterio con cui chi ci giudica viene scelto ed opera. E capirete che non è una bella sensazione. Però, così stanno le cose: questo è il punto di arrivo di una lunghissima catena di impercettibili cedimenti etici. Un poco alla volta, il cittadino comincia a smettere di credere che esista un sistema virtuoso, basato sulla semplicissima regoletta del “chi ha ragione vince”, “chi merita passa”, “chi rispetta è rispettato”, e si addentra, suo malgrado, nella jungla del “chi ha la raccomandazione più forte vince”, “chi imbroglia passa”, “chi è forte è rispettato”: in questo modo, la società civile diventa una società mafiosa, piano piano, a piccolissimi passi. E le reazioni del nostro bravo cittadino possono essere solo due: o cerca di opporsi alla fanga che gli sale lungo i polpacci, e allora vivrà una vita di rabbie e di delusioni continue; oppure si adegua, si attrezza, cerca di ritrovare nell’agenda il numero di telefono di quel suo compagno delle medie che adesso fa il sostituto procuratore, contatta l’amico primario per saltare anche lui la fila, raccomanda il figlio al dirigente scolastico che gli deve un favore.

La ‘descalation’ dalla Scandinavia all’America Latina avviene così: un cittadino alla volta. Ti affidi a giudici che ti fregano una, due, tre volte, finché non ne puoi più e, anziché ad un giudizio nella cui imparzialità e serietà non credi più, ti affidi alla protezione di un padrino. E l’Italia è piena di questi piccoli e grandi padrini: di gente che ti dice “ci penso io”, “lascia fare a me”. Professionisti, funzionari, politicanti, che, con aria paciosa e col sorriso dell’amico vero ti oliano le serrature, ti tengono aperta la porta. Nulla di penale, come dicono in televisione: no certo, nulla di penale, ma moltissimo di morale. I danni che derivano alla qualità della nostra vita civile da questo andazzo e dall’assoluta sfiducia in figure terze che diano dei giudizi universalmente accettati, basati su criteri di imparzialità e serietà, sono enormi e, temo, irreparabili. Perché questo personalismo, questo egoismo trasformato in sistema, mina alle radici l’idea stessa di convivenza civile: ci ributta indietro di secoli, quando la libertà non era un diritto limitato solo da altri diritti, ma un privilegio, concesso da un potente ad uno meno potente. E quel sistema si chiamava feudalesimo.


Brebemi ha la memoria corta e i conti sul traffico non tornano

Brebemi - CopiaLa verità, anche se a fatica, si fa sempre strada. Specie se viaggia su un’auto(strada) semideserta come la Brebemi. Basta solo avere un poco di pazienza, conservare qualche articolo di giornale e il gioco di sbugiardare chi si ostina a raccontarci una realtà virtuale, cioè quella di un’arteria in costante crescita di traffico in netto stridore con la semplice osservazione delle corsie solcate da sparuti mezzi, è facilissimo. Perché solo i superficiali, o gli addetti stampa mascherati da cronisti, possono credere all’ultima comunicazione fatta filtrare nei giorni scorsi dai vertici della società concessionaria dell’autostrada che collega Brescia con Milano. O meglio, se vi credono, e adesso ci spieghiamo, devono anche spiegarci come i numeri di oggi si conciliano con quelli diffusi lo scorso anno.
Andiamo con ordine. Brebemi ci ha fatto sapere che nel giugno 2016 i flussi di traffico sono risultati in crescita del 40 per cento rispetto a dodici mesi prima. I veicoli teorici medi giornalieri sono passati da 11.966 a 16.211 (per un numero di transiti pari all’incirca al doppio). Bene, anzi benissimo. L’autostrada eppur si muove. Ma, appunto, vediamo se c’è coerenza con quanto raccontato in passato. Nel luglio del 2015, per esempio, in una intervista al Corriere di Brescia il presidente di Brebemi, Franco Bettoni, da sempre impegnato (anche comprensibilmente) a difendere ad oltranza la sua “creatura”, spiegava che il traffico cresceva del 2 per cento a settimana (!) e che si contava di arrivare a fine anno (2015, si badi) a 20 mila veicoli. Altre cifre, tutte dello stesso tenore ottimistico, diciamo così, sono state propalate nei mesi seguenti.
Orbene, anche un bambino che frequenta la quinta elementare è in grado di verificare che i conti non tornano. Non tornano, anzitutto, tra quanto dichiarato ieri e quanto spiegato oggi. Non per colpa della stampa cattiva, dallo stesso Bettoni pure accusata di essere manovrata da fantomatici burattinai, ma della società concessionaria che, come tutti quelli che raccontano favole, si è dimenticata di mantenere un minimo di coerenza fra tutte le sue uscite pubbliche. E non tornano soprattutto se si guarda al futuro dell’autostrada. Anche qui ci era stato spiegato che nel giro di poco tempo Brebemi avrebbe dovuto raggiungere volumi di traffico di 40 mila veicoli al giorno con punte di 65 mila. Se dopo due anni, pur in attesa del collegamento diretto con la A4 dal quale ci si attendono (chissà perché) miracoli, non si raggiungono nemmeno i 20 mila, beh, far quadrare i conti sarà sempre più duro. E lo spauracchio di una consegna dei libri contabili in tribunale sempre più concreto.
Sia chiaro, l’opera c’è e per quanto ormai appaia evidente anche ai più duri di comprendonio che è largamente sovradimensionata (con quale consumo di territorio è inutile sottolineare…) ce la dovremo tenere. Solo che, nata come opera integralmente a carico dei privati, rischia di finire sul groppone dello Stato. Già sono stati versati oltre trecento milioni di denaro pubblico a fondo perduto, in aggiunta all’allungamento della concessione. Ma ora il timore è che gli attuali concessionari siano costretti, a dispetto del loro inguaribile ottimismo, a dichiarare forfait. E allora interverrà Pantalone a ripianare tutto e a gestire il carrozzone. Un film già visto, per carità. Peccato che ci era stata proposta una pellicola da oscar.

 

 


Ecco perché terrei i musulmani lontano dalle chiese

Ci sono tanti modi di andare a remengo: un attimo prima sei lì ad incazzarti per una multa ed un attimo dopo sei steso in una bara, con le beghine che belano “Io credo, risorgerò…”. C’è chi schiatta esattamente come è vissuto e chi, invece, interpreta la propria morte come una sorta di rivincita: come se, oltre a tirare la gambetta, gli venisse anche il braccio ad ombrello. Ma, tra le millanta maniere di danzare l’ultima giga, la peggiore, la più stupida, la meno, funereamente parlando, sensata, è quella di morire facendosi prendere per i fondelli. E pare sia questa la fine che la civiltà occidentale ha scelto per sé, nei confronti dell’Islam. Per carità, le civiltà finiscono: i Maya come gli Assiri, probabilmente, pensavano di durare in eterno o, più probabilmente, nemmeno si ponevano la questione. Fanno lodevole eccezione gli antichi norreni, che, forse per via del clima, ritenevano caduche perfino le proprie divinità, tanto da farle perire in una specie di gran battaglia finale tra il bene ed il male: il re dei loro dei sarebbe finito tra le fauci del gran lupo Fenrir, e tanti saluti. Però, consentitemi, c’è modo e modo di tramontare: un conto è un bel Götterdämmerung e altro è mettere la testa sul ceppo, sorridendo al mamelucco che affila la scimitarra, mentre canticchia “Noi saremo sempre amici…”. Amici un par di palle!

Da quando l’Islam si è trasformato da religione per beduini in cerca di unità in energia propulsiva, ha sempre cercato di fare le scarpe ai suoi due concorrenti principali: l’ebraismo ed il cristianesimo. Con l’ebraismo, ha avuto vita relativamente facile, dati i numeri: col cristianesimo, dopo una prima, clamorosa, espansione, che ha portato fino in Francia l’insegna verde del Profeta, c’è stato qualche problemino in più. Questo problemino passa per Poitiers, si organizza dalle parti di Clermont-Ferrand, prosegue per Lepanto ed arriva alle porte di Vienna, con qualche intermezzo bizantino. Insomma, sono, più o meno, quattordici secoli che ce le suoniamo di santa ragione, con delle pause di scambi culturali, di reciprochi salamelecchi e di qualche convivenza commerciale: la storia dei rapporti tra Islam e cristianesimo è questa e non altre. La fiaba dell’ecumenismo, del siamo figli dello stesso Dio, del relativismo monoteista, è cosa recente, come Standard & Poors o i Pokemon. E non mi pare che funzioni: da una parte ci sono le pecore e dall’altra i lupi, il che non aiuta a stabilire rapporti basati sulla reciprocità. E dire che la guerra è una cosa, mentre la religione è cosa affatto diversa è, lasciatemelo dire da storico militare, una bischerata inqualificabile: da Gilgamesh in poi, se c’è stato un catalizzatore formidabile per produrre, giustificare e portare a termine delle guerre, quello è stato la religione. La storia, d’altronde, è zeppa di “Deus lo vult”, “Gott mit uns” e “Montjoie!”. La grande novità, a parte questa scemenza sulla religione e la guerra, è che, adesso, per dimostrare che i musulmani sono buoni e ci vogliono bene, li facciamo venire in chiesa ed assistere alla messa: il che mi pare castroneria vieppiù colossale.

Questo per due ragioni: la prima è che, se i  musulmani vogliono dimostrare solidarietà ai cristiani, possono farlo ogni giorno, denunciando gli estremisti, comportandosi da bravi ragazzi e, magari, andando in piazza a manifestare, anzichè in chiesa a girar le spalle al prete o a predicare sure del Corano in arabo ad un pubblico di fedeli al quale, nella lingua del Profeta, si potrebbe anche ripetere “uno, due, tre, quattro”, che sarebbe lo stesso. La seconda, assai più sostanziale, riguarda noi e loro: anzi, noi e il mondo. Perché, vedete, noi europei (e noi Italiani in particolare), veniamo visti dai cittadini del cosiddetto Terzo Mondo come dei perfetti cretini: gente senza palle e credulona, disposta a sorridere benevolmente e a farsi fregare a mani basse. E il Corano, nei confronti di noialtri, infedeli e fessi patentati, prevede, come strumento del tutto normale ed accettato di dialogo, la Taqiyya (anche Kitman), che starebbe, più o meno (anche le parole arabe, spesso, sono ambigue e dal significato bifronte) per una menzogna detta nell’interesse dell’Islam. L’interesse, di solito, consiste nell’infiltrarsi nella Dar-al-Harb (la “casa della guerra, ossia noi), per indebolire le forze del nemico attraverso la dissimulazione. Come dire che si è moderati, che i terroristi non sono veri musulmani, che non si è informati, che si interpreta male e via discorrendo. Intendiamoci, è verissimo che in Occidente regni la più grossolana disinformazione: questo, però, va spesso a vantaggio proprio della Taqiyya, dato che è uno degli argomenti fondamentali usati per confondere le idee all’avversario. Può essere che tutto questo non esista più, naturalmente: che l’Islam sia radicalmente cambiato e che la Taqiyya se ne sia andata in soffitta, insieme ai Mamelucchi e alle scimitarre. Però, può darsi anche di no: può darsi che ci stiano ingannando, sfruttando la nostra bolsa mancanza di energia e la nostra crisi di identità. Io, nel dubbio, almeno dalle chiese li terrei lontani.

 

 


Renzi, l’Italicum e le riforme: così l’aspirante statista è finito nell’angolo

renzio2.jpgPovero Renzi. Ormai è accerchiato. Nel giro di nemmeno una settimana ha dovuto incassare prima l’invito a rivedere la nuova legge elettorale, il famigerato Italicum, nientemeno che da Giorgio Napolitano, il padre “occulto” del grande (!) disegno riformista del Giovin signore fiorentino, e poi lo stop dell’attuale inquilino del Quirinale, Sergio Mattarella, che per far capire che bisogna smetterla di giocare con le istituzioni ha violentato il suo linguaggio incartapecorito evocando proprio l’ultima moda ludica, i Pokémon.
Ecco perché improvvisamente il ciarliero premier si è ammutolito, ecco perché da giorni si arrabatta, così narrano i retroscenisti più compiacenti, alla ricerca del modo migliore di uscire dalla trappola che con invidiabile spreco di presunzione s’è costruito da solo. Il referendum immaginato come suggello di una svolta epocale ogni giorno di più sembra destinato a rappresentare la tomba della carriera di un giovane di belle speranze, e di qualche innegabile virtù, che a furia di trattare la politica, con le sue poco piacevoli ma ineludibili regole, come una “narrazione” ha smarrito il senso della realtà, la misura delle cose, quell’equilibrio da cui non si può prescindere quando si è chiamati a governare un Paese (ahinoi, cosa leggermente più complessa che fare il sindaco di una pur importante città).
Il mix tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale è considerato indigeribile per un vastissimo schieramento. Perfino tra quanti non sono pregiudizialmente ostili a Renzi, da Eugenio Scalfari a Carlo Debenedetti passando per Giovanni Bazoli, è tutto un fiorire di inviti a rivedere radicalmente la legge elettorale,   pena un No secco al referendum di ottobre-novembre. Il giovanotto toscano finora ha opposto fiera resistenza, ma da quando la stroncatura dell’Italicum è arrivata anche da Giorgio Napolitano (curiosa e tardiva resipiscenza per quello che viene definito, da una folta platea di laudatores a comando, come un genio della politica e uno statista inarrivabile…) ha cominciato ad avvertire gelidi brividi alla schiena.
Ed ora, ci raccontano i cronisti ventriloqui, il presidente del Consiglio sta cercando come arrivare ad una modifica della legge senza farlo capire agli italiani. Ammesso che ci riesca, e probabilmente l’escamotage si troverà nel paese degli arzigogoli, sarà dura che riesca a salvargli la ghirba. Perché il gioco è troppo scoperto. Che l’Italicum fosse discutibile, se non proprio pessimo, era chiaro a molti. Ma finchè era funzionale al consolidamento del potere del Giovin Signore nel Paese del conformismo utilitaristico nessuno osava aprire il becco. Adesso che si è capito che l’Italicum potrebbe consegnare la chiave della stanza dei bottoni al Movimento 5 Stelle, ecco che d’incanto urge una correzione. Ma, appunto, cambiarlo perché pare favorire un altro partito non fa altro che offrire straordinari argomenti proprio a quel partito (o Movimento che dir si voglia).
Ergo, Renzi si trova in questa simpatica situazione: se tiene ferma la posizione gli voltano le spalle anche gli amici; se cambia idea, forse mantiene qualche consenso, ma in compenso darà una ragione in più per votargli contro a chi pensa che le sue riforme altro non sono che un maldestro tentativo di autoperpetuarsi a Palazzo Chigi. Forse solo il mago Houdini potrebbe sgusciar fuori da questa tenaglia con nonchalance. Vedremo cosa saprà inventarsi il nostro premier. Di certo è arrivato al bivio: di qua c’è il proseguimento e il consolidamento di un percorso fin qui indubbiamente brillante, di là la fine (politica) bruciante e repentina di un uomo, l’ennesimo, consumatosi nell’illusione che basti dar sfogo alla propria smodata ambizione per iscriversi tra i salvatori della Patria.


La chiusura di Equitalia? Sa tanto di operazione gattopardesca

equitaliaLa promessa di chiudere entro l’anno Equitalia da parte di Matteo Renzi si profila, sempre che venga mantenuta, poco più di un lifting. E la postilla del premier che le tasse si pagheranno lo stesso appare un preludio al fatto che tutto resterà sostanzialmente uguale. Contro Equitalia si sono concentrate le ire dei contribuenti che si sentono vessati e di quanti li appoggiano per solidarietà o per convenienza, ma il bersaglio è sbagliato. Equitalia fa solo il suo dovere che è quello di procedere alla riscossione in modo imparziale. Forse anche troppo, dato che ci sono sottovoce rimpianti delle vecchie piccole esattorie private di tanti anni fa dove l’amico dell’amico poteva sempre cercare di intervenire per proroghe e magari cancellazioni. Se il Fisco dal volto umano è quello dell’”umma umma”, però è bene tenersi quello arcigno, ma che applica veramente, come si legge nelle aule dei Tribunali, il principio che la “Giustizia è uguale per tutti”. Da questo punto di vista, è più civile un’ Equitalia che avanza come uno schiacciasassi senza fare distinzioni tra furbetti, sbadati ed evasori abituali. Il che obiettivamente può essere un problema. Ma la responsabilità non è di Equitalia, che in ogni caso non si occupa dell’accertamento, effettuato dall’Agenzia delle Entrate, ma semmai delle regole, ovvero delle leggi fiscali che Agenzia delle Entrate ed Equitalia sono chiamate ad applicare.

Se questo è il tema, se bisogna spegnere l’indignazione massmediatica sollevata da chi riceve la sanzione per un centesimo dimenticato nel pagare una multa di qualche anno fa, tutto si può risolvere in maniera più efficace con una revisione delle norme da applicare e non cancellando la società. Che Equitalia sia assolutamente migliorabile è infatti fuori discussione. Cartelle pazze ed errori sono sopra il livello fisiologico, senza contare che il tempo perso per riparare gli sbagli non viene rimborsato. L’indiscriminatezza con cui si colpisce l’errore formale come quello sostanziale o l’ostinatezza nel perseguire operazioni di recupero con costi superiori al risultato sembrano essere un espressione di sadismo burocratico che fa male prima di tutto all’istituzione. Difficilmente però questo sarà risolto con una riforma che cambia l’assetto, ma mantiene invariata la normativa fiscale.

Non sarà appunto la scomparsa di Equitalia che porterà a una riduzione del carico tributario sui contribuenti o modificherà il rapporto tra fisco e cittadini come promesso da Renzi. Cosa cambia, infatti, se Equitalia, attualmente una società per azioni partecipata al 51% dalle Entrate e al 49% dall’Inps, diventerà, come sembra, un nuovo dipartimento dell’Agenzia delle Entrate, al quale saranno trasferiti poteri, funzioni e gli 8 mila dipendenti? Se non cambiano le norme, continueranno a fare quello che facevano prima, nel bene e nel male, applicando le stesse norme fiscali e utilizzando gli stessi strumenti, inclusi prelievi coatti e ganasce fiscali. Qualche piccolo cambiamento ci potrà essere, dato che l’accorpamento potrebbe accelerare i processi ed evitare errori nei trasferimenti delle pratiche con gli stessi strumenti di prima, ma si profila l’ennesimo provvedimento gattopardesco, dove si dà l’impressione di cambiare tutto per non cambiare nulla. I contribuenti alla fine lanceranno i loro strali non più contro Equitalia, ma contro un soggetto che avrà probabilmente un altro  nome. Oppure avremo un riscossore cortese, ma inefficace. O ancora peggio un esattore inefficace, sgarbato e per di più piegato di fronte ai interessi privati.

 


Il terrorismo semina paura, ma io continuerò a sentirmi libera

Ebbene, terrorista

ho paura. Ho avuto paura a Istanbul alcune settimane fa, mentre visitavo le zone turistiche di quella bellissima città, dove mi sono sentita a casa pur non parlandone la lingua, ma dove ora non mi sognerei di ritornarvi, per paura di incontrare alcuni dei tuoi amici, armati di bombe a kalashnikov. Dopo la mia visita avete seminato odio e terrore ben due volte. Hai rovinato per sempre non solo il Bataclan ma tutto quel bel quartiere, che vi ruota intorno, pieno di caffè, brasserie e posti autentici, dove mangiare bene, chiacchierare e respirare un’aria artistica e creativa che tanti ancora sognano di trovare a Parigi. Torno spesso, e non sempre volentieri, a Parigi. Lo faccio per lavoro, ma dopo quella gelida notte di novembre è sceso un velo grigio che nemmeno i colori della settimana della moda possono cambiare. Metropolitane, stazioni. aeroporti. A Londra, a Milano, Roma, Napoli, Parigi, Amsterdam. Mi hai fatto sentire vulnerabile, in tutte le stazioni. Hai rovinato uno dei grandi piaceri della vita. Viaggiare, e qui ci metto anche volare, Vivo in una città che è stata duramente colpita undici anni fa dagli attentati del 7 Luglio. Non si dimentica, o se si dimentica, accade solo per poco. Se attraverso una stazione affollata penso che tu, insieme a qualche tuo amico, potreste fare una strage, colpendo persone che come me che cercano di arrivare a lavoro puntuali, o tornare a casa dalle proprie famiglie. E adesso Nizza. Nella memoria collettiva quell’angolo di paradiso che è la promenade des Anglais, dove il clima è mite tutto l’anno e le palme ti proteggono mentre passeggi. Il mare da una parte e hotel dove la vita scorre dolce dall’altra. Hai trasformato il Negresco in un ospedale da campo, quella passeggiata in un luogo di tragedia e rovinato lo spettacolo dei fuochi d’artificio per più di una generazione. La vita che ho conosciuto per vent’anni non esiste più, e non lo sarà almeno per i prossimi dieci. La vorrei indietro. Era bello doversi preoccupare solo di arrivare in orario in stazione per prendere un treno,  di assistere un concerto senza pensare che tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Nella speranza che un giorno questo finisca, non posso fare a meno di due cose. Sentirmi afflitta dalla morte delle vittime. Venerdì è stato un giorno difficilissimo, e il pensiero di un weekend vicino non è bastato a rendermi felice. E poi non posso fare a meno di coltivare la mia libertà, il mio desiderio di visitare musei, di vedere film al cinema, di prendere l’aereo per vedere la mia famiglia o scappare verso un luogo caldo. La libertà, insieme al piacere di vivere questa vita europea, occidentale e democratica, mi appartengono più della paura, per quanti attentati tu possa fare.


Cari bergamaschi, è ora di reagire. Occupiamo piazzale degli Alpini

piazzale degli AlpiniI Bergamaschi sono un popolo meraviglioso: parafrasando Pertini. Sono capaci di imprese sensazionali, come abbracciarsi per chilometri lungo le Mura, stabilendo una serie di formidabili record, o incolonnarsi disciplinatamente per ore ed ore per zampettare sul lago d’Iseo. Poi, inspiegabilmente, quando si tratta di situazioni meno creative, quando non c’è di mezzo un Guinness, ma il benessere e la dignità di una città intera, spengono la luce e diventano una matassa grigia. Furetti, se c’è da fare un festone per la Dea o un giovedì danzante, bradipi, se c’è da salvare la faccia. Strana gente, la mia gente: capace di vorticanti piroette tra il civismo talebano e la più infingarda delle ignavie. Voi direte: ma con chi ce l’ha stavolta, il maledetto piantagrane? Fedele alla sua impresa di “mai contèt de negot”, il Cimmino è ostile perfino agli abbraccioni pubblicitari e alle passerelle indomenicate? Ma no, cari compatrioti mesopotamici: gli è che duro fatica a capire come una città, capace di mobilitarsi per una goliardata, non sia, viceversa, capace di farlo quando in gioco c’è l’immagine vera di Bergamo, la sua sicurezza, la sua capacità di accogliere il forestiero sotto la sua veste migliore: e mi riferisco all’intollerabile situazione del piazzale degli alpini.

Sarà che sono un alpino e vedere gli alpini, che hanno sconfitto gelo, guerra e sfortuna, costretti alla resa da un branco di teppisti e di spacciatori, mi rende un filo idrofobo. Sarà che l’idea che casa mia non sia più casa mia mi fa tremendamente incazzare. Sarà che constatare che nessuno muove un dito, perché una malintesa e criminale tolleranza, venata di pelosissimo umanitarismo a vanvera, lega le mani alle forze dell’ordine, sotto la specie di precise indicazioni politiche, a me le mani le fa, invece, prudere. Sarà quel che vi pare, ma, quando uso il termine “intollerabile”, intendo proprio che non si debba più tollerare: intendo che sia ora farla finita una volta per tutte con questa marmaglia che pensa di poter spadroneggiare in un parco pubblico in pieno centro cittadino e proprio sotto gli occhi di chi arriva in treno in città. E, allora, cari Bergamaschi, perché non organizzate un bel presidio in piazzale degli alpini, esattamente come vi siete mobilitati per fare quella gioppinata dell’abbraccio da record? Si crea un bel comitato organizzatore, si ottiene l’appoggio dei media locali, si stampano delle belle magliette con su scritto: “Mi riprendo la mia città” e si occupa in pianta stabile il piazzale per un mese, due mesi, sei mesi, se necessario: si fa, insomma, quello che le istituzioni non si sognano nemmeno di fare. Perché no? Ve lo dico io il perché. Nessun comitato organizzatore super partes si potrebbe creare, perché nessuno vorrebbe passare da razzista, leghista, nazista: abbracciarsi è un conto, ma pretendere sicurezza è un altro paio di maniche, è materia pericolosa di questi tempi.

Quanto ai media locali, sarebbe già tanto se non boicottassero apertamente un’iniziativa del genere: troppo impopolare stare dalla parte del popolo, meglio stare con le élites! Quanto a stampare delle magliette: indossarle potrebbe essere considerato una provocazione, anzi, magari si rischierebbe una multa. A questi chiari di luna, perfino un presidio di cittadini, che vada contro le disposizioni supreme, potrebbe venir perseguito come occupazione abusiva di suolo pubblico: ormai, si è capito che chi dovrebbe difenderci difende quelli da cui dobbiamo difenderci: what else? In questo simpatico giocare a nascondino con il buon senso e la logica, privilegiando a tal punto i ‘circensens’ da dimenticarsi, non si dice il benessere cittadino, ma perfino quel ‘panem’ che, una volta, ai giochi del circo veniva sempre accomunato nella descrizione delle necessità del popolo bue, noi stiamo serenamente affondando di prua, seppure teneramente abbracciati. Perché, se si molla in piazzale degli alpini, si molla dappertutto: lì ci sono le scuole, lì c’è il centro pulsante di questa città, lì ce la giochiamo, quando le ciccione americane sbarcano alla stazione, in cerca di gelati e di scorci per poter esclamare Oh my God! E se rinunciamo a quel pezzo di Bergamo, vuol dire che abbiamo rinunciato a Bergamo tout court.

Eppure non c’è un solo politichetto locale, un amministratore, un oppositore, che getti nella questione un centesimo di quella foga e di quell’entusiasmo che si spende per abbracci, notti bianche, balletti serali e quisquilie consimili. E lo stesso dicasi per gli imbarbariti giovanoidi, tutti contenti di farsi i selfie con la maglietta delle Mura: sembra che stiamo parlando di due città diverse, una da Guinness per gli abbracci e l’altra da Guinness per i calci in culo! Io non vi riconosco più, cari Bergamaschi: è davvero possibile che vediate la nostra città trasformarsi in una città americana, con la zona bene e i quartieri trasformati in ghetti per spostati, senza battere ciglio. Veramente vi importa di più di finire sul giornale per un record di abbracci che per un necrologio o per una rapina? E se toccasse a voi, ai vostri figli, di incappare in una bella rissa lungo viale Papa Giovanni? Allora, immagino, sdegno e dolore. Sdegnatevi un attimino prima, allora: si chiama profilassi. E funziona.


Christo s’è fermato a Montisola. Ora tocca a noi

FloatingPearsAdesso che Christo ha smontato il suo originalissimo ponte levatoio, è tutta una corsa a far di conto. Dai panettieri che hanno dovuto aumentare le sfornate quotidiane agli albergatori che, malgrado un pesante ritocco dei prezzi all’insù, si sono visti costretti per la prima volta nella loro vita a rifiutare clienti causa il tutto esaurito, dai bar e gelaterie presi d’assalto come i forni di manzoniana memoria ai gestori dei battelli che han trasportato in un paio di settimane tanti passeggeri quanti se ne vedono di norma in un anno. Chi ha fatto i conti in tasca all’artista bulgaro ha calcolato guadagni per decine di milioni (chi dice trenta, chi quaranta), ma tutti, nessuno escluso, hanno portato a casa un piccolo-grande ritorno da un evento, “The floating piers”, destinato a rimanere scolpito nella storia del lago d’Iseo.

Proprio per questo, l’errore più grande che si potrebbe commettere ora è quello di limitarsi alla conta della serva. Di incamerare quattrini e metterli sotto chiave. Di archiviare le straordinarie giornate a cavallo tra fine giugno e inizio luglio come una incredibile, entusiasmante, fantastica parentesi. Niente di più sbagliato. Quei giorni devono al contrario rappresentare un punto di partenza per una nuova vita del lago d’Iseo, delle sue località, della sua gente. A dispetto dei professionisti del naso storto, degli improvvisati maitre a penser al sapor d’alborella che considerano il Sebino una sorta di presepe intoccabile, dei critici che usano l’arte solo per far parlare di sé, Christo ha offerto a tutti la possibilità di misurare come attorno ad un’ idea azzeccata (o vincente o suggestiva, ognuno la declini come meglio crede) si possa costruire un fenomeno di massa, senza devastazioni né’ terremoti, pacifico e autenticamente popolare. Il suo esempio deve diventare un investimento per il futuro. Non a chiacchiere ma con i soldi. Quelli incassati nei giorni scorsi, anzitutto.

C’è un dato di partenza che nessuno può negare. Grazie alle passerelle Montisola e il lago sono rimbalzati su giornali, televisioni, siti internet di tutto il mondo (qualcuno ha calcolato che solo su Twitter e Instagram sono stati raggiunti 148 milioni di persone!!!). A costo zero per le casse pubbliche, il Sebino ha goduto di una promozione pazzesca, i cui effetti si trascineranno per molto tempo. Ecco, vediamo di capitalizzarli e di farli fruttare. Perché chi tornerà in riva al lago la prossima volta non troverà la suggestione artistica ma la “semplice” bellezza dei luoghi, l’accoglienza delle strutture, l’enogastronomia, i servizi. Bisogna creare un circolo virtuoso, investire per investire, assecondando un moto di crescita che permetta al lago d’Iseo tout court (lasciamo perdere le distinzioni tra sponda bresciana e bergamasca) di uscire da quello sterile piagnisteo autolesionista, così consolatorio per i provinciali, che finora gli ha impedito di giocarsi le sue eccellenti carte al tavolo del turismo. Insomma, per dirla con uno slogan: Christo si è fermato a Montisola, ora tocca a noi. Un’altra occasione del genere non capiterà più nei secoli dei secoli.

 


Dopo la batosta / Renzi, difficile evitare un atterraggio di fortuna

Ce la racconti come vuole, Matteo Renzi, ma ha perso. E pure di brutto. Vada, se non l’ha già fatto, ad accendere un cero a Beppe Sala che, salvando la ghirba a Milano sia pure affannosamente, gli ha consentito di evitare la disfatta.

Magra consolazione perché il quadro che esce dal secondo turno delle elezioni comunali ci conferma in una ipotesi-sensazione che avevamo già espresso alla vigilia dei ballottaggi: è iniziata la Renzexit. Chi vuol sussultare, lo faccia. Chi crede che si tratti di un’esagerazione ha tutto il diritto di farlo. Ma solo gli illusi possono pensare che dopo una simile batosta (a Roma i grillini che il premier irrideva hanno preso più del doppio del suo candidato e a Torino una bandiera come Fassino è stata mestamente ammainata) il baldanzoso e irruente Renzi possa andare al referendum, da lui stesso già immaginato come il punto di non ritorno per la sua esperienza politica, con reali speranze di farcela.

Proviamo a riavvolgere il nastro. In poco più di due anni il segretario Pd ha aperto fronti di guerra in ogni dove. Prima dentro il suo partito, mettendo alla porta solo i cacicchi (D’Alema) più pericolosi ma non tutti. E ci stava. Ma quando ha messo il naso fuori si è immedesimato nel famoso draghetto Grisù, quello che voleva fare il pompiere ma che lanciava fiammate ogni volta che apriva la bocca. Giù legnate al sindacato e giù sciabolate alle organizzazioni di categoria. Poi caccia continua a (presunti) gufi, cornacchie e volatili vari. Il tutto scandendo ossessivamente il mantra “noi dobbiamo cambiare il paese, solo noi possiamo farlo. Gli altri pensano solo agli inciuci” (e lui trafficava con Verdini e con gli avanzi del berlusconismo).

Il 40 per cento che aveva conquistato alle Europee del 2014 lo aveva illuso (con la compiacenza, sia chiaro, dei giornalini e dei grandi commentatori sempre pronti a baciare la pantofola del capopolo di turno). Ci ha campato sopra per un po’, ma alla fine le chiacchiere, come icasticamente dicono a Roma, “stanno a zero”.

Il Pd è un partito a pezzi, non governato da una classe dirigente di yuppies dall’accento toscano, del tutto fuori controllo in periferia (così che incidentalmente possano emergere eccezioni sorprendenti come quella di Varese). Il governo è stato piegato a sprecare immani energie nella battaglia per il referendum costituzionale. L’economia non riparte, ai risparmiatori truffati dalle banche non è ancora stata data risposta, il malaffare continua a perpetuarsi mentre a Roma litigano sui tempi della prescrizione.

Di fronte a questo scenario un premier responsabile avrebbe dovuto rivoltarsi ancor più le maniche nel tentativo di mobilitare tutte le energie possibili per invertire la rotta. Al contrario Renzi, vittima del suo carattere da gradasso in giacca e cravatta, ha minacciato di imbracciare il lanciafiamme…

È davvero puerile, dopo quel che è successo a Roma e Torino, sentirlo commentare “vedremo cosa sapranno fare i grillini…”. Cosa ha fatto e cosa sta facendo lui gli italiani lo stanno vedendo e non pare che ne siano più così entusiasti. Forse è arrivato il momento di guardarsi allo specchio e di fare ordine in casa propria. Sempre che ve ne sia ancora il tempo. Perché la Renzexit è ampiamente avviata. Smarcamenti e riposizionamenti sono già iniziati poche ore dopo l’apertura delle urne. Allacciate le cinture, turbolenze in vista. L’equipaggio è pronto per un atterraggio di fortuna ad ottobre. Sarà molto difficile evitarlo.


Fusioni bancarie, quando l’aritmetica diventa un’opinione

banca popolare milanoLe chiamano fusioni e nell’ingenuità dell’etimologia si pensa che portino ad un aumento del volume. Invece nelle banche, ma anche in altri settori, l’aritmetica è proprio un’opinione e la somma di uno e uno spesso non dà due, ma qualcosa di meno. A volte uno e mezzo è già un buon risultato perché le fusioni sono quasi sempre sinonimo di razionalizzazione. Non sono più i tempi della massa necessaria per crescere. Adesso le dimensioni sono soprattutto un costo. Da ridurre. Perché in questo modo si riesce a recuperare la redditività che va persa su altri fronti, non necessariamente per incapacità. Del resto i tassi negativi rendono difficile fare banca tradizionale e qualcosa si deve pur fare, anche solo per sopravvivere, in attesa e nella speranza che i tassi sotto zero non siano la nuova normalità. L’unione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, quella che forse sarà solo la prima delle fusioni che vedono e vedranno al centro le popolari, ex o in procinto di esserlo, non fa eccezione nel fatto che uno più uno non fa due. Secondo il piano industriale appena presentato, la prospettiva è che uno più uno faccia uno per quanto riguarda gli sportelli e circa uno virgola otto per quanto riguarda l’occupazione.

Il ministro dell’Economia  Padoan sostiene che di banche ce ne siano troppe, dall’Associazione bancaria italiana ribattono che troppi semmai sono gli sportelli. Di fatto per il Banco da una fusione (Italiana) all’altra (Bpm), anche se non necessariamente per la razionalizzazione e per l’eliminazione di sovrapposizioni, è andata persa quasi una banca, nell’aspetto esteriore di filiali e personale. Nel 2006, dalla fusione tra l’allora Banca Popolare Verona e Novara e la Banca Popolare Italiana, l’ex Lodi, nasceva un gruppo, il Banco Popolare, con 21.433 dipendenti e 2.223 sportelli. Nel 2019, secondo il piano industriale, il futuro gruppo Banco-Bpm, dal nome non ancora definito, avrà 2082 sportelli: in pratica, nonostante l’apporto delle 655 filiali della Popolare di Milano, la rete avrà meno agenzie di quelle che aveva il solo Banco alla sua nascita. E questo senza contare che il gruppo ha messo in prospettiva l’obiettivo di scendere ulteriormente a 1700-1800.

Passando invece al personale, la somma di Banco (16.792 dipendenti a fine anno) e Bpm (7.743 dipendenti) porta inizialmente a un organico di circa 24.500 dipendenti, un numero destinato però con il piano a retrocedere nel 2019 ai livelli che dieci anni fa aveva il solo Banco. Sono infatti state annunciate sovrapposizioni e duplicazioni di ruoli per 2.600 persone, delle quali solo circa 800 possono essere recuperate (per non dire “riciclate”) in nuovi ruoli, come i team dedicati al private, gli specialisti corporate, la task force sviluppo, le filiali digitali e la unit “non performing loans”. Va precisato che le fusioni sono un’occasione per procedere al ridimensionamento e fanno da catalizzatore a un processo in atto per conto suo. La stessa Abi ha rilevato come in conseguenza dell’aumento dei clienti dell’home banking (i servizi che gli istituti offrono on line), aumentati in un anno del 12,4% (25,2 milioni di dicembre 2015 contro i 22,4 milioni di fine 2014) gli sportelli tradizionali sono calati del 2,1%, scendendo da 30.740 a fine 2014 a 30.091 a fine 2015. E lo sfoltimento della rete non accenna a diminuire, perché nessun istituto può più permettersi il lusso di una filiale che non rende.

Questo crea un problema nell’occupazione, perché mentre nelle fusioni di non molti anni fa gli esuberi da duplicazione nella sede potevano avere uno sfogo nello sviluppo della presenza commerciale, adesso altro personale in eccedenza arriva proprio dal calo degli sportelli. Contrariamente a quanto avviene nell’industria, però l’uscita del personale nelle banche non è mai stata finora un problema. In genere anzi ci sono più dipendenti che vogliono uscire di quelli che la banca è disposta a fare andare via. Anche al Banco-Bpm le uscite saranno su base volontaria, con prepensionamenti, grazie al ricorso al fondo ad hoc alimentato dal settore.  Il problema che si pone però è: quanto è capiente questo fondo? E come potrà andare avanti se il personale continua a uscire e le banche che lo alimentano continuano a calare? Sarà un problema del futuro: intanto “avanti, con il ridimensionamento”.