Ubi e Italcementi, se il mercato mette a nudo il “mito” della bergamaschità

Ubi e Italcementi, se il mercato mette a nudo il “mito” della bergamaschità

image_pdfimage_print

Italcementi“Avevamo due banche” (Ubi e Credito Bergamasco) è il ritornello che va in onda in queste settimane. Una versione aggiornata delle canzoncine che è toccato sorbirci quando le anime bennate hanno scoperto che “avevamo una municipalizzata” (Bas confluita in Asm, poi diventata A2A) e “avevamo una multinazionale del cemento” (Italcementi venduta a Heidelberg). Ebbene sì, provinciali di tutta la Bergamasca unitevi: il re è nudo. La fola di una Bergamo concentrato di virtù e di intelligenze, di saperi e di poteri, sta crollando miseramente.  E’ il mercato, bellezza. Un sistema che si fonda su regole chiare fino alla brutalità magari, ma senza alcun dubbio trasparenti. La prima delle quali è che comanda chi ha più capitali. Non chi ha una lunga storia, chi sa amministrare meglio una società o un’azienda, chi è intriso di buoni valori, chi sa governare la comunicazione per costruirsi una autoreferenzialità protettiva.
Se Bergamo perde il controllo di alcune delle realtà che ne hanno caratterizzato la storia economica non è un atroce scherzo del destino o il risultato di un complotto. È semplicemente il frutto di scelte, dalle più antiche alle più recenti. Se solo oggi se ne vedono le conseguenze è perché in un mercato sempre più aperto e globale non c’è più spazio per i “cavalieri solitari”. E tantomeno per la difesa dei campanili.

Sarebbe ora di aprire gli occhi e smetterla di piangersi addosso. La “bergamaschità” fine a se stessa, ammesso che abbia mai avuto un reale valore, oggi non serve a nulla. Questa benedetta storia dei legami con il territorio ha fatti guasti terribili, come dimostrano vari esempi in giro per lo Stivale (da Siena ad Arezzo passando per Vicenza). Perché rinchiudersi nel recinto locale ha spesso significato perpetuare logiche di familismo, di corrente, di interesse personale. Il concetto di radicamento vale per considerazioni di carattere storico e sociale, ma nulla ha a che vedere con l’economia. A qualcuno parrà banale, ma la “buona” multiutility non è quella governata da amministratori che parlano il tuo stesso accento o che abitano nel tuo quartiere ma quella che offre i migliori servizi alle condizioni più convenienti. Lo stesso vale per la “buona” banca. Non conta la targa ma il soddisfacimento delle esigenze del cliente. Tanto più questo sarà elevato, tanto meglio l’istituto di credito o l’ex municipalizzata starà sul mercato al pari dei concorrenti.

Cosa intendiamo dire? Semplicemente, che non è affatto vero, almeno a priori, che Bergamo debba sentirsi più povera se Ubi sarà controllata da altri che non abbiano natali orobici o perché Italcementi è finita in mani tedesche (certe scelte, sui livelli occupazionali non più sostenibili, sarebbero state obbligate anche senza la cessione). Smettiamola di sentirci i migliori, i più capaci, quelli che fanno sempre le scelte più giuste. Proprio quel che sta maturando in questi mesi dimostra che altri sanno essere anche più coraggiosi e lungimiranti. E allora sarebbe segno di saggezza cominciare a ragionare aprendosi al confronto e alla collaborazione con il mondo che ci sta intorno. Forti delle nostre qualità ma consapevoli che non tutto si esaurisce dentro le Mura. Altre sfide sono alle porte, come l’ipotizzata fusione tra Sea e Sacbo. Se la affrontiamo con la paura di perdere un pezzo di patrimonio (e anche di potere) ci consegniamo alla sconfitta sicura. La “bergamaschità”, d’ora in avanti, lasciamola al Ducato di Piazza Pontida (con rispetto parlando, naturalmente).