Ad insistere troppo sulla responsabilità sociale d’impresa alla fine le aziende sono state prese alla lettera. Questo concetto, che non prelude né alla cogestione, né tantomeno all’esproprio, era stato sviluppato negli anni Sessanta per sottolineare l’interscambio tra le aziende e il territorio, più o meno vasto, in cui operano. Poi è diventato uno strumento di marketing, a partire dalle aziende ritenute a torto o ragione inquinanti, che volevano dimostrare che quello che prendono dal territorio, anche in termini di impatto ambientale, lo restituiscono al territorio sotto altre forme. Quando si è iniziato a parlare di ruolo degli stakeholder, come sempre quando non ci si intende nel lessico, si è partiti per la tangente.. Stakeholder sono i “portatori d’interessi”, ovvero chi ha un ruolo influente nei confronti di un’azienda e tra questi ci sono i clienti, i fornitori (lavoratori compresi), i finanziatori, ma anche le comunità locali o l’amministrazione pubblica. L’equivoco è che il riconoscimento di un ruolo non vuole dire avere diritti. Non è che quando un’azienda dice che il cliente ha sempre ragione significa che si mette lui a decidere al posto dell’imprenditore.
Il premio Nobel Milton Friedman già molti anni fa ha bocciato la teoria sulla “responsabilità sociale d’impresa” – già criticata anche da altri perché l’indeterminatezza e la mancanza di priorità tra i vari portatori d’interesse, la rende poco praticabile – sostenendo che i manager sono agenti per conto dei proprietari azionisti e che devono agire nell’esclusivo interesse di questi ultimi. E che utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali significa fare beneficienza con i soldi degli altri. Forse Friedman può essere un po’ estremo, ma di certo il suo pensiero non è particolarmente popolare tra i portatori d’interesse bergamaschi dove molti si sentono titolari di più diritti degli stessi proprietari.
Un caso è quello di Ubi dove in vista della prossima assemblea per il ricambio dei vertici tutti dicono la loro, dimenticando che l’unico diritto di parola spetta solo agli azionisti, che non sono più tutti uguali tra loro, come nella Popolare, ma hanno un peso diverso a seconda di quante azioni hanno. Il fantomatico e indistinto territorio ha un potere importante, come cliente, fornitore e portatore di interessi, ma è bene non confondere i ruoli: parlare di diritti sulla governance che al momento in Italia non hanno neanche i lavoratori, al contrario di quanto accade in altri Paesi come la Germania, è sicuramente fuori luogo.
Un altro caso è quello di Italcementi. Del gruppo cementiero è stata annunciato a luglio il passaggio del controllo alla tedesca Heidelberg, una volta raggiunte le autorizzazioni da parte degli Antitrust di mezzo mondo, con successiva Offerta pubblica d’acquisto sulle azioni rimanenti. Si tratta di una vendita tra azionisti privati che sta seguendo tutte le regole, quindi al di là della legittima preoccupazione dei lavoratori per l’esito dell’operazione sul piano occupazionale, non si capisce perché i sindacati si lamentino del fatto che il governo non mostri di volersi fare parte attiva nella vicenda. Si sta parlando di cemento che neanche in Francia, notoriamente molto protezionistica, è un settore considerato strategico per gli interessi nazionali (tanto è vero che Ciments Français è stata venduta a Italcementi e Lafarge si è fusa con Holcim), quindi non si capisce su cosa debba intervenire il governo e soprattutto a quale titolo.
Ci si scontra anche in questo caso nella classica visione a prospettive variabili. Ci si professa per il libero mercato quando vuol dire fare quello che si vuole in maniera tendenzialmente anarchica, senza dover rispondere a nessuno, ma quando sono gli altri a professarlo a nostro (presunto) danno, allora ci si ricorda della responsabilità sociale d’impresa, magari a sproposito. La costituzione italiana, articolo 42, del resto riconosce e garantisce la proprietà privata. Di cogestione o di dittatura del proletariato non c’è traccia.