Cartelle esattoriali, quella rottamazione che umilia gli onesti

equitalia“Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdàmmoce ‘o ppassato, simmo ‘e Napule paisà”. E poi non dite che Matteo Renzi conosce solo “La mi porti un bacione a Firenze”. No, no, il premier ha nel sangue e nella mente la più classica delle melodie partenopee. Nei giorni scorsi le sue note sono risuonate nell’austero cortile di Palazzo Chigi mentre nella sala stampa il presidente del Consiglio illustrava i contenuti della legge di Stabilità per il 2017. Quando è stata proiettata la slide che annunciava la “rottamazione” delle cartelle esattoriali (ma anche delle multe), il “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato” è diventato assordante.
Saltellavano e cantavano premier e ministri, compreso il grigio Pier Carlo Padoan, e in contemporanea nel Paese si univano al coro migliaia di evasori fiscali, finti poveri, filibustieri, furbi di tre cotte e delinquentume vario. Tutti in festa per un regalo di Natale arrivato con largo anticipo. Il governo ha deciso di condonare interessi legali, more e aggi applicati da Equitalia (il Moloch da chiudere ma che agiva pur sempre su direttive dell’esecutivo). Il che, tradotto per il volgo, significa, per chi non vorrà continuare a fare il furbo nella speranza-certezza che un altro lavacro prima o poi arriverà, uno sconto da 50 al 75 per cento delle somme dovute all’Erario.

Tutto, spiega chi la sa lunga, per racimolare 4 miliardi per quadrare i conti della manovra finanziaria. Ma in realtà, come è evidente da altre decisioni contenute nella stessa legge di Stabilità, per cercare di raccattare qua e là i voti necessari ad evitare che il referendum del 4 dicembre si trasformi nel capolinea della luminosa carriera del Ganassa di Rignano sull’Arno. Perché a questo siamo ridotti, noi poveri contribuenti ligi a dovere che rispettiamo al millesimo le scadenze e gli impegni. Dobbiamo passare per fessi (qualcuno ha icasticamente preferito la definizione di c..oni) per consentire ad un ragazzotto propostosi come innovatore e presto rivelatosi imbevuto di familismo e clientelismo come nemmeno i peggiori democristiani della Prima Repubblica di continuare a raccontarci che lui è arrivato “per far ripartire l’Italia”.

Per farla ripartire, lo fa, non c’è dubbio. Il dramma è che ci sta spingendo verso il baratro. In anni di tassi ridotti ai minimi storici, in una stagione in cui davvero si potevano porre la basi per una incisiva inversione di rotta, sta sperperando risorse a destra e manca (dagli 80 euro agli incentivi alle assunzioni) solo per sostenere le sue campagne elettorali. Il condono mascherato delle cartelle esattoriali è solo l’ultima schifezza. La più sublime perché spacciata come misura a favore dei contribuenti vessati (e quelli che pagano regolarmente che cosa sono?) ma anche la più vergognosa perché attesta, caso mai ce ne fosse bisogno, quanto marcio sia un Paese che di fronte ad una plateale canonizzazione dei disonesti (sì, certo, c’è anche una quota di italiani che si è trovata in difficoltà per cause oggettive, ma è una esigua minoranza) non si scandalizza e non reagisce tributando a chi si fa artefice di certe manovre il pubblico ludibrio che si merita.
Quando vanno in cavalleria operazioni di questo genere diventa inutile accapigliarsi sulla bontà, presunta o reale, della riforma della Costituzione. Anzi, semmai questo è un motivo in più per chiedersi se sia davvero il caso di concedere più potere e maggiore libertà d’azione a chi già oggi sta dimostrando di avere scarso o nullo rispetto per il senso civico dei cittadini onesti.

 

 

 


Il Comune tosa gli automobilisti, ma intanto il centro resta senza “idee”

Sentierone_1La manovra sulla sosta in città è servita. Nessuna riflessione o consultazione, come pure aveva lasciato intendere in un’ intervista di qualche mese fa l’assessore alla Mobilità, Stefano Zenoni. La strada è tracciata: aumento delle tariffe orarie, pagamento anche nei festivi, ticket annuo per i residenti. In soldoni, ecco altri 600 mila euro (in aggiunta ai tre milioni che vengono introitati oggi) sfilati dalle tasche dei cittadini. “Lo facciamo per disincentivare l’uso dell’auto privata” dicono da Palazzo Frizzoni. E già qui vien da storcere il naso. Perché se si vuole essere credibili, e quindi essere presi sul serio, non ci si può limitare solo agli interventi “punitivi” (ammesso che questi servano perché un aumento di 20 centesimi all’ora non scoraggia nessuno, è solo un’extragabella che sul singolo incide poco ma sul totale delle soste fa cassetta). Occorre mettere in campo misure che accompagnino le restrizioni offrendo alternative. Nell’annuncio dell’assessore Zenoni non ve n’è traccia. O meglio, si parla di soldi che andranno all’Atb per potenziare il bike sharing (utile, senz’altro, ma non può essere un’alternativa al mezzo privato, non solo l’auto, per tutti), l’infomobilità (come quegli assurdi cartelli dei parcheggi sotterranei?) e l’introduzione delle emettitrici automatiche sugli autobus (un servizio in più, certo, ma nessuno prende il mezzo pubblico solo perché può fare il biglietto a bordo, ci vuol altro…).

Pannicelli caldi, orpelli, fumo negli occhi, chiamateli come volete. Se il Comune vuole davvero spostare quote di traffico deve agire più in profondità. Come? C’è solo l’imbarazzo della scelta: agevolazioni tariffarie (oggi una famiglia di tre-quattro persone non ha nessunissima convenienza a salire a bordo di un bus), convenzioni con parcheggi (a Brescia con il biglietto emesso dal parcometro viaggi per lo stesso tempo pagato sul mezzo pubblico), potenziamento delle frequenze, nuovi collegamenti (perché non sperimentare, magari solo nelle ore serali-notturne, una circolare?), avviare finalmente, togliendolo dal cassetto nel quale giace da oltre un anno, il progetto del tram bus promesso in campagna elettorale (due anni e mezzo fa, non ieri l’altro…). Questo sarebbe il vero reinvestimento dei soldi incassati con gli aumenti.
E invece, more solito, si agisce solo sul lato della tosatura, regalando in cambio solo briciole. Quando non nulla del tutto, come rischia di succedere ai residenti che pagheranno la sosta senza avere alcuna certezza di poter lasciare l’auto nelle strisce gialle. Sarebbe più onesto chiamarla imposta (una delle tante, una in più), allora, più che tariffa perché non c’è alcun corrispettivo garantito. E va aggiunto, rispetto ad alcune informazioni fatte filtrare capziosamente da Palazzo Frizzoni con paragoni scelti ad hoc, che la sosta a pagamento nei festivi e quella per i residenti nelle strisce gialle si applicano in pochissime città (si contano sulle dita di una mano). Che siano tutti ritardati gli altri, magari perché schiavi del partito dell’auto, o i cervelloni stanno solo a Bergamo?

E’ bene chiederselo anche perché su questo tema della mobilità e sosta, lo diciamo da tempo, la Giunta Gori mostra lentezze e contraddizioni che su altri piani non denota. Tanto è lungimirante e attiva sul fronte urbanistico (Montelungo, ex Riuniti) quanto non pare aver ancora colto l’importanza di elaborare una strategia ad ampio spettro sul fronte del traffico. Una strategia di breve ma anche di medio-lungo periodo. Come quella che si rende necessaria alla luce dei cambiamenti che stanno intervenendo nel cuore della città. Si leggono sui giornali di progetti di trasformazione di grandi contenitori (gli uffici statali, l’ex cinema Nuovo) in punti di ristoro e di shopping e di abbandono di altri (Italcementi, Confindustria) per nuove soluzioni. Per non dire del recupero dell’ex Diurno. Bisognerà pur porsi la domanda di come arriveranno in città i fruitori di questi servizi, quali mezzi utilizzeranno e dove eventualmente lasceranno l’auto. Sono risposte necessarie ad un processo che va anticipato per meglio governarlo. Anche a questo sarebbe servito, e servirebbe come il pane, il famigerato concorso d’idee sul centro città che ad elezioni vinte il sindaco Gori aveva promesso. Mezzo mandato è passato ma di idee non se n’è vista mezza. Forse è il caso di darsi una mossa, di trasmettere ai cittadini qualche indicazione su quel che si pensa sarà la Bergamo dei prossimi dieci-quindici anni. Solo progetti chiari, trasparenti, condivisi con chi li deve “subire” possono rendere accettabili, anche se gravose, le misure che il Comune intende poi adottare. In assenza, è davvero difficile cancellare dalla mente il dubbio che si agisca per trovare risorse che altrove non affluiscono più. Un metodo che sa tanto di vecchia politica.

 

 

 


Referendum, quei paladini del No tra maleducazione e presunzione

La personalizzazione, come il fumo per la salute, nuoce al referendum. Finora se ne è parlato per l’improvvida scelta, poi malamente rimangiata, del presidente del Consiglio di avviare la campagna elettorale sulla consultazione popolare all’insegna del “se perdo, me ne vado a casa”. E’ stato facile osservare che in questo modo Matteo Renzi ha offerto ai suoi avversari, di ogni genere e specie, una straordinaria occasione per tralasciare completamente il merito della riforma costituzionale e per dedicarsi anima e corpo ad orchestrare l’offensiva per mandare a casa premier e governo. Ed infatti, il variegato e talvolta variopinto fronte del No ha un unico collante nell’obiettivo finale: la cacciata del Ganassa di Rignano sull’Arno.
Ma anche da quest’altra parte non è che si scherzi con la personalizzazione. Ci sono personaggi che si sentono investiti del ruolo di alter ego del presidente del Consiglio e che si spendono ogni oltre limite per contrapporvisi. Generando, anche in chi magari in linea di principio condivide le loro posizioni, autentiche crisi di rigetto quando non di insopportabile fastidio. È il caso, tanto per fare il primo nome, di Marco Travaglio. Capacità e intelligenza non gli fanno certo difetto, anzi. Ha un archivio straordinario e sa sempre trovare solidi argomenti per le sue polemiche. Nulla da dire, quindi, sulla preparazione. Ma sui modi e i toni, eccome, se c’è da eccepire. Perché, per esempio, stravolgere ad arte i nomi degli interlocutori, perché fare la parodia delle posizioni altrui, perché trattare tutti come dei deficienti o dei mascalzoni o degli inetti?

Travaglio ama spesso definirsi un “figlio” (professionale) di Montanelli. Vero, nel senso che con il grande Cilindro ha iniziato la sua brillante carriera. Ma il suo Maestro aveva ben altro stile, ben altra classe diciamolo pure. Rispettava gli avversari anche quando ne pensava il peggio possibile. E li affrontava guardandoli negli occhi, non volgendo lo sguardo dall’altra parte come ha fatto il direttore del Fatto nel confronto tv con Renzi (come nel faccia a faccia con Berlusconi del 2013, dove ne uscì ridicolizzato chi voleva fare il fenomeno). Anche qualche sera fa, sempre in un confronto televisivo, il medesimo Travaglio, davvero lontanissimo dalla penna arguta che vergava corsivi sul Giornale montanelliano, si è esibito in un forsennato attacco, un po’ prepotente e maleducato, nei confronti di Graziano Delrio, persona mite e pacata, da molti ritenuto il miglior ministro dell’esecutivo renziano.

Forse converrà interrogarsi se la strategia ad alzo zero non rischi di cadere nello stesso vizio che si contesta al premier. Perché, e qui veniamo ad un altro personaggio che ha sostenuto le ragioni del No in un pubblico duello, la convinzione nelle proprie idee non legittima un senso di superiorità rispetto agli altri, e tantomeno giustifica la strafottenza. Il professor Gustavo Zagrebelsky, al di là dall’aver commesso un evidente peccato di presunzione ad accettare la sfida di Renzi, in tv ha dato mostra di non saper scendere dal piedestallo del cattedratico che si sente investito del dono dell’infallibilità. Est modus in rebus, verrebbe da dire. Il Ganassa si è divertito come un ragazzino (il che non lo assolve, intendiamoci, perché un presidente del Consiglio dovrebbe avere maggior garbo) ad infilzare il professore che non riusciva ad uscire dalla sua leziosità verbale. E alla fine, anche qualche sostenitore del No, di fronte a cotanto spettacolo, si è dovuto chiedere se per caso non si fosse sbagliato.
Poiché abbiamo davanti quasi due mesi di campagna elettorale, vogliamo augurarci che d’ora in avanti da una parte e dall’altra si riesca ad uscire dalla propaganda, dai personalismi, dalla lotta politica di bassa lega, per entrare davvero nel merito della riforma su cui saremo chiamati a votare. La posta in gioco è ben più importante del destino politico di Renzi o del successo professionale di Travaglio. Loro giocano un’altra partita. Evitiamo di farci irretire nel loro gioco.


Referendum, le promesse di Renzi e il mercato delle vacche

Scusate la domanda banale: ma se a settanta giorni dal voto sul referendum il presidente del Consiglio si mette a parlare del ponte sullo Stretto di Messina e fa balenare 100 mila possibili nuovi posti di lavoro, tra fine novembre e il 3 dicembre (le urne saranno aperte il giorno dopo) che cos’altro ci prometterà? Memore dei luminosi esempi di Achille Lauro (quello che regalava una scarpa prima del voto e l’altra a risultato raggiunto) e di Silvio Berlusconi (ricordate il milione di posti di lavoro?), Matteo Renzi giorno dopo giorno sta sempre più entrando nella parte, che interpreta da consumato attore, dell’imbonitore da fiera di strapaese. Prometti, prometti, qualcosa resterà. E visto che con gli 80 euro ha fatto breccia nei cuori degli italiani che gli tributarono un clamoroso trionfo, da lui lungamente sfruttato ed abusato, alle elezioni Europee del 2014, eccolo pronto a sparare nuovi fuochi d’artificio per cercare di evitare la trappola che si è preparato con le sue stesse mani.

Lo ricordate? “Se perdo il referendum, il giorno dopo vado a casa” aveva garantito la primavera scorsa, quando ancora coltivava l’illusione di asfaltare gli avversari e di guadagnare, attraverso la vittoria al referendum, l’investitura per il prossimo Ventennio.  Poi, però, sono arrivate le elezioni Amministrative e il responso per il Pd è stato assai deludente. Se non fosse stato per Beppe Sala, capace di salvare la ghirba in quel di Milano, si sarebbe potuto tranquillamente parlare di disastro.

Gli amici più seri e gli osservatori più equilibrati hanno cercato di far capire al premier che forse era il caso di accantonare la personalizzazione. Lui ha finto di cambiare strategia. In qualche occasione ha anche ammesso di avere sbagliato. Ma ormai la china è stata intrapresa. E allora, a fronte di sondaggi che danno il No in vantaggio o testa a testa con il Sì, Renzi ha pensato che non c’è altra strada che tornare a vellicare la tradizionale credulità degli italiani. Che storicamente son di bocca buona, lì per lì (e tanto basta al politicante di turno) digeriscono di tutto, salvo poi, a danno fatto, aprire gli occhi e impugnare il forcone contro il mentitore.

Su questo punta il Giovin signore fiorentino, icasticamente definito il Ganassa da Giampaolo Pansa. Sa che, sondaggi alla mano, il voto per il Sì è particolarmente basso al Sud e quindi ammannisce al popolo bue la fola del ponte sullo Stretto (subito inseguito da quell’altro fenomeno della Magna Grecia che risponde al nome di Angelino Alfano). E chissenefrega se quello che parla oggi è lo stesso Renzi che il primo ottobre 2012, da candidato alle primarie del Pd, diceva tranchant: “Basta parlare del ponte di Messina, i soldi li dessero alle scuole”. In linea, peraltro, con tutto il politburo del Pd, da Franceschini a Giachetti. Un’altra delle peculiarità degli italiani è la memoria corta. Chi vuoi che si prenda la briga di andare a vedere se il presidente del Consiglio ha cambiato idea? Quella è materia da rosiconi, quella brutta gente che non sa stare al mondo e non capisce che il governante di turno non va criticato e incalzato ma solo adorato.

Ma chissà che una volta tanto non possa arrivare uno scatto d’orgoglio, anzitutto dal Meridione che deve dimostrare di non essere un facile serbatoio elettorale alla mercè del demagogo congiunturale. Questo sì, al di là del merito, sarebbe il segno di una svolta. Perché dev’essere chiaro, comunque la si pensi sulla riforma che ci verrà sottoposta, che le regole sono neutre, diventano buone o cattive a seconda dell’uso che se ne fa. Ma soprattutto, non ci evitano il malcostume di chi continua a fare della politica uno sgradevole e perverso mercato delle vacche.

 

 


Aeroporti e alleanze, perché Sacbo non può più perdere tempo

Orio Aeroporto  terminalSacbo, la società che gestisce l’aeroporto di Orio al Serio, da anni oscilla alla ricerca di un partner guardando un po’ ad Est (il polo veneto più Brescia) e un po’ ad Ovest (con la milanese Sea, che è anche suo azionista con il 30% circa) e nel frattempo è cresciuta fino a diventare il terzo aeroporto italiano, con i suoi oltre 10 milioni di passeggeri. Un’eventuale unione è chiaramente un’operazione importante e probabilmente senza ritorno e per questo va ben ponderata. Ma è bene anche ragionare con i tempi dell’economia, più che con quelli della politica, perché a volte, quando le occasioni si perdono, possono anche non ripresentarsi, soprattutto se il tentennamento dovesse nascere dal solo obiettivo di massimizzare l’incasso. Anche le rendite di posizione date dalla geografia, che in materia di infrastrutture contano più che altrove, in fondo non sempre sono per sempre. La tecnologia, le evoluzioni commerciali, i mutamenti di mercato, le nuove legislazioni, la comparsa di nuovi concorrenti possono sempre sconvolgere i piani. Orio al Serio è cresciuto l’anno scorso del 18,6% e ha realizzato un altro incremento del 6,7% nei primi otto mesi del 2016: potrebbe forse anche rischiare di restare da solo, prendendo atto del limite fisico dello sviluppo dato dall’avere una sola pista, per quanto gestita con ottimizzazione o efficienza. Ma se la Sacbo intende crescere grazie alle sinergie che si possono creare grazie alla rete con altri scali, una decisione (che sia la fusione con Sea che al momento sembra l’opzione più probabile, o quella con altri) la deve prendere senza perdere troppo tempo, fino a quando può ancora scegliere e in una posizione di relativa forza data dalla salute societaria, anche se questa potrebbe non bastare per pareggiare nella governance il confronto con aziende di dimensioni più grandi.

Che lo scenario del settore sia in movimento lo dimostra il blitz di Atlantia, il gruppo che ha la famiglia Benetton come azionista di riferimento, e al quale fanno capo oltre a buona parte delle autostrade italiane (tra le quali l’A4 “vicina” di Orio), anche il 95% di Adr-Aeroporti di Roma, il più grande operatore italiano con gli scali di Fiumicino e Ciampino, e il quinto in Europa per numero di viaggiatori (quasi 32 milioni nel 2015). Atlantia nei giorni scorsi ha sottoscritto un accordo con il fondo Amber per l’acquisto del 21,3% del capitale di Save, gestore del terzo polo aeroportuale italiano (il secondo è quello milanese di Sea tra Malpensa e Linate, con 28 milioni di passeggeri), con gli aeroporti di Venezia e di Treviso e, attraverso il 40,3% della Catullo Spa, degli scali di Verona e Brescia-Montichiari (circa 13,5 milioni di passeggeri nel 2015). L’accordo, a 14,75 euro per azione, per un investimento di circa 174 milioni, prevede un meccanismo d’integrazione parziale del prezzo qualora, entro 3 anni, venisse promossa un’offerta pubblica di acquisto o scambio sul titolo Save ad un prezzo superiore, «eventualità della quale Atlantia non è a conoscenza», precisa una nota. Ma che evidentemente è un’ipotesi da tenere in considerazione, se viene inserita nel contratto. Perché infatti Adr, che pure ha una quota di minoranza anche nel gestore dell’aeroporto di Lamezia (Sacal) e di quello di Genova, dovrebbe immobilizzare dei soldi in una partecipazione che non fa parte di alcun patto di sindacato e non permette di partecipare alla gestione della società? La maggioranza è infatti dal 2011 nelle mani di Finint, che dopo avere rilevato, a fine 2015, l’8% in mano alla Popolare di Vicenza, si trova ora, tra partecipazioni dirette e indirette, a controllare il 60% del capitale di Save, una quota blindata che al momento esclude ogni velleità di scalata.

Potrebbe quindi anche essere solo un investimento finanziario: il prezzo di acquisto è stato buono, inferiore di oltre il 10% alle quotazioni del giorno e la società dà dividendi intorno al 4% che in tempi di tassi zero non sono da disprezzare. Ma il fatto che nella definizione del prezzo si sia parlato di Opa lascia pensare che Adr possa pensare anche a qualcos’altro. Sembra infatti destinato a finire il granitico sodalizio societario che da 36 anni unisce i due soci di Finint, Enrico Marchi (che è anche presidente e ad di Save) e Andrea De Vido. Quest’ultimo ha infatti bisogno di liquidità per rientrare dall’esposizione bancaria creata da una serie di investimenti finanziari non riusciti e sarebbe ben disposto a cedere la sua quota in Finint, società valutata intorno ai 250 milioni. Inoltre Finint controlla il 60% di Save attraverso Agorà, partecipata per il 43,1% da Morgan Stanley, in base a un’intesa che scade a ottobre 2019, ma con opzione di vendita esercitabile tra il 15 e il 19 gennaio 2018, sulla quale Finint ha un diritto di prelazione, anche per conto terzi. Insomma nel giro di un anno e mezzo c’è la possibilità che buona parte delle azioni che ora controllano Save possano cambiare di proprietà, senza escludere  anche vendite da parte degli enti locali (la Provincia di Venezia, terzo azionista, ad esempio ha il 4,9% delle azioni) o magari rastrellamento di azioni sul mercato. Ma tutto questo cosa c’entra con Sacbo? C’entra, perché se continuerà il tentennamento, potrebbe perdere le possibilità di scegliere il partner. Un conto è se il quarto gestore aeroportuale italiano (Sacbo) tratta con il secondo (Sea) o con il terzo (Save), di dimensioni rispettivamente doppie e più grandi di un terzo. Un conto è se nel caso di rottura definitiva con Sea (come alcuni vorrebbero non accettando una guida milanese, nonostante la legge dei numeri), guardando a Est l’unica alternativa fosse un colosso (Sea+Adr)  quattro volte più grande, con il quale è più facile essere mangiati che venire a patti. Poi, certo, si può anche restare da soli: ma è meglio farlo per scelta e non perché costretti.

 

 


Olimpiadi, il no della Raggi e la malafede dei perdenti

Siamo un Paese con le pezze sul sedere ma vogliamo le Olimpiadi. Abbiamo una capitale sgovernata da decenni e sfregiata da un degrado inarrestabile ma vogliamo le Olimpiadi. Non abbiamo le risorse per mettere in sicurezza borghi e città che alla prima scossa o alla prima alluvione vengono spazzati via ma vogliamo le Olimpiadi. Anche per queste ragioni Mario Monti quattro anni fa disse no alla candidatura di Roma per l’edizione 2020. E nessuno, dicasi nessuno, obiettò. Anzi, la decisione fu lodata come “saggia e responsabile”. Oggi,a fronte di una situazione economica e del bilancio dello Stato ancora peggiore, i silenziosi di ieri urlano tutta la loro rabbia contro Virginia Raggi per il suo rifiuto di continuare l’iter avviato dal suo predecessore Ignazio Marino per la conquista dell’edizione 2024. Uno spettacolo davvero penoso e grondante malafede. I giornaloni son pieni di articolesse inzuppate di indignazione quasi che la giovane sindaca di Roma avesse inflitto un colpo mortale all’immagine, altrimenti splendente, del Paese. Quasi che dir di no alle Olimpiadi fra 8 anni impedisca a chi ci governa con vacue parolone e promesse da mercante in fiera di portare a casa i risultati di cui gli italiani hanno bisogno hic et nunc, qui ed ora.

Si può pensare tutto il peggio possibile della Raggi e del Movimento 5 Stelle, e le prime settimane alla guida della capitale stanno dimostrando quanto dilettantismo e ideologia non aiutino a governare, ma ci vuole molta malafede per contestare una decisione semplicemente coerente. Che i grillini fossero contrari alle Olimpiadi non è mai stato un mistero, al di là di qualche tatticismo o di talune dichiarazioni sibilline. Il loro programma era chiarissimo. Tre mesi fa, non il secolo scorso, si sono presentati agli elettori e i romani hanno tributato a Virginia Raggi il 67 per cento dei voti, più del doppio di quanto conquistato dal suo avversario Roberto Giachetti. Chi oggi ciancia di referendum dovrebbe avere il buon gusto di avere rispetto della democrazia. I cittadini della capitale si sono pronunciati in modo netto, inequivocabile. Chi ha perso malamente le elezioni sta cercando di prendersi la rivincita. Il giochino è fin troppo scoperto. Ma proprio il “plebiscito” tributato a Virginia Raggi, al di là e quasi a prescindere dalle sue capacità (su cui è più che lecito nutrire seri dubbi), dice che chi ha governato Roma fino al giugno scorso ha perso ogni diritto di dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non è stato forse il Pd a buttar giù in malo modo il sindaco Marino che aveva avviato la candidatura per il 2024? E non è stata forse la gestione del sindaco di centrodestra Gianni Alemanno (per tacer di Mafia capitale) a sconquassare i conti del bilancio comunale?

Non si capisce davvero con quale credibilità parli e giudichi chi, compresi i tanti servi sciocchi che li fiancheggiano nelle redazioni dei giornali, porta sulla coscienza gli sconquassi e il malgoverno che hanno ridotto Roma nello stato penoso in cui versa. Qui non si tratta di non voler sporcarsi le mani né di aver paura di dimostrare di essere capaci di gestire un grande evento senza gli sprechi e le ruberie del passato. È una questione di elementare buon senso: Roma, come tutto il Paese, ha bisogno di ordinarietà, di pulizia, di risanamento, di un governo dei problemi quotidiani. A fronte di chi non ha lavoro o è costretto a vivere con una pensione da fame c’è una classe politica e giornalistca che butta via le sue giornate a parlare di Olimpiadi 2024 e di legge elettorale. Lo stridore non potrebbe essere più lacerante. E allora sia lodata chi, senza tacere tutti gli altri limiti che anzi vanno denunciati senza sconto alcuno, ha avuto la forza di dire stop. Chi non è d’accordo, se come dice ha rispetto della democrazia, se ne farà una ragione.


Borsa, Ubi banca e la quotazione tra giudizi e pregiudizi

Sulle teorie dell’asimmetria informativa sono stati vinti dei premi Nobel per l’economia, ma non si è ancora riusciti a decifrarne il mistero. Che è poi la base del mercato e della Borsa, il mercato per eccellenza. Da una parte c’è un venditore che sa molto dell’azienda, ma magari non sa i motivi per cui dall’esterno è interessante e appetibile, dall’altra c’è un acquirente che non sa tutto dell’azienda, ma sa qualcos’altro. A complicare il tutto è il fatto che non si sa mai esattamente cosa sia vero e falso, cosa sia una convinzione giusta o sbagliata, e cosa magari sia una falsificazione. Senza scendere nel filosofico, la settimana nera che ha appena passato Ubi, con cinque sedute consecutive tutte in forte ribasso (lunedì meno 2,7%, martedì meno 2,6%, mercoledì meno 1,7%, giovedì meno 1,6% e venerdì meno 4,4%), al di là delle tensioni borsistiche generali, e in particolare sul settore creditizio, è un caso particolare di assimetria informativa, dove il mercato crede di sapere qualcosa, che però non è detto accada.

ubi-banca1.jpgIl fattore temuto è il salvataggio di qualche banca più o meno fragile con il rischio che Ubi finisca invischiata in situazioni problematiche ed onerose. Il cd Victor Massiah ha sempre affermato che non intende fare alcuna operazione che non produca valore per Ubi, ma questo non basta più a tranquillizzare un mercato stressato e confuso da messaggi contrastanti su questa e su altre vicende. Ormai da due anni Ubi per la sua solidità patrimoniale viene regolarmente invocata come cavaliere bianco per ogni banca in difficoltà. Nella convinzione che ogni matrimonio proposto non farebbe che indebolire Ubi, il titolo che a inizio anno valeva 6,15 euro è rotolato fino a 2,17 euro venerdì 16 settembre, una performance che non si giustificherebbe di fronte a un bilancio patrimonialmente solido, una gestione operativa in attivo, una costante distribuzione di dividendo, una situazione dei crediti deteriorati sotto controllo e i costi già contabilizzati per il piano industriale che promette risparmi e sinergie. Insomma, in Borsa c’è l’idea diffusa che ci debba essere qualcos’altro che sta maturando e non è positiva.

Il mercato però è fatto da chi sa, da chi non sa e da chi crede di sapere. Se non ci fosse questa asimettria nessuno del resto comprerebbe o venderebbe e la Borsa avrebbe finito di esistere. Quello che per Ubi, in questi giorni, viene creduto vero anche se non si è ancora concretizzato e non è detto che si concretizzi è in particolare un intervento nell’acquisto delle quattro nuove “good bank”, ovvero la versione “risoluta” di Banca Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti. In realtà l’interesse è stato più volte smentito in passato, con il ritornello che non c’è aperto nessun dossier, ma quando il mercato si convince di qualcosa è difficile fargli cambiare idea, anche perché a posteriori molte volte si è scoperto che alla fine ha avuto ragione. Per questa ragione, se non interverranno nuovi elementi che sgombrino definitivamente il campo dalle ipotesi, ovvero che Ubi rompa gli indugi o che le banche obiettivo trovino altri acquirenti – dato che anche le smentite più efficaci, in questa fase, lasciano il tempo che trovano -, si preannuncia una “nuttata” borsistica almeno fino a mese quando si chiuderà il termine per le manifestazioni d’interesse per le quattro banche e si capirà (forse) chi la sapeva veramente lunga e chi si è preso un abbaglio.

Al momento però si continua a restare nel campo di ipotesi che presentano inoltre tanti nodi da sciogliere. Le quattro good bank nascono infatti senza sofferenze, rimaste nel vecchio istituto, ma l’eredità della precedente gestione non è ancora del tutto chiara e sul piano operativo i primi mesi, seppure con tendenza al miglioramento, sono comunque in perdita. Non si conoscono poi i costi della necessaria ristrutturazione, oltre che dell’integrazione. E non si conosce nemmeno il prezzo d’acquisto, al di là del fatto che sarà sicuramente inferiore agli 1,6 miliardi del finanziamento erogato a novembre dal sistema bancario che auspicherebbe di poterli recuperare nella maniera meno parziale possibile. Sulla base di un acquisto a mezzo miliardo, gli analisti di Equita Sim hanno calcolato che con l’operazione, a perimetro invariato, l’indice patrimoniale Cet1 di Ubi scenderebbe da 11,4% a 9,1%, un livello che renderebbe inevitabile un aumento di capitale che, dato l’andamento della quotazione, non sarebbe molto gradito al mercato. La situazione sarebbe ovviamente meno pesante se l’acquisto fosse limitato a solo alcune (Cariferrara?) delle quattro banche. Ma le incognite e i dubbi che l’operazione apre, soprattutto con il sospetto che nonostante tutto l’acquisizione venga eterodiretta se non imposta, scavalcando l’istituto, fa diffidare il mercato, che nelle sue convinzioni non sta nemmeno valutando se queste operazioni hanno prospettive industriali, che a certi costi diventano interessanti. Vale più il pregiudizio del giudizio. E nel frattempo la quotazione si muove di conseguenza.

 


Referendum, il gioco perverso di chi punta al catastrofismo

Ci mancava solo l’ambasciatore americano. “Se vince il No meno investimenti in Italia” la sua infelice uscita che ha provocato un sussulto di sdegno, quirinalmente trattenuto, perfino dell’ingessato presidente Mattarella. Non bastavano i toni eccitati del premier Renzi che ad ogni pie’ sospinto indica nella vittoria del referendum sulla riforma costituzionale la svolta storica che dovrebbe segnare il trionfo delle magnifiche sorti del Belpaese. Né erano sufficienti le discese in campo di associazioni di categoria, ordini professionali e confraternite varie. No, evidentemente la paura (di perdere) fa novanta e allora anche Oltreoceano hanno sentito il bisogno di invitare i tapini italiani a riflettere su quali nefaste conseguenze potrebbero patire se solo osassero non approvare fra scene di giubilo le modifiche della Carta partorite dalla coppia di consumati costituzionalisti Renzi-Boschi.
Le menti più avvertite hanno già compreso come queste entrate a gamba tesa non fanno altro che determinare una reazione uguale e contraria a quella desiderata. Perché c’è troppa enfasi, troppo catastrofismo, troppa smania di liquidare con sarcasmo chi non s’allinea alla vulgata (ipoteticamente) dominante. Razionale o no che sia, scatta il desiderio di mettersi di traverso. Senza per questo sentirsi dei gufi o degli antisistema. Sgombriamo il campo dalla propaganda. Per stessa ammissione dei suoi patrocinatori, la riforma che sarà sottoposta agli elettori non è “la migliore possibile” né risolverà i tanti e complessi problemi del Paese. In alcuni punti segna dei passi avanti, in altri le modifiche sono più di forma che di sostanza, in altri ancora rischiano di provocare ancora più confusione. Quel che è certo è che la sua eventuale bocciatura non determinerà in alcun modo la caduta nel baratro. E tantomeno sarà impossibile, se lo si vorrà, ripartire con altri tentativi di riforma.
E’ stato Renzi per primo a mettere il referendum su un piano sbagliato. Lo ha trasformato in una sorta di ordàlia sul suo destino politico, commettendo un macroscopico errore strategico che ora gli si sta ritorcendo contro. Ma non è l’unico che non ha compreso che evocare scenari da tregenda, prescindendo dal merito, è controproducente. Come per la famigerata Brexit, il rischio alla fine è che le prime vittime della consultazione popolare siano proprio quelli che le hanno volute caricandole di significati impropri. Anche l’ambasciatore americano ha dato la sua spintarella.  Avanti così, non ci sarà nemmeno bisogno dei comitati per il No.

 

 


Il salvataggio dei profughi e la geografia trasformata in opinione

canale di siciliaIn Italia, credo di averlo dimostrato abbondantemente, la storia è un’opinione: ormai, si racconta soltanto quel che ci fa comodo, taroccando o cancellando le cose che potrebbero, in qualche modo, intaccare la nostra manicheissima vulgata. Il problema è che, da un po’ di tempo a questa parte, per fini, diciamo così, commercial-umanitari, si sta cominciando a trasformare in opinione anche la geografia. Non ci rimangono che la matematica e l’educazione fisica, immuni da tentativi di manipolazione. Mi spiego, perché, altrimenti, rischiate di pensare che il caldo mi abbia dato alla testa. Dunque, il cosiddetto “Canale di Sicilia”, noto anche come “Canale di Tunisia”, a seconda del lato da cui lo si guardi, è come dice il nome stesso, il braccio di mare che separa la Sicilia dalla costa tunisina: è largo circa 150 km nel suo punto più stretto ed ha una delimitazione che lo definisce, più o meno tra Malta e il Mediterraneo a sud della Sardegna. Quello è il Canale di Sicilia, e non altri bracci di mare: per cui, se qualcuno sente dire che le navi italiane hanno raccolto dei naufraghi nel Canale di Sicilia, deve, per forza di cose, immaginarsi il salvataggio tra Capo Bon e Mazara del Vallo e non, chessò, al largo di Venezia. Questo, perlomeno, secondo geografia.

Invece, i nostri telegiornali, opportunamente imbeccati dai nostri governanti, ci raccontano, ogni tre per due, di formidabili operazioni di salvataggio avvenute nel Canale di Sicilia, a circa 10 miglia dalla costa libica: come dire che un pattino con due turisti norvegesi è stata recuperato nel Mar Ligure, a dieci miglia circa dalla costiera amalfitana. Perché le spiagge del Golfo della Sirte, sulla cui battigia, ormai, avvengono questi salvataggi, distano dalla Sicilia e dal suo canale circa settecento chilometri. Avete capito bene? Settecento chilometri: noi partiamo dall’Italia ed andiamo a raccogliere naufraghi sulla costa della Tripolitania. Un vero e proprio servizio a domicilio, che, oltre a rendere decisamente più confortevole la traversata ai migranti, offre l’indiscutibile vantaggio di favorire in maniera piuttosto clamorosa coloro che lucrano sul traffico di esseri umani. Non fraintendetemi: non sto parlando delle cooperative che, in Italia, si ingrassano grazie al flusso mastodontico di disperati che arrivano da noi via mare. Mi riferisco ai pirati che agiscono alla luce del sole, non a quelli travestiti da crocerossine: parlo dei malandrini che incassano un sacco di soldi dagli aspiranti profughi e, poi, non devono neppure fare la fatica di portarli in Italia, visto che ci pensa la nostra Marina Militare. Come direbbe il Milo Minderbinder di “Comma 22”: così ciascuno ha la sua parte. Gli unici che ci smenano siamo noialtri, ma cosa volete che conti, di fronte all’immane e glorioso progetto di trasbordare un continente?

Insomma, stando così le cose, io proporrei ai nostri governanti di essere realistici: dato il flusso pressoché quotidiano di gente che sbarca in casa nostra e data l’evidente volontà di non mettere alcun freno ad un fenomeno tanto redditizio per qualcuno, perché non istituire un regolare servizio di traghetti, che, un paio di volte al giorno, colleghi il golfo sirtico con i principali porti siciliani? Si tratterebbe, semplicemente, di Realpolitik: un po’ come legalizzare la droga, perché tanto la gente si droga comunque, o abolire certi reati, perché tanto li commettono quasi tutti. In questo modo, la Marina tornerebbe ad occuparsi di cose militari. Le cooperative e le associazioni umanitarie potrebbero pianificare esattamente le proprie entrate ed organizzare investimenti, aumenti di capitale, magari quotarsi in borsa. I giornalisti potrebbero tornare a raccontare panzane sull’economia o la cronaca, lasciando in pace la geografia. Certo, regolarizzare gli afflussi per mezzo di una linea di traghetti significherebbe anche togliere a tantissimi sepolcri imbiancati della nostra politica l’occasione per farci il solito pippone sui morti in mare, sulla guerra e la disperazione, sul nostro dovere di samaritani: ma non è detto che questo, per la collettività, sarebbe un danno.

E, poi, volete mettere lo stile? Anziché dover girare le solite scene del gommone, si potrebbero confezionare dei video sul tipo di quelli delle navi da crociera: ordinate colonne di clandestini, tutti col loro giubbotto arancione e la bandierina italiana in mano, che salgono su qualche candido traghetto della Siremar o della Tirrenia, ci riscatterebbero in un sol colpo da tutti gli Schettino della nostra storia marinaresca! Perché, cari i miei lettori, voi ed io siamo abituati ad essere spremuti come limoni, pur sapendo che i nostri soldi, lungi dal servire ad aiutare chi non ce la fa, finiranno sprecati da qualche mammalucco che si crede Napoleone: sopportiamo tasse inique, servizi scandalosi, ignominiose ingiustizie: però, essere presi per i fondelli anche in geografia, porca l’oca, quello è davvero troppo! Che la chiamino Triton, Syren o Dugongo, questa operazione è geograficamente, prima che politicamente, grottesca: e che ci siano mezzibusti e mezzebuste che, col sorriso sulle labbra o con la peppa di circostanza, ci raccontino che il Canale di Sicilia comincia a Gibilterra e finisce in Egitto, è faccenda sanguinosamente offensiva per i nostri cervelli. Pagare, paghiamo: ma non fateci il torto di trattarci da poveri scemi, perché, il giorno che a qualcuno salterà la mosca al naso e vi butterà a mare, vedrete che differenza c’è tra guadare un fosso ed attraversare un oceano…


Ma non stiamo un po’ esagerando con questi “senatori” delle scodelle?

Chef showUna volta, quando si voleva sottolineare che, in una battaglia, si era grattato il fondo del barile, si diceva che erano accorsi a combattere perfino scritturali e cucinieri: il che faceva pensare che, in una situazione di normalità, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di additare un cuoco od uno scribacchino come esempio di sfolgorante eroismo. I tempi, però, cambiano e, oggi, si direbbe che la figura del cuoco sia alonata della stessa aura eroica che, un tempo, avvolgeva cavalieri e fanti. In realtà, ogni volta che mi capita di accendere la televisione, trovo qualche cuoco, che pontifica, che ammonisce, che strilla o che pubblicizza qualcosa: i palinsesti sono affollati di trasmissioni in cui si organizzano cene, si misurano cucinatori dilettanti, si allestiscono ristoranti o si selezionano i campioni del futuro. E, in tutto questo fervere di fornelli e di frullini, in questo lussureggiare di abbattitori e di soffritti, campeggiano, statuarie, le figure degli chef: solenni come monumenti, ieratiche come neurochirurghi ed autorevoli come feldmarescialli, impartiscono ordini circa la densità della chantilly o giudicano con occhio di sparviero il diametro delle patate julienne. E nugoli di assistenti e succedanei, trafelati e zelanti, eseguono all’istante, imitando lo scatto e la militare disciplina dei film sui marines: sì, chef, subito chef! Come se urlassero: signore, il fucile del soldato Palla di Lardo si chiama Charline, signore!

Ora, al di là del fatto che, a un vecchio alpino come me, abituato a modi assai meno americani, questa pantomima militare fa un po’ venire da ridere, mi pare che si stia un tantino esagerando con questa epopea cuochesca. Intendiamoci, quello del cuoco è un mestiere bello e difficile: in tanti anni in cui ho insegnato all’istituto alberghiero, ho visto centinaia di nostri giovani intraprendere la difficile carriera dello chef. Tanti non hanno resistito ai ritmi terribili e ai sacrifici imposti da questa professione, altri hanno raggiunto ottimi risultati, e qualcuno è anche arrivato in cima alla piramide. Molti hanno dovuto emigrare: molti hanno dovuto accettare compromessi. Di tutti, o quasi, ho il ricordo di bravi ragazzi, volonterosi ed umili: niente a che vedere con questi pomposi signori dei fornelli televisivi. Com’è possibile, perciò mi chiedo, che la gente riesca a mitizzare e a trasformare in un divo, con tutti i tic e le pretensioni tipici dei divi, uno che prepara insalate e cuoce salse? Un cuoco è un cuoco: non è un campione sportivo, un concertista, un pittore. E’ un cuoco, per la miseria: nulla di più e nulla di meno. Cosa c’è di elettrizzante in un soufflé? Che impresa degna di menzione è cucinare un buon pollo alla diavola? Vabbè, metto questa coserella nell’armadio delle millanta coserelle che non capisco dei tempi in cui vivo e vado avanti.

La faccenda televisiva, come spesso accade, è cominciata un po’ in sordina, come fenomeno marginale: una volta, invitavano Gualtiero Marchesi a raccontare un aneddoto, un’altra volta si parlava delle sparate di Vissani sulla politica o sulla caccia, e tutto finiva lì, come una curiosità da rubrica per signore. Poi, è arrivata Benedetta Parodi, che ha imperversato sullo schermo e nelle librerie, cinguettando le sue ricette salvacena o i suoi trucchetti da massaia furba. Il suo successo me lo spiego benissimo: carina, spigliata, abbastanza autoironica da non prendersi troppo sul serio, la Parodi ha simulato i problemi culinari di una casalinga qualunque, un po’ come Lando Buzzanca e Delia Scala facevano con una coppia di neosposi. Una formula che funziona sempre: il verosimile manzoniano, se rendo l’idea. Ad un certo punto, però, hanno cominciato ad apparire programmi in cui veri chef facevano i giudici di poveracci che aspiravano a diventare chef a loro volta o a gestire al meglio un ristorante: e da lì, come una cataratta, siamo stati inondati di cuochi di ogni genere e grado. Le parolacce di Ramsey sono diventate un simpatico tormentone, Cannavacciuolo si è messo a fare il maestro severo ma dal cuor d’oro e così via, di cucina in cucina, di brasato in brasato, fino alla saturazione odierna. E, poi, c’è Cracco: quello che la mena sugli ingredienti di alta fascia e fa la rèclame alle patatine.

Non so se gliel’hanno messa addosso questa toga praetexta da senatore delle scodelle, o se le palanche e la notorietà l’hanno un tantino, diciamo, infanatichito, però, quando ho visto una pubblicità in cui diceva che, quando tornava a casa, “..era semplicemente Carlo”, non ho potuto non domandarmi: perchè, quando prepari una zuppa chi pensi di essere, Leonardo da Vinci o Alessandro Magno? Ecco, al di là di questa bulimia televisiva, che mi farebbe odiare anche Mozart, se me lo rifilassero a reti unificate dodici ore al giorno, quello che proprio non mi va di queste mode del momento è l’albagia dei personaggi, la supponenza delle persone che, invece di ringraziare con umiltà il Padreterno della propria buona sorte, si atteggiano a fenomeni, in campi, tutto sommato, secondari della civiltà, come gli addominali scolpiti o le terrine di foie gras. Io credo davvero che la cucina sia un bellissimo artigianato, che fa onore al nostro Paese: ma non le cucine sotto i riflettori, in cui dei cuochi vanesi come dive del muto esibiscono il proprio ego. Io amo le cucine dove tanti bravi cuochi lavorano seriamente, senza fronzoli, a ritmi massacranti, per offrire ai clienti il frutto generoso del loro lavoro: senza bisogno di programmi tv che li incoronino campione del mese e senza le ciarle di qualche filosofo del tournedos. Altrimenti, domani, a coadiuvare i cuochi e gli scritturali nelle battaglie più disperate, dovremo chiamare i parà e i bersaglieri.