Boccia vince, ma per Confindustria è tempo di profonde riflessioni

Boccia vince, ma per Confindustria è tempo di profonde riflessioni

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Vincenzo Boccia
Vincenzo Boccia

Quattro anni sembrano passati invano. Nel 2012 Giorgio Squinzi battè Alberto Bombassei 93 a 82. Stavolta, Vincenzo Boccia ha superato Alberto Vacchi 100 a 91. Confindustria spaccata era e spaccata è rimasta. “E’ segno di vitalità democratica” ha osservato qualcuno. Come a dire che gli imprenditori italiani si sono almeno risparmiati sia le false larghe convergenze del passato che le nomine dall’alto. Un voto che spacca a metà resta, tuttavia, un segno evidente di una difficoltà a vivere da protagonisti, con una linea d’azione chiara e condivisa, tempi in cui gli spazi per le associazioni di categoria, ancorché cariche di gloria, si sono terribilmente ristretti. Una fatica comune alle realtà del mondo economico, dal commercio all’artigianato, e che non risparmia nemmeno di certo i sindacati, a loro volta alle prese con una evidente crisi di rappresentanza che non si traduce ancora in un altrettanto vistoso calo di tessere solo perché le organizzazioni si sono trasformate in centri servizi fiscali e assistenziali.
Tornando a Confindustria, gli addetti ai lavori ci dicono che Boccia, grossomodo come il suo predecessore Squinzi, ha vinto grazie all’appoggio delle società pubbliche (Eni ed Enel in testa), dei colleghi del centro e del sud e di qualche sostegno guadagnato anche nel Nord est. Quella dell’industriale grafico salernitano era indicata come la soluzione nel solco della continuità, in contrapposizione ad una figura “nuova”, impersonificata dal bolognese Alberto Vacchi, imprenditore di successo nel ramo metalmeccanico. A questi, per inciso, è andato il voto (con una sola eccezione) dei colleghi bergamaschi. E su questo fronte si sono schierati anche personaggi del calibro di Luca di Montezemolo, Gianfelice Rocca e Alberto Bombassei. Non è bastato, seppur per soli 9 voti il Consiglio generale di Confindustria ha scelto Boccia.
Starà a lui dimostrare, a partire dal 25 maggio quando entrerà ufficialmente in carica, se gli imprenditori italiani si possono permettere di proseguire lungo il solco tracciato negli ultimi anni da Squinzi all’insegna del basso profilo e della sostanziale accettazione di un ruolo di mera testimonianza rispetto alla politica del governo (e di quello di Matteo Renzi, in particolare). Sia chiaro, nessuna nostalgia dei tempi in cui l’assioma era, per intenderci, “ciò che è bene per la Fiat è bene per il Paese”, ma come promotori di sviluppo e portatori d’ interessi, nell’ambito del confronto e della contrattazione tra le parti, gli industriali hanno il diritto-dovere di far sentire la loro voce. Di essere protagonisti, di incalzare chi governa a promuovere cambiamenti e riforme, di confrontarsi e scontrarsi con i sindacati. Di proporre al Paese idee e progetti che lo aiutino a mettersi al passo con il resto d’Europa e del mondo.
Il collateralismo, quando non la subalternità alla politica, specie quando la politica alza troppo la cresta e presume di essere autosufficiente, non paga. Asseconda, forse, qualche ambizione personale o regala a qualcuno l’illusione di poter sopravvivere. Non dà, invece, nessuna garanzia sul futuro. Ma detto questo, a chi, prima con Bombassei (il cui successivo ingresso in Senato non ha giovato) e ora con Vacchi, ha tentato la carta del cambiamento è doveroso chiedere una riflessione autocritica. Due sconfitte consecutive non possono essere derubricate come banali incidenti di percorso. Sì, avranno prevalso le solite logiche correntizie e, più in generale, le consolidate manovre di potere di cui gli industriali, certi industriali, non sono meno esperti dei politici che tanto criticano. Converrà però anche interrogarsi se l’auspicato rinnovamento possa concentrarsi solo nella pur fresca e intraprendente biografia di un candidato presidente.

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