Forse è davvero tempo che Matteo Renzi smetta di dare la caccia a gufi e cornacchie per dedicarsi a mettere ordine in casa propria. Lo spettacolo che sta dando il Partito democratico da Napoli a Roma, senza trascurare Milano e tante piccole situazioni locali (anche bergamasche, da Treviglio a Ponte S. Pietro passando per Cologno al Serio), è a dir poco incredibile. Tanto da premier fa sfoggio di muscolare vitalità a Palazzo Chigi quanto da segretario appare incapace di governare la creatura sulla quale, comunque, si regge la sua avventura politica.
Lo scorso anno sull’altare di questa clamorosa contraddizione è stata immolata la Liguria. Ora la posta in palio, anche solo sul piano simbolico, è ancora più elevata perché si disputa il governo delle più importanti città del Paese. Eppure, il Giovin Signore fiorentino tira dritto come se nulla fosse. Sembra un piccolo Napoleone (che già di suo non era un watusso…): io vado avanti, l’intendenza seguirà.
Ma deve stare attento perché la sua Waterloo potrebbe trovarla proprio in periferia. La spregiudicatezza con cui prima ha dato via libera all’elezione di Vincenzo De Luca (gravato di una condanna per abuso d’ufficio) alla presidenza della Regione Campania ed ora chiude gli occhi sul ricorso, presentato dal candidato a sindaco di Napoli Antonio Bassolino, per fare luce su alcune disinvolte manovre di pagamento del voto avvenute in alcuni seggi (come documentato da video del sito Fanpage.it), è disarmante. Lo stesso dicasi per il pasticcio sui conteggi delle schede bianche e nulle a Roma.
La stessa credibilità, e quindi anche validità, dello strumento delle elezioni primarie, su cui per primo Renzi ha costruito la sua affermazione, ne sta uscendo fortemente compromessa. A Milano abbiamo visto in coda file di cinesi incapaci di spiaccicare una parola di italiano ma desiderosissimi di votare per Beppe Sala (?). A Napoli è toccato sorbirci l’ennesimo remake del voto di scambio. In entrambi i casi, il vertice del Pd ha liquidato le polemiche che si sono levate come sciocchezze. Ma si può essere tanto machiavellici da illudersi che il fine (l’elezione del proprio candidato) giustifichi sempre i mezzi?. E soprattutto, possibile che non si voglia capire che, al di là dei singoli pur censurabili episodi, quel che manca veramente al Partito democratico a trazione renziana è il rapporto con il territorio. Il modello verticistico, costruito su leadership di cartapesta create per diretta emanazione del Giovin Signore (Raffaella Paita a Genova, Beppe Sala a Milano e, in parte, Roberto Giachetti a Roma), ha scavalcato e travolto il tradizionale confronto dialettico con la base. Le primarie, e più in generale le elezioni, servono solo a certificare cooptazioni già decise. Salvo poi scoprire che il giocattolino non tiene. In Liguria è stato Cofferati a chiamarsi fuori, a Milano il vicesindaco Balzani si è messa a fare la fronda, a Roma si profila una candidatura dell’ex ministro Bray (con la longa manus di D’Alema dietro) e a Napoli probabilmente Bassolino correrà da solo contro la candidata del Pd. Un vero trionfo, non c’è che dire. Dell’anarchia, però, non di un partito che aspira a mantenere la guida del Paese.
Renzi, almeno in apparenza, può continuare a fingere che governo e partito corrano su binari diversi. Ma la contraddizione è troppo marcata perché non si arrivi, prima o poi, ad un redde rationem. Lo saranno senz’altro le amministrative di giugno (specie se il centrosinistra dovesse perdere Milano, Roma e forse anche Torino). Ma ancor di più, specie se vi arriverà sulla scia di una sconfitta, il referendum costituzionale di ottobre.
Renzi ha solo un grande vantaggio, per ora: la drammatica crisi del centrodestra, incapace di congedare Silvio Berlusconi e di trovare una valida leadership alternativa. Non si illuda, però: con i cosiddetti uomini forti gli italiani sanno essere feroci. Prima li issano su un monumento, poi li riempiono di pomodori in faccia.