Il canone Rai è un sopruso! Ecco perché proprio non mi va giù

Rai canoneChe vi devo dire? A me sembrava un sopruso bello e buono, già quando ti facevano pagare il canone Rai, anche se tu nemmeno possedevi un televisore: bastava un semplice computer per garantirti l’obbligo. Annunciatrici, presentatori, mezzibusti e galliname assortito ti iniziavano a raccomandare sei mesi prima di pagare questo maledetto canone: e andavano avanti sei mesi dopo a dire che potevi emendarti, che con una piccola sovrattassa saresti stato in pace con la tua coscienza e con le patrie gabelle. Poi, visto che sempre più gente se ne strafregava del canone, della Rai e delle gallinesche esortazioni, hanno cominciato a mandare in giro garruli omuncoli, vestiti impeccabilmente, a controllare, prima verbatim e poi de visu, se avevi o meno strumenti atti alla riproduzione video oppure se avevi posto i sigilli ai canali di Stato. E Vabbè: una seccatura, ma niente di più. Alla fine, esasperato, pur di evitare ulteriori rotture di zebedei, pagavi e amen. Poi, è arrivato questo bel capo d’opera, e si è inventato l’ennesima boiata del canone in bolletta: così, deve essersi detto il furbacchione, non mi scappano, questi maledetti Italiani!

Ora, però, credo che il problema si sia spostato di baricentro: mi pare che il punto chiave non sia più pagare o meno una tassa di possesso del televisore, che vada a finanziare la tv pubblica o che permetta alla Rai di trasmettere anche programmi non commercialmente appetibili, in alternativa alle televisioni private. Intanto, un tempo, si diceva che il canone serviva a mantenere la qualità televisiva dell’azienda di Stato, che non poteva contare sugli sponsor e sulle entrate pubblicitarie: solo che, invece, oggi la Rai manda in onda pubblicità esattamente come gli altri. Sulla qualità, ovviamente, stendo un velo pietoso, ma il dato iniziale è completamente venuto meno: ergo, che paghiamo a fare? In secondo luogo (e credo sia la questione fondamentale), io penso che dare soldi alla Rai, oggi come oggi, sia semplicemente mantenere con le nostre palanche una servilissima agenzia di propaganda governativa: finanziare, coi soldi di tutti, le veline e le strombazzate di Renzi e della sua compagnia di giro. Pensate che stia scherzando? L’avete presente quella foto sui sondaggi demoscopici che gira in modo virale su Facebook? Massì, dai: quella in cui si vede un serioso giornalista di Agorà che racconta bubbole, con alle spalle un grafico a torta  riferito all’opinione degli Italiani sulle vocazioni lobbiste del governo Renzi. I numeri sono eloquenti: il 44% crede che Renzi appoggi smaccatamente le lobby, il 31% non lo crede e il 25% non sa o non risponde. Come dire che quasi un Italiano su due pensa che siamo governati da imbroglioni e da faccendieri, tanto per capirci. Solo che, su di un bellissimo sfondo rosso “rivoluzione d’ottobre”, le fette della torta non rispecchiano affatto, nelle dimensioni, il  dato numerico: il 31% occupa metà del cerchio, mentre il 44% è più piccolo perfino del 25% degli insipienti. Trucchetto patetico, per carpire l’approvazione (e il voto) degli anziani, dei miopi, dei disattenti cronici: insomma, di quelle categorie più deboli cui il PD dice sempre di pensare notte e dì.

Questa, signori, si chiama manipolazione del consenso o, se preferite, truffa ai danni dei cittadini: e questa truffa è messa in atto dalla sedicente televisione pubblica, per compiacere i propri padroni. E noi dovremmo cacciare cento euro a testa per mantenere agi e privilegi di questa banda di leccapiedi? O per permettere a Bruno Vespa di intervistare il giovane Riina? Per sorbirci i pistolotti di questo e di quello? Per gli scoop raccapriccianti della D’Urso? Per le risse da cortile nei talk show? Per sostenere il Minculpop in versione terzo millennio? Per ascoltare telegiornali tragicomici, con palinsesti accomodati, notizie camuffate e filmati taroccati? Al confronto, i filmati Luce del Ventennio erano la Bibbia illustrata. Insomma, miei cari, il punto non è più che farsi estorcere dei soldi per un servizio tutto sommato superfluo non garba a nessuno: il punto è che con quei soldi si finanziano marchette, in una sorta di favoreggiamento della prostituzione mediatica. Perché, in questo modo, non solo ci è stata tolta la libertà di decidere se finanziare o meno dei programmi scadenti, ma anche quella di scegliere se dare o meno ascolto alle panzane governative: col canone in bolletta, ci hanno tolto possibilità di mandare a remengo, simbolicamente, la Rai, i suoi padrini, i suoi padroni e tutto il caravanserraglio di ministre piangenti, litiganti ed intriganti che la Rai, quotidianamente ci infligge.


Boccia vince, ma per Confindustria è tempo di profonde riflessioni

Quattro anni sembrano passati invano. Nel 2012 Giorgio Squinzi battè Alberto Bombassei 93 a 82. Stavolta, Vincenzo Boccia ha superato Alberto Vacchi 100 a 91. Confindustria spaccata era e spaccata è rimasta. “E’ segno di vitalità democratica” ha osservato qualcuno. Come a dire che gli imprenditori italiani si sono almeno risparmiati sia le false larghe convergenze del passato che le nomine dall’alto. Un voto che spacca a metà resta, tuttavia, un segno evidente di una difficoltà a vivere da protagonisti, con una linea d’azione chiara e condivisa, tempi in cui gli spazi per le associazioni di categoria, ancorché cariche di gloria, si sono terribilmente ristretti. Una fatica comune alle realtà del mondo economico, dal commercio all’artigianato, e che non risparmia nemmeno di certo i sindacati, a loro volta alle prese con una evidente crisi di rappresentanza che non si traduce ancora in un altrettanto vistoso calo di tessere solo perché le organizzazioni si sono trasformate in centri servizi fiscali e assistenziali.
Tornando a Confindustria, gli addetti ai lavori ci dicono che Boccia, grossomodo come il suo predecessore Squinzi, ha vinto grazie all’appoggio delle società pubbliche (Eni ed Enel in testa), dei colleghi del centro e del sud e di qualche sostegno guadagnato anche nel Nord est. Quella dell’industriale grafico salernitano era indicata come la soluzione nel solco della continuità, in contrapposizione ad una figura “nuova”, impersonificata dal bolognese Alberto Vacchi, imprenditore di successo nel ramo metalmeccanico. A questi, per inciso, è andato il voto (con una sola eccezione) dei colleghi bergamaschi. E su questo fronte si sono schierati anche personaggi del calibro di Luca di Montezemolo, Gianfelice Rocca e Alberto Bombassei. Non è bastato, seppur per soli 9 voti il Consiglio generale di Confindustria ha scelto Boccia.
Starà a lui dimostrare, a partire dal 25 maggio quando entrerà ufficialmente in carica, se gli imprenditori italiani si possono permettere di proseguire lungo il solco tracciato negli ultimi anni da Squinzi all’insegna del basso profilo e della sostanziale accettazione di un ruolo di mera testimonianza rispetto alla politica del governo (e di quello di Matteo Renzi, in particolare). Sia chiaro, nessuna nostalgia dei tempi in cui l’assioma era, per intenderci, “ciò che è bene per la Fiat è bene per il Paese”, ma come promotori di sviluppo e portatori d’ interessi, nell’ambito del confronto e della contrattazione tra le parti, gli industriali hanno il diritto-dovere di far sentire la loro voce. Di essere protagonisti, di incalzare chi governa a promuovere cambiamenti e riforme, di confrontarsi e scontrarsi con i sindacati. Di proporre al Paese idee e progetti che lo aiutino a mettersi al passo con il resto d’Europa e del mondo.
Il collateralismo, quando non la subalternità alla politica, specie quando la politica alza troppo la cresta e presume di essere autosufficiente, non paga. Asseconda, forse, qualche ambizione personale o regala a qualcuno l’illusione di poter sopravvivere. Non dà, invece, nessuna garanzia sul futuro. Ma detto questo, a chi, prima con Bombassei (il cui successivo ingresso in Senato non ha giovato) e ora con Vacchi, ha tentato la carta del cambiamento è doveroso chiedere una riflessione autocritica. Due sconfitte consecutive non possono essere derubricate come banali incidenti di percorso. Sì, avranno prevalso le solite logiche correntizie e, più in generale, le consolidate manovre di potere di cui gli industriali, certi industriali, non sono meno esperti dei politici che tanto criticano. Converrà però anche interrogarsi se l’auspicato rinnovamento possa concentrarsi solo nella pur fresca e intraprendente biografia di un candidato presidente.


Bruxelles, quel pollaio mediatico che rende più amara la tragedia

Era già successo nel novembre scorso, con la raffica di attentati parigini. Si è ripetuto puntuale anche stavolta. Scoppiano due ordigni all’aeroporto di Bruxelles e, dopo un’ora, una bomba squassa una fermata della metropolitana. Prima smanetti sul cellulare, passi in rassegna quanti più siti puoi, per avere in presa diretta, fra foto e video, le notizie più fresche possibili su quanto sta avvenendo. Poi accendi la tv nella speranza di imbatterti in trasmissioni che affianchino alla cronaca approfondimenti e analisi utili a contestualizzare il tragico evento in una cornice più ampia. E invece, senza distinzioni di canali o di network, pubblici o privati, ecco sfilarti sotto gli occhi, incuranti di qualsiasi colpo di zapping, una sequela di salotti, tinelli, cortili mediatici popolati da parolai un tanto al chilo.
La prima che fa cucù dal video è Daniela Santanché. Poi premi il pulsante e spunta l’arcigno direttore di Libero Maurizio Belpietro. Subito seguito dal collega, non meno rabbioso, Alessandro Sallusti (direttore Il Giornale). Quindi ecco il piddino in servizio permanente effettivo in tv, Andrea Romano. E come può mancare il viso rubicondo del trottolino amoroso Fabrizio Rondolino? Tantomeno può marcare visita il pistolero americano Edward Luttwak, sempre pronto a dichiarare guerra non appena si leva un passero in volo.

Ma stavolta la vera chicca è Matteo Salvini nella doppia veste di cronista (la mattina, testimone sul posto come eurodeputato) e di leader di partito (la sera, ospite di tre talk show uno dietro l’altro). Risultato? Gli attentati, le vittime, il sangue, insomma, il fatto, diventa solo un pretesto. E’ lo spunto da cui partire né più né meno se si trattasse della riforma costituzionale o del referendum sulle trivellazioni al largo. Basta un accenno e poi ognuno inzuppa il pane nella più bieca e strumentale propaganda, chi soffiando a destra chi tirando a sinistra. Le voci si accavallano, i discorsi si perdono in subordinate che affondano nel nulla, la platea applaude ad ogni sciocchezza. Tu cerchi di sottrarti, cambi canale e speri che quello nuovo ti offrirà un prodotto migliore. Macché, l’omologazione, al ribasso, è totale. I morti sono ancora caldi, il sangue non è nemmeno stato pulito via, eppure nell’etere si perdono giudizi inappellabili, analisi impietose, previsioni granitiche. A teatro si direbbe che ciascuno recita a soggetto. Non c’è pietà per gli ascoltatori, e passi, ma nemmeno per le vittime della tragedia.

E’ la banalizzazione del male. E, per converso, il trionfo della stupidità contrabbandata per informazione e riflessione. Colpa certamente del penoso livello di chi dovrebbe avere il ruolo di rappresentare la testa pensante del Paese (politici, osservatori, analisti), ma pure di chi gestisce le osterie mediatiche all’insegna del medesimo modello, quello della rissa perpetua.
Da quest’altra parte del video ci siamo noi, miseri tapini annichiliti da tanto spreco di energie e costretti nostro malgrado a rifugiarci verso altri canali dove, in lingua inglese o francese o tedesca, ci vengono fornite notizie, reportage, inchieste, analisi che tengono rigorosamente alla larga qualsiasi tentazione demagogica o propagandistica. Ma, da questo lato della barricata, ed è l’aspetto più grave su cui sarebbe opportuno ragionare, ci sono anche loro: i terroristi. Loro sì che si divertono. Mentre noi ci dedichiamo al circo, loro fanno la guerra. Mentre noi ci scambiamo insulti, loro piazzano bombe. E allora, di grazia, c’è ancora qualcuno che si illude su chi ne uscirà vincitore?


Ubi, gli azionisti diretti in Consiglio? Meglio dar ascolto agli ammonimenti

ubi-banca1.jpgIn Italia – e quindi a Bergamo – sono tutti commissari tecnici della Nazionale, direttori di giornali, presidenti del Consiglio, amministratori delegati e ovviamente banchieri. Controindicazione della libertà di parola è che quelle a vanvera sono numericamente preponderanti e sovrastano quelle di chi sa di che cosa sta parlando. Così, per cercare di ristabilire un po’ di equità, vale la pena di ricordare almeno due recenti interventi di tecnici del settore, che possono essere utili per inquadrare la vicenda Ubi. Uno è l’intervento del responsabile della vigilanza di Bankitalia Carmelo Barbagallo. Il riferimento specifico è in questo caso alla riforma delle Bcc, ma vale anche per quella delle sorelle maggiori, le Popolari. La ratio del Governo, declinata in maniera diversa, è infatti la stessa. Come ha ribadito il ministro dell’Economia Padoan la considerazione di base è che il sistema è troppo frammentato. Insomma, ci sono troppe banche e a parere del governo questo non va bene, perché piccoli istituti possono creare grandi problemi. E dato che volontariamente le aggregazioni stentavano a procedere, nell’impossibilità di renderle obbligatorie, perché comunque c’è la libertà di impresa, ha creato la situazione per “favorirle” prescrivendo trasformazioni societarie delle grandi popolari cooperative in Spa e delle singole Bcc in realtà dipendenti da holding sulle quali è più facili vigilare e che ne delimitano l’autonomia. Le obiezioni che anche in questo modo è stata violata la libertà di associazione al momento non hanno avuto riscontro e, anche se il governo sembra che da arbitro, se proprio non sia diventato un giocatore, si comporti ormai come un appassionato tifoso (come conferma l’esplicito sostegno alla fusione Banco-Bpm), questo è lo scenario.

Barbagallo, in ogni caso, sostiene che c’è una cinquantina di banche di credito cooperativo in difficoltà (su un totale di oltre 300) e potenzialmente sottoposte a «tensioni» dovute alla scarsa patrimonializzazione e alle debolezze e criticità di un sistema reso ancora più fragile dalla crisi finanziaria. In generale Barbagallo, al di là delle riforma, fotografa un mondo scarsamente capitalizzato e poco propenso all’innovazione, che ha nel territorio la sua forza e allo stesso tempo il suo limite, con conflitti di interesse e condizionamenti locali che possono influenzare le decisioni di allocazione del credito e di investimento, «mettendo a rischio la sana e prudente gestione». Questo è un parere autorevole sul fatto che non sia sano fondare una banca, Bcc o popolare che sia, soltanto sul riferimento al territorio. E in ogni caso lasciare pensare che il richiamo non sia  sempre in buona fede. Altrettanto chiaro è stato l’editoriale dell’ex presidente dell’Abi Tancredi Bianchi sul dorso di Bergamo del Corriere della Sera. Dall’alto della sua pluridecennale esperienza di banchiere, in questo caso parlando esplicitamente di Ubi, rimette nella giusta carreggiata il dibattito sulle nomine. Pur avendo reso popolare in passato l’espressione “i piedi nel borgo, la  testa nel mondo”, il professor Tancredi Bianchi, nel suo intervento ha saltato a piè pari, come merita, il tormentone ultraprovinciale sulla conta dei rappresentanti bresciani e bergamaschi. Questa in una Spa è infatti una questione superata dal fatto che è naturale che chi ha più azioni faccia valere il suo peso. Ed è anche una questione affrontata fuori tempo perché se Bergamo vuole continuare a contare, come crede di dover contare, lo deve fare non tanto riferendosi alla tradizione, ma comprando più azioni, o organizzandosi meglio. Il problema della rappresentanza in ogni caso scoppia adesso, ma ha le sue origini con la naturale diluizione conseguente alle fusioni, accentuata dal fatto che quella con la Banca Lombarda ha riguardato una Spa con capitale meno frammentato. Ma, nella logica del se, probabilmente senza fusioni, quella che ha dato origine a Ubi e ancora di più quella precedente che ha portato alla nascita di Bpu, la Banca Popolare di Bergamo sarebbe già stata inghiottita da qualche gruppo più grosso.

Tancredi Bianchi pone comunque un’altra questione, meno appassionante dei derby campanilistici, ma più concreta. Nelle società per azioni moderne la tendenza, che non è una moda, ma una necessità, è una maggiore distinzione tra azionisti, controllori e gestori. La preoccupazione non deve essere quindi tanto sul fatto che ci siano consiglieri bresciani o bergamaschi, ma che ci siano professionisti di valore e sempre meno condizionati dal loro essere (grandi) azionisti. La critica quindi dovrebbe essere rivolta semmai non tanto al fatto che ci sono troppi bresciani e pochi bergamaschi, ma al fatto che si profila un consiglio di sorveglianza dove è forte la presenza diretta di azionisti di peso, in particolare nella parte bresciana del listone. Ed è incidentale che siano bresciani, se non per il fatto che in quest’area si trova la maggiore concentrazione di grandi azionisti. Parere personale è che in fondo questo può essere anche maggiormente ammesso in un consiglio di sorveglianza che ha il ruolo che dice il suo nome – in fondo chi ha un interesse diretto è anche particolarmente motivato a controllare – anche se effettivamente sarebbe stato meglio che ci fosse una maggioranza di consiglieri totalmente indipendenti o comunque soci non così rilevanti. L’ammonimento di Tancredi Bianchi è però da tenere seriamente presente nella futura composizione del Consiglio di gestione: se dovesse esserci una ampia presenza di azionisti diretti (che nello specifico non potrebbe che essere bresciani) allora sì che invece di avere una banca più aperta e moderna si rischierebbe di spostare soltanto la chiusura di mentalità da un territorio ad un altro.


Salvini & Meloni, quei giochini surreali e sterili per far fuori Berlusconi

La Prima Repubblica (salvo eccezioni) è stata spazzata via da mani Pulite. Umberto Bossi ha subìto l’onta delle ramazze. Massimo D’Alema, per quanto cerchi ancora d’agitarsi, è stato rottamato. E pure Antonio Di Pietro se n’è dovuto uscire di scena suo malgrado tra le pernacchie nonostante ad un certo punto fosse assurto al ruolo di salvatore della Patria. Inutile girarci intorno, per un uomo politico l’uscita di scena spontanea è più rara di una vittoria dell’Atalanta di questi tempi grami. Così serve sempre un elemento esterno per arrivare laddove forse, con un po’ di ragionevolezza e soprattutto senso della misura, si potrebbe giungere senza traumi.
Sta succedendo anche nel caso di Silvio Berlusconi, come si può vedere dallo spettacolo che rimbalza dalla Capitale. Tutte le beghe sul candidato più adatto a conquistare il Campidoglio sono mangime per i piccioni. Intanto perché così com’è ridotto, il centrodestra non ha la benché minima chance di arrivare sulle macerie lasciate da Ignazio Marino e dai suoi illustri predecessori (a partire da Terminator Alemanno). E in secondo luogo, perché a Matteo Salvini anzitutto, e a Giorgia Meloni di conserva, sta a cuore ben altra partita. Una sfida rivolta al futuro, a conquistare la leadership per cominciare a ricostruire il disastrato terreno dei moderati e conservatori.

Dopo vent’anni, la stella di Berlusconi è ampiamente tramontata. Non ne vuole prendere atto lui, per via dei fortissimi interessi economici che pure sono sempre stati la stella polare del suo agire politico e per la sua congenita incapacità a vestire panni che non siano quelli della primadonna assoluta e incontrastata. E non lo vogliono fare nemmeno i superstiti cortigiani che, non potendo vivere di propria virtù, cercano affannosamente di tener su il catafalco nella speranza di sopravvivere il più a lungo possibile.
Ma qui non è il caso di infierire. Il tacchino non si è mai accomodato in padella da solo e, quanto al resto, l’umanità è piena di servi mediocri che s’attaccano come cozze alle barche in disarmo…

Piuttosto, fa riflettere il modo in cui la coppia Salvini & Meloni combatte la sua battaglia. Non si capisce perché non vadano dritti al punto. Che significa, senza troppi giri di parole, invitare Berlusconi ad accomodarsi. In modo chiaro, trasparente, diretto. La leadership si misura sulla capacità di condurre una battaglia, certo scomoda e per certi versi pure ingenerosa (ma come diceva quel tale? La politica è lacrime, sangue e m…), a viso aperto. Assumendosi la responsabilità di una scelta netta. E, naturalmente, correndo il relativo rischio di fare pluff. Ma l’alternativa è questo surreale giochino del tutti contro tutti a base di veti incrociati, insinuazioni, indagini genealogiche sulla purezza della razza.
Il “muoia Sansone con tutti i filistei” è risultato alla portata di mano. Inoculare la sindrome della sconfitta, l’ennesima, in Berlusconi probabilmente aiuterà Salvini & Meloni a sentirsi più forti. Difficile, tuttavia, che senza una netta e radicale revisione del corredo programmatico-ideologico e la formazione di una autorevole e preparata classe dirigente (cosa che oggi non si intravede) possano anche solo lontanamente pensare di avvicinarsi ai consensi conquistati nell’arco di un ventennio dall’Unto del Signore.


Ubi e Italcementi, troppi equivoci sulla responsabilità sociale d’impresa

italcementiAd insistere troppo sulla responsabilità sociale d’impresa alla fine le aziende sono state prese alla lettera. Questo concetto, che non prelude né alla cogestione, né tantomeno all’esproprio, era stato sviluppato negli anni Sessanta per sottolineare l’interscambio tra le aziende e il territorio, più o meno vasto, in cui operano. Poi è diventato uno strumento di marketing, a partire dalle aziende ritenute a torto o ragione inquinanti, che volevano dimostrare che quello che prendono dal territorio, anche in termini di impatto ambientale, lo restituiscono al territorio sotto altre forme. Quando si è iniziato a parlare di ruolo degli stakeholder, come sempre quando non ci si intende nel lessico, si è partiti per la tangente.. Stakeholder sono i “portatori d’interessi”, ovvero chi ha un ruolo influente nei confronti di un’azienda e tra questi ci sono i clienti, i fornitori (lavoratori compresi), i finanziatori, ma anche le comunità locali o l’amministrazione pubblica. L’equivoco è che il riconoscimento di un ruolo non vuole dire avere diritti. Non è che quando un’azienda dice che il cliente ha sempre ragione significa che si mette lui a decidere al posto dell’imprenditore.

Il premio Nobel Milton Friedman già molti anni fa ha bocciato la teoria sulla “responsabilità sociale d’impresa” – già criticata anche da altri perché l’indeterminatezza e la mancanza di priorità tra i vari portatori d’interesse, la rende poco praticabile – sostenendo che i manager sono agenti per conto dei proprietari azionisti e che devono agire nell’esclusivo interesse di questi ultimi. E che utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali significa fare beneficienza con i soldi degli altri. Forse Friedman può essere un po’ estremo, ma di certo il suo pensiero non è particolarmente popolare tra i portatori d’interesse bergamaschi dove molti si sentono titolari di più diritti degli stessi proprietari.

Un caso è quello di Ubi dove in vista della prossima assemblea per il ricambio dei vertici tutti dicono la loro, dimenticando che l’unico diritto di parola spetta solo agli azionisti, che non sono più tutti uguali tra loro, come nella Popolare, ma hanno un peso diverso a seconda di quante azioni hanno. Il fantomatico e indistinto territorio ha un potere importante, come cliente, fornitore e portatore di interessi, ma è bene non confondere i ruoli: parlare di diritti sulla governance che al momento in Italia non hanno neanche i lavoratori, al contrario di quanto accade in altri Paesi come la Germania, è sicuramente fuori luogo.

Un altro caso è quello di Italcementi. Del gruppo cementiero è stata annunciato a luglio il passaggio del controllo alla tedesca Heidelberg, una volta raggiunte le autorizzazioni da parte degli Antitrust di mezzo mondo, con successiva Offerta pubblica d’acquisto sulle azioni rimanenti. Si tratta di una vendita tra azionisti privati che sta seguendo tutte le regole, quindi al di là della legittima preoccupazione dei lavoratori per l’esito dell’operazione sul piano occupazionale, non si capisce perché i sindacati si lamentino del fatto che il governo non mostri di volersi fare parte attiva nella vicenda. Si sta parlando di cemento che neanche in Francia, notoriamente molto protezionistica, è un settore considerato strategico per gli interessi nazionali (tanto è vero che Ciments Français è stata venduta a Italcementi e Lafarge si è fusa con Holcim), quindi non si capisce su cosa debba intervenire il governo e soprattutto a quale titolo.

Ci si scontra anche in questo caso nella classica visione a prospettive variabili. Ci si professa per il libero mercato quando vuol dire fare quello che si vuole in maniera tendenzialmente anarchica, senza dover rispondere a nessuno, ma quando sono gli altri a professarlo a nostro (presunto) danno, allora ci si ricorda della responsabilità sociale d’impresa, magari a sproposito. La costituzione italiana, articolo 42, del resto riconosce e garantisce la proprietà privata. Di cogestione o di dittatura del proletariato non c’è traccia.


Renzi, il desolante spettacolo del Pd e il rischio di una Waterloo

Forse è davvero tempo che Matteo Renzi smetta di dare la caccia a gufi e cornacchie per dedicarsi a mettere ordine in casa propria. Lo spettacolo che sta dando il Partito democratico da Napoli a Roma, senza trascurare Milano e tante piccole situazioni locali (anche bergamasche, da Treviglio a Ponte S. Pietro passando per Cologno al Serio), è a dir poco incredibile. Tanto da premier fa sfoggio di muscolare vitalità a Palazzo Chigi quanto da segretario appare incapace di governare la creatura sulla quale, comunque, si regge la sua avventura politica.
Lo scorso anno sull’altare di questa clamorosa contraddizione è stata immolata la Liguria. Ora la posta in palio, anche solo sul piano simbolico, è ancora più elevata perché si disputa il governo delle più importanti città del Paese. Eppure, il Giovin Signore fiorentino tira dritto come se nulla fosse. Sembra un piccolo Napoleone (che già di suo non era un watusso…): io vado avanti, l’intendenza seguirà.

Ma deve stare attento perché la sua Waterloo potrebbe trovarla proprio in periferia. La spregiudicatezza con cui prima ha dato via libera all’elezione di Vincenzo De Luca (gravato di una condanna per abuso d’ufficio) alla presidenza della Regione Campania ed ora chiude gli occhi sul ricorso, presentato dal candidato a sindaco di Napoli Antonio Bassolino, per fare luce su alcune disinvolte manovre di pagamento del voto avvenute in alcuni seggi (come documentato da video del sito Fanpage.it), è disarmante. Lo stesso dicasi per il pasticcio sui conteggi delle schede bianche e nulle a Roma.
La stessa credibilità, e quindi anche validità, dello strumento delle elezioni primarie, su cui per primo Renzi ha costruito la sua affermazione, ne sta uscendo fortemente compromessa. A Milano abbiamo visto in coda file di cinesi incapaci di spiaccicare una parola di italiano ma desiderosissimi di votare per Beppe Sala (?). A Napoli è toccato sorbirci l’ennesimo remake del voto di scambio. In entrambi i casi, il vertice del Pd ha liquidato le polemiche che si sono levate come sciocchezze. Ma si può essere tanto machiavellici da illudersi che il fine (l’elezione del proprio candidato) giustifichi sempre i mezzi?. E soprattutto, possibile che non si voglia capire che, al di là dei singoli pur censurabili episodi, quel che manca veramente al Partito democratico a trazione renziana è il rapporto con il territorio. Il modello verticistico, costruito su leadership di cartapesta create per diretta emanazione del Giovin Signore (Raffaella Paita a Genova, Beppe Sala a Milano e, in parte, Roberto Giachetti a Roma), ha scavalcato e travolto il tradizionale confronto dialettico con la base. Le primarie, e più in generale le elezioni, servono solo a certificare cooptazioni già decise. Salvo poi scoprire che il giocattolino non tiene. In Liguria è stato Cofferati a chiamarsi fuori, a Milano il vicesindaco Balzani si è messa a fare la fronda, a Roma si profila una candidatura dell’ex ministro Bray (con la longa manus di D’Alema dietro) e a Napoli probabilmente Bassolino correrà da solo contro la candidata del Pd. Un vero trionfo, non c’è che dire. Dell’anarchia, però, non di un partito che aspira a mantenere la guida del Paese.
Renzi, almeno in apparenza, può continuare a fingere che governo e partito corrano su binari diversi. Ma la contraddizione è troppo marcata perché non si arrivi, prima o poi, ad un redde rationem. Lo saranno senz’altro le amministrative di giugno (specie se il centrosinistra dovesse perdere Milano, Roma e forse anche Torino). Ma ancor di più, specie se vi arriverà sulla scia di una sconfitta, il referendum costituzionale di ottobre.
Renzi ha solo un grande vantaggio, per ora: la drammatica crisi del centrodestra, incapace di congedare Silvio Berlusconi e di trovare una valida leadership alternativa. Non si illuda, però: con i cosiddetti uomini forti gli italiani sanno essere feroci. Prima li issano su un monumento, poi li riempiono di pomodori in faccia.


Soste e mobilità, quella strategia che il Comune non chiarisce

Stavolta ad accendere gli animi è l’ipotesi di estendere il pagamento della sosta in città anche la domenica. In passato, il muro contro muro si è alzato per l’isola pedonale o per la movida. Lo si sa, a Bergamo affrontare i temi della viabilità e della sosta è più complicato che studiare l’esistenza delle onde gravitazionali. Un po’ perché si lascia prevalere la logica di parte, secondo le regole del bar sport, per cui spesso si è contro o a favore di un provvedimento a prescindere, per appartenenza a una categoria o a un partito più che scelta ragionata. E un po’, ma verrebbe da dire soprattutto, perché chi ha la responsabilità di gestire la materia, già di per sé incandescente, ha sempre faticato sia a elaborare una strategia di lungo termine sia a trovare le modalità più adatte a coinvolgere, e quindi a far comprendere le singole decisioni, i cittadini (siano essi commercianti, residenti, turisti, ecc).

posteggi_parcheggiAnche nel caso di stretta attualità, mettersi a discutere se sia giusto o sbagliato estendere il pagamento della sosta nel giorno festivo rischia di essere ozioso. Ci sono valide ragioni da una parte e dall’altra, tant’è che se è vero che alcune città hanno già fatto questa scelta, è altrettanto sicuro che altre non hanno percorso la medesima via oppure hanno adottato provvedimenti diversi. Piuttosto si tratta di capire perché si è arrivati a questa determinazione, ma soprattutto in quale ragionamento si inserisce. E allora, mettendo i piedi nel piatto, è il caso di dire che forse proprio su questo fronte l’Amministrazione Gori finora non ha reso comprensibile qual è la sua strategia e quali gli obiettivi che si vuole porre.

“Vogliamo disincentivare l’uso dell’auto”, come ha detto l’assessore Stefano Zenoni, è enunciazione di principio che di per sé può essere fatta propria da chiunque. La vera risposta che si attendono i cittadini è quella che riguarda cosa si propone in alternativa. A quasi due anni dall’insediamento, ci si deve ancora affidare agli spifferi di Palazzo Frizzoni per apprendere che si sta elaborando un piano della sosta e un piano della mobilità che conterrebbero innovazioni significative ma di cui non è dato conoscere il contenuto. Si vagheggia di ring e di metro bus (cavallo di battaglia della campagna elettorale goriana), solo che rimangono semplici parole. Suggestive, magari, ma come titoli di un tema a cui manca lo svolgimento.
Intendiamoci, nessuno pensa che in Comune si trastullino con il Lego. Data la delicatezza della materia, c’è sempre da curare ogni misura fino all’ultimo dettaglio. E tuttavia, è tempo di uscire allo scoperto, di spiegare come e dove si vuole arrivare. Solo un confronto serrato, preciso e puntuale, senza pregiudizi da una parte e dall’altra, può aiutare a far maturare scelte le più condivise possibili. Bisogna mettere sul tavolo mezzi, risorse, progetti, tempi di attuazione. Con la consapevolezza, da parte di chi ha l’onere della guida, che il paziente (se così vogliamo chiamarlo) accetterà anche la medicina più amara solo se si convincerà che gli possa giovare. Quindi, trasparenza, condivisione e lungimiranza. E’ l’unico modo perché Bergamo si adegui ai tempi che cambiano non smarrendo la sua identità.


Ubi e Italcementi, se il mercato mette a nudo il “mito” della bergamaschità

Italcementi“Avevamo due banche” (Ubi e Credito Bergamasco) è il ritornello che va in onda in queste settimane. Una versione aggiornata delle canzoncine che è toccato sorbirci quando le anime bennate hanno scoperto che “avevamo una municipalizzata” (Bas confluita in Asm, poi diventata A2A) e “avevamo una multinazionale del cemento” (Italcementi venduta a Heidelberg). Ebbene sì, provinciali di tutta la Bergamasca unitevi: il re è nudo. La fola di una Bergamo concentrato di virtù e di intelligenze, di saperi e di poteri, sta crollando miseramente.  E’ il mercato, bellezza. Un sistema che si fonda su regole chiare fino alla brutalità magari, ma senza alcun dubbio trasparenti. La prima delle quali è che comanda chi ha più capitali. Non chi ha una lunga storia, chi sa amministrare meglio una società o un’azienda, chi è intriso di buoni valori, chi sa governare la comunicazione per costruirsi una autoreferenzialità protettiva.
Se Bergamo perde il controllo di alcune delle realtà che ne hanno caratterizzato la storia economica non è un atroce scherzo del destino o il risultato di un complotto. È semplicemente il frutto di scelte, dalle più antiche alle più recenti. Se solo oggi se ne vedono le conseguenze è perché in un mercato sempre più aperto e globale non c’è più spazio per i “cavalieri solitari”. E tantomeno per la difesa dei campanili.

Sarebbe ora di aprire gli occhi e smetterla di piangersi addosso. La “bergamaschità” fine a se stessa, ammesso che abbia mai avuto un reale valore, oggi non serve a nulla. Questa benedetta storia dei legami con il territorio ha fatti guasti terribili, come dimostrano vari esempi in giro per lo Stivale (da Siena ad Arezzo passando per Vicenza). Perché rinchiudersi nel recinto locale ha spesso significato perpetuare logiche di familismo, di corrente, di interesse personale. Il concetto di radicamento vale per considerazioni di carattere storico e sociale, ma nulla ha a che vedere con l’economia. A qualcuno parrà banale, ma la “buona” multiutility non è quella governata da amministratori che parlano il tuo stesso accento o che abitano nel tuo quartiere ma quella che offre i migliori servizi alle condizioni più convenienti. Lo stesso vale per la “buona” banca. Non conta la targa ma il soddisfacimento delle esigenze del cliente. Tanto più questo sarà elevato, tanto meglio l’istituto di credito o l’ex municipalizzata starà sul mercato al pari dei concorrenti.

Cosa intendiamo dire? Semplicemente, che non è affatto vero, almeno a priori, che Bergamo debba sentirsi più povera se Ubi sarà controllata da altri che non abbiano natali orobici o perché Italcementi è finita in mani tedesche (certe scelte, sui livelli occupazionali non più sostenibili, sarebbero state obbligate anche senza la cessione). Smettiamola di sentirci i migliori, i più capaci, quelli che fanno sempre le scelte più giuste. Proprio quel che sta maturando in questi mesi dimostra che altri sanno essere anche più coraggiosi e lungimiranti. E allora sarebbe segno di saggezza cominciare a ragionare aprendosi al confronto e alla collaborazione con il mondo che ci sta intorno. Forti delle nostre qualità ma consapevoli che non tutto si esaurisce dentro le Mura. Altre sfide sono alle porte, come l’ipotizzata fusione tra Sea e Sacbo. Se la affrontiamo con la paura di perdere un pezzo di patrimonio (e anche di potere) ci consegniamo alla sconfitta sicura. La “bergamaschità”, d’ora in avanti, lasciamola al Ducato di Piazza Pontida (con rispetto parlando, naturalmente).


Ubi, perché non ha più senso guardare al passato

ubi-banca1.jpgSe la vogliamo buttare sul piano calcistico, se si vuole capire quanto conta la storia e la tradizione in un’impresa, si può guardare a quanto è successo alla Roma A.S. – per inciso una società quotata in Borsa – dove “il capitano” per eccellenza, Francesco Totti, 27 anni in giallorosso, è stato accantonato di punto in bianco. La bandiera e la dedizione sono infatti belle cose, ma l’importante è che la squadra vinca. Per avvicinarsi a Bergamo, qualcosa di simile è avvenuto con un altro capitano, Cristiano Doni, che non aveva certo l’attaccamento alla maglia di Totti: c’è voluto un po’ di tempo perché i tifosi più accaniti riuscissero a metabolizzare una situazione ben più grave di un giocatore giudicato sul viale del tramonto, ma alla fine il capitano è stato scaricato, e poi, tanto per esagerare e con poco rispetto di quella storia che dovrebbe essere riconosciuta nel bene e nel male, condannato  a una sorta di “damnatio memoriae”, perché l’importante era che andasse avanti l’Atalanta.

Se questi discorsi sulla storia passata valgono in una squadra di calcio, a maggiore ragione valgono in una banca, soprattutto se società per azioni. Già spesso si tende a confondere gli istituti di credito con gli istituti di beneficenza e i veri proprietari (gli azionisti) con altri portatori di interessi più o meno concreti. In Ubi sembra che sia anche dimenticato che le regole sono cambiate, che il capitolo cooperativa si è chiuso e non si può gestire un’azienda continuando a guardare all’indietro, recriminando su cosa è stato e cosa sarebbe potuto essere. Invece la componente “orobica” di Ubi, per indicare, semplificando, i  soci di provenienza Bpu, alla retorica della “banca bergamasca” non vuole rinunciare, anche se i numeri in questo momento dicono che non c’è più. Forse non è chiaro il funzionamento di una società per azioni a chi continua a sostenere che il gruppo è patrimonio dei bergamaschi (quali?) perché la Banca Popolare di Bergamo è la banca più produttiva ed efficiente del gruppo. Un sillogismo non distante dall’esigere che nel Consiglio dell’ Abb o della Schneider Electric devono esserci rappresentanti bergamaschi perché la loro filiale in provincia va molto bene: potranno anche entrare nel board, ma solo se i proprietari saranno d’accordo. Lo stesso vale alla Popolare di Bergamo, un gioiellino che va molto bene, ma che  è controllata al 100% da Ubi Banca, dove i bergamaschi sono riusciti finora ad esprimere solo un patto di sindacato presentatosi (in attesa di aggiornamenti) con una quota del 2,27% del capitale. E dato che in un’assemblea di una Spa vince chi ha un’azione più degli altri (come quando Ubi era una cooperativa vinceva chi presenta un socio più degli altri), se si dovesse tenere in questo momento, con le attuali posizioni conosciute,  il controllo non è dei bergamaschi ma della cordata di anima bresciana (ex Banca Lombarda) che rappresenta l’11,95% del capitale e quindi decide sia in Ubi, sia indirettamente nella Popolare di Bergamo.

Con il Patto dei Mille, come al momento sua unica proposta, di fatto Bergamo ha reso palesemente visibile la sua posizione di inferiorità. Se corre da sola sarà con ogni probabilità messa fuori gioco anche dalla lista che dovrebbero presentare i fondi, mentre se troverà un’alleanza con il patto bresciano, probabilmente estesa anche alla Fondazione Caricuneo (ex azionista Lombarda che ora corre da solo), che ha pure una quota superiore al 2%, riuscirà ad esprimere qualche consigliere, con ogni probabilità anche uno dei due presidenti, ma di fatto sarà presente in Ubi più da ospite, che da padrone, grazie alla buona disposizione, in virtù di relazioni consolidate, degli alleati bresciani che, se volessero, potrebbero avere tutto. Questa situazione, in ogni caso, non si è creata tanto per colpa della Spa, quanto perché Bergamo non è riuscita ad esprimere una formula che permetta di unire la forza dispersa dei tanti ex soci della Popolare, azionariato diffuso e frammentato, e per aver pensato che si potesse continuare a contare senza tirare fuori i soldi e acquistare azioni.

Ma il fatto che venga superata una divisione geografica ormai antistorica, dopo ormai quasi nove anni dalla fusione e della nascita del terzo-quarto gruppo bancario – e si intende non provinciale, ma nazionale -, leader non solo a Bergamo ma anche su altre piazze,- dovrebbe essere nel gioco delle cose. Si può pensare che alla maggior parte dei clienti e degli azionisti, sempre di più non bergamaschi, importi ben poco dove siano nati i consiglieri e siano legittimamente più interessati ad avere una banca sana ed efficiente e  soprattutto, in questi tempi da panico di bail-in, di non avere brutte sorprese. Che spesso arrivano proprio dai conterranei, come hanno scoperto a loro spese gli obbligazionisti di Banca Etruria e Banca Marche, quando la conoscenza, l’amicizia e i favori reciproci portano a perdita di professionalità. Pensare che una gestione sia migliore solo perché i Consigli siano composti da bergamaschi o da bresciani (con l’avvertenza che in ogni caso il consigliere delegato Victor Massiah è nato in Libia) è ingenuo, mentre se la questione riguarda solo interessi di potere o di poltrone sarebbe meglio chiudere subito, con un po’ di preoccupazione,  il discorso. Per aiutare a valutare con orizzonti più grandi si potrebbe piuttosto pensare di chiudere definitivamente con il passato, realizzando anche sinergie e risparmi, e procedere alla realizzazione di una banca unica: forse ragionando solo come Ubi, Unione di Banche Italiane, l’aspetto del campanile provinciale inizierebbe veramente a contare meno e si guarderebbe a questioni più importanti.