Cari amici, ecco il mio augurio: più spazio allo sdegno e all’ira

nataleEcco, è già Natale: io non ci faccio mai caso, al maledetto tempo che passa, finché gli anni non me li ritrovo sul groppone. Stavolta, però, faccio in tempo a farvi gli auguri: certo, dato il vostro esiguo numero, gentili lettori, stupende lettrici, forse farei prima a farveli personalmente, uno per uno. Ma sono qui, nel mio studio, davanti al computer, e non posso tirarmi indietro: qualcosa di un po’ intelligente me lo devo inventare. Intanto, vi auguro pace e felicità: ma a fare quello sono capaci tutti, in fondo. E, poi, vorrei farvi un augurio un tantino più mirato, meno mielosamente generico. Vi auguro di svegliarvi in un Paese normale. Ecco, vi auguro un anno di tranquilla, rilassante, normalità. Siamo stati oberati di idiozie, di capziose distinzioni, di criminali generalizzazioni, al punto da domandarci se si possa ancora aspettare Babbo Natale o ci si debba chiedere se si tratti di un babbo, di una mamma o di uno struzzo. Mamma Natale, Babba Natale, Mammo Natale: l’onomastica fa fatica a stare dietro ai ghiribizzi e, talora, alle psicopatologie linguistiche, di certa gente. Così, quale che sia il nome assunto da Santa Klaus, vi auguro davvero che vi porti una ventata, anzi una tramontana di buon senso. E che torniamo ad essere, lo ripeto, normali. Un posto in cui le persone lavorano per vivere e per mettere via due soldini per il proprio futuro, non per pagare le tasse e per ingrassare un esercito di parassiti: sono stanco di vedere la mia gente far girare la macina, come un mulo fottuto di fatica, col paraocchi ed i fianchi scavati e sanguinosi per le bastonate del padrone.

Vorrei che potessimo dire quel che pensiamo, senza le bubbole e le finzioni dei social network: che tornassimo a parlarci, come si fa tra gente perbene, pianamente, semplicemente. E che chi sbaglia paghi e chi merita venga premiato. Che non ci siano ministri che millantano lauree e laureati che non trovano lavoro: questo vorrei per noi tutti, e molto altro. Vorrei che i nostri figli avessero speranze piccole e felici: non sogni miliardari e delusioni gigantesche. Mi piacerebbe che Bergamo tornasse ad essere un pochino quella che era quando io ero un ragazzo: non tornare indietro, ma andare avanti, in direzione di una civiltà e di una serenità che non conosciamo più da troppo tempo. E ci siamo talmente abituati a questo modo di vivere che, purtroppo, non ci si fa più caso: ci siamo rassegnati ai furti in casa, al degrado, alla sporcizia, ai mendicanti, agli spacciatori. Così, io vi auguro di non perdere la voglia di arrabbiarvi per quello che ci stanno facendo, per come ci stanno riducendo. Natale è una festa soprattutto per i bambini: gioite come i bambini, ma arrabbiatevi come i bambini. Come fanno i bambini di fronte ad un’ingiustizia o a un torto, senza pensare alle conseguenze, a cosa dirà la gente, a dove va la corrente.

Io vi auguro di arrabbiarvi, gentili lettori, stupende lettrici: vi auguro un Natale in cui la tristezza e la noia lascino il posto allo sdegno e all’ira. Perché mi piacerebbe vedere cacciare i mercanti dal tempio: tutti i mercanti da tutti i templi. Farla finita con le menzogne, con gli imbrogli, con i ricatti, non è poi così difficile: basta avere il coraggio di dire che il re è nudo. Che il ministro tale è un imbecille, che l’assessore talaltro è un ruffiano: la verità va gridata, non sussurrata tra pochi intimi. Io vi auguro un anno di coraggio, cari lettori. Perché la nostra Patria non ce la fa più: perché la ripresa è soltanto l’ennesima bugia televisiva. La ripresa siamo noi: dobbiamo riprenderci le nostre vite e le nostre città, questa è l’unica ripresa possibile. E, per farlo, bisogna fare pulizia: cacciare questa generazione di governanti imbolsiti ed incapaci, tutti con le medesime cravatte, le stesse facce flaccide, lo stesso sguardo da servitore scaltro, destra, sinistra e centro. Io, dunque, vi auguro un anno di pulizia: di cambio di lenzuola.

Avrei dovuto scrivere qualcosa di un po’ intelligente e, invece, eccomi qui a scrivere le solite stupidaggini che vi infliggo da tanti anni: questa è la 317a volta che mi metto davanti al computer, nel mio studio, e apro il file “La Rassegna”. Ma io sono un cretino seriale: non demordo dalla mia guerra da fesso. Solo non mi capacito come il mio caro Direttore, che è un amico e a cui auguro veramente tutto il bene possibile, riesca ancora a sopportarmi. E’ Natale, ed io non sono più buono, ma, di sicuro, sono un po’ più incline alla malinconia: vorrei ringraziare tutti, per l’immeritata stima che mi è stata concessa. In definitiva, vi auguro di avere la stessa fortuna che ho avuto io: sono stato molto fortunato nella vita, e so di non aver fatto nulla di speciale per meritarmelo. Ma la fortuna, lo so bene, non basta: per questo, l’ultimo augurio che vi faccio, gentili lettori, stupende lettrici, è quello di sempre. Non siate affamati, non siate pazzi: quello va bene per i tycoon americani e per gli articoli del Sole 24 Ore. Siate umani, siate caritatevoli, siate implacabili. Buon Natale.

 

 


Occhio ai tre ministri del Pd pronti a scaricare Renzi

Chissà se c’è ancora qualcuno, anche tra i suoi accesissimi tifosi, che s’azzarda a dire che Matteo Renzi è un innovatore. Quel che s’è visto in questi giorni, prima durante e dopo la nascita del governo Gentiloni, fa giustizia di tanti imbonimenti che ci sono stati ammanniti nei tre anni di dominio del superbo ragazzotto di Rignano sull’Arno. Ed ora, come si conviene nella patria dei voltagabbana, anche agli autorevoli osservatori e agli accigliati direttori di giornali è chiaro ciò che chiunque non fosse obnubilato da faziosità o da interessi poteva tranquillamente vedere anche in passato. Nel volgere di un week end, Renzi ha gettato la maschera. Altro che lasciare la politica e dedicarsi alle sfide alla play station con il figlio (poveretto, ritrovarsi con un padre che non sa perdere…). Mentre il presidente della Repubblica convocava al Quirinale le delegazioni dei partiti, lui da Palazzo Chigi teneva le sue privatissime consultazioni per decidere chi era degno di succedergli. Uno sfregio alle istituzioni normale per chi, al suo debutto da premier, pronunciò il suo primo discorso con le mani in tasca. Ma questo è niente. Impalmato Gentiloni, uno dei pochi volti presentabili del renzismo non ortodosso da Giglio magico, ecco la necessità di salvare la ghirba (e la poltrona, e lo stipendio, visto che altrimenti è difficile campare) a due fedelissimi. A lei, la Maria Elena Boschi che a sua volta aveva garantito al limone che in caso di sconfitta al referendum sarebbe tornata a Laterina. E a lui, il Luca Lotti che porta lo straordinario appellativo di “lampadina”, un nome e una garanzia di brillantezza e lucidità. Un vero esempio di rottamazione, la parola d’ordine data in pasto ai gonzi che credevano che bastasse eliminare qualche avversario scomodo per cambiare il corso e la storia della politica nazionale.

E poi, ecco la formazione del governo, con due ministeri in più rispetto a prima (ma non si dovevano tagliare le poltrone?), con l’incredibile promozione di uno dei più scarsi gestori del Viminale a ministro degli Esteri, ma soprattutto con la conferma del 90% degli uscenti. Di colpo siamo precipitati indietro di qualche decennio quando andavano di moda i governi fotocopia tipo il Fanfani Ter o l’Andreotti quater. Eh, quando si dice l’innovazione, il cambiamento, l’Italia che esce dal tunnel…
Di tutto questo, per onestà va detto che si può salvare la figura del neo presidente del Consiglio. Che non è un fenomeno né uno statista in fasce, ma ha il merito di essere portatore di uno stile sobrio, non conflittuale. Gentiloni è quanto di più lontano ci sia dalle sbruffonerie, dalla strafottenza, dall’arroganza di chi l’ha preceduto. Non è poco, specie in tempi in cui bisogna avere la capacità di abbassare i torni e provare a trovare soluzioni il più possibile condivise ai tanti problemi non risolti (altro che mancette distribuite qui e là) del Paese. Il compito del suo governo è di portarci alle elezioni, non aspettiamoci molto di più.

Resta da osservare, semmai, lo stato penoso in cui versa il Partito democratico. Dove molti vorrebbe liberarsi di Renzi, uomo di indubbie capacità ma vittima anzitutto del suo carattere debordante, solo che non hanno ancora trovato il modo e il coraggio di farlo.
Non guardate alla minoranza interna, quella conta poco più di zero. Abbaia alla luna ed è utile ai giornali, ma nella sostanza incide pochissimo. Vanno tenuti d’occhio, piuttosto, tre personaggi, guardacaso tre ministri uscenti e riconfermati: il paleodemocristiano Dario Franceschini, l’Amleto Andrea Orlando e il giovane vecchio Maurizio Martina. Fossero veri leader sarebbero usciti dall’esecutivo per giocarsi la battaglia in campo aperto. Da capicorrente ancien regime preferiscono rimanere accucciati nei loro ministeri in attesa che il Giovin Signore di Rignano prosegua nella sua strategia autodistruttiva. In attesa del giorno in cui, per via delle “mutate condizioni politiche”, faranno il salto della quaglia e saluteranno con la manina il loro vecchio sodale. Renzi è sicuramente un gran combattente e darà battaglia con tutte le sue forze. Se saprà fare un bagno di umiltà (?) potrebbe anche riconquistare la scena con più credibilità. Ma dovessimo scommettere, vizio a cui non ci siamo mai abbandonati, propenderemmo per il primo scenario. Perché questo, non dimentichiamocelo mai, è il Paese del “tutto cambia perché nulla cambi”.


Referendum: nessun vincitore, un solo sconfitto

 

Non una semplice sconfitta, ma uno schiaffone. Sì, un manrovescio pesantissimo che gli italiani, accorsi in massa alle urne, quasi come un sol uomo hanno voluto riservare anzitutto ad un uomo, Matteo Renzi, che in tre anni ha trasformato una promettente ambizione di cambiare il Paese in arroganza presuntuosa da bulletto di paese (con la minuscola). Voleva un plebiscito, l’ha avuto, ma al contrario. Dalle urne è uscito un urlo: vai a casa. L’altissima affluenza dimostra che Renzi se l’è cercata. Ci ha costretto ad una campagna elettorale lunghissima. L’ha infarcita di promesse, di regalie a destra e a sinistra, di battute sprezzanti nei confronti degli avversari (che hanno ricambiato con gli interessi, cosa assai riprovevole, ma chi è premier dovrebbe volare più alto). E’ riuscito perfino, ad un certo punto, a far sparire la bandiera dell’Europa da dietro le sue spalle per far passare l’idea che era contro quell’Europa che invece gli ha fatto arrivare ogni endorsement possibile. Ha perso con quasi venti punti di svantaggio, una disfatta, e dire che fino a poche ore dall’apertura dei seggi andava raccontando, con la complicità servile di tanti organi di informazione, che stava realizzando una clamorosa rimonta. Balle, tutte balle.
Altri, analisti più sottili di noi, avranno modo di elencare per filo e per segno tutti gli errori che ha commesso. Limitiamoci ad osservare che il primo, enorme, è stato quello di trasformare il referendum nel cavallo di Troia per quella legittimazione popolare che non aveva avuto nel momento in cui aveva congedato, con la brutalità che ora gli torna indietro, Enrico Letta. Ma più della politologia, di fronte ad un risultato così netto con una partecipazione così ampia, conta forse l’impressione, epidermica e superficiale fin che volete, di una larghissima parte di italiani che non ne poteva più di un presidente del Consiglio costantemente sopra le righe, un premier diuturnamente impegnato a dipingersi come unico salvatore della Patria. Uno sfoggio di superomismo che ha spinto a votare No con rabbia anche tanti che solo nel 2014 gli avevano dato fiducia.
E poi, che dire di quel pessimo modo di trattare i contrari alla riforma come tutti gufi, arrabbiati, ignoranti, incattiviti, sfascisti? Anziché cercare di allargare il suo consenso, Renzi ha alzato muri dovunque. E con lui quel circolo di nani e ballerine di cui, lui come quelli che lo hanno preceduto, si era circondato. Tutti bravi a lanciare battutacce sui social, nessuno capace di elaborare un pensiero proprio in grado di mettere un argine all’esuberanza del ragazzotto di Rignano sull’Arno.
Ma lo schiaffone è arrivato sul muso anche dei tanti che, pur esprimendo giudizi talvolta molto severi sull’ipotesi di riforma, hanno cercato di far capire che era più importante andare avanti sulla cattiva strada. Primo fra tutti Romano Prodi, uscito allo scoperto pochi giorni prima del voto con il suo solito modo da vecchia Democrazia Cristiana, dicendo tutto e il suo contrario. E poi i tanti osservatori stranieri più o meno interessati, i presidenti di Confindustria e di tante banche che hanno tentato in ogni modo di influenzare il voto, sbattendo contro il volere degli italiani. Nel mazzo non possono mancare gli organi di informazione. Renzi aveva l’appoggio dei grandi giornali, dei telegiornali, di uomini della cultura e dello spettacolo. Come con la Brexit e l’elezione di Trump, non ci hanno capito una cippa, dimostrando una siderale distanza dal sentire dell’opinione pubblica (e si capisce perché non si vendono più giornali…).
Ognuno adesso ha titolo per individuare le cause della vittoria del No. Nel calderone c’è di tutto: i morsi della crisi economica, la mancanza di lavoro, lo spirito conservativo, la rabbia sociale, l’antipatia nei confronti del premier, la rivalsa dei suoi avversari interni, il populismo trionfante. Checchè ne dicano Salvini, Berlusconi, Di Maio e festeggianti vari, non c’è alcun vincitore (dire No non è un programma politico alternativo) ma solo uno sconfitto: Matteo Renzi. Anche chi oggi canta vittoria da domani senza il panno rosso renziano farà fatica a trovare qualcosa da raccontare agli italiani. Ed è qui il vero problema. Renzi ci ha fatto perdere due anni. Gli altri non hanno fatto molto di più. Ora si azzera tutto. E tutti hanno il dovere di mostrarsi all’altezza di una sfida ahinoi davvero drammatica.

 

 


Referendum, ecco perché nulla sarà più come prima

Rien ne va plus, date il vostro voto (se volete, naturalmente). Il 4 dicembre, quale che sia l’esito del referendum costituzionale, segnerà uno spartiacque. Si chiude un ciclo politico, quello chiamato un po’ troppo pomposamente “la stagione delle grande riforme”. E ci si avventura su terreni sconosciuti. Proviamo a immaginare gli scenari.
Se vince il Sì, il presidente del Consiglio acquisisce quella legittimazione popolare (“non è stato eletto” la critica che gli è sempre stata mossa”) che finora gli mancava. Il suo potere, ancorché non modificato dalla riforma, si rafforzerebbe. Da un punto di vista formale per l’investitura ricevuta dagli elettori, da un punto di vista sostanziale perché è prevedibile immaginare come conseguenza della vittoria nuovi smottamenti di parlamentari pronti a saltare, un po’ tardivamente (ma non bisogna sottilizzare), sul carro che marcerà a tappe forzate verso le elezioni. Che poi queste si tengano prima della scadenza naturale, che comunque non è così lontana (febbraio 2018), è in fondo un particolare trascurabile. Molto dipenderà da come, e se, verrà modificata la legge elettorale. Ricordiamolo: Renzi ha fatto approvare, con tanto di fiducia, l’Italicum nella convinzione che fosse il miglior abito ritagliato sulla sua stazza. Solo che poi, risultati elettorali alla mano, si è reso conto che forse era ancor più adatto al Movimento 5 Stelle. E allora, sulla spinta anche della minoranza Pd, si è acconciato a mettere in conto una modifica. Ammesso che vi sia (perché c’è chi immagina che una volta intascata la vittoria sul referendum possa provare a cavalcare l’onda tenendosi l’Italicum), si tratterà di vedere di che natura sarà. Resterà un sistema maggioritario, pur con tutte le varianti possibili, o si tornerà al proporzionale? Più probabile la prima ipotesi.

Comunque sia, ci attendono mesi in cui Renzi accentuerà il suo piglio decisionista, sia sul fronte interno che su quello europeo, per arrivare all’appuntamento elettorale, quando sarà, con più munizioni possibili. Le elezioni, a quel punto (nel suo disegno, ovviamente), non saranno altro che la sua consacrazione da statista che ha “cambiato il Paese” verso luminosi traguardi (che Dio gliela mandi buona). In questo scenario, inutile dirlo, destra e sinistra andrebbero a pezzi, pur per ragioni diverse. Attorno al giovanotto toscano si coagulerebbe una forza politica neocentrista, probabile versione 4.0 della fu Democrazia Cristiana, quello che la pubblicistica definisce il Partito della Nazione.

Se dovesse prevalere il No, invece, Renzi ne uscirebbe azzoppato. La sua tradizionale baldanza a quel punto si vedrebbe costretta a misurarsi con la necessità di ricostruire un tessuto lacerato da una riforma che doveva far svoltare il Paese e che invece l’ha diviso ancora di più. In campagna elettorale il premier ha evocato lo spettro del “governo tecnico” ma non è affatto detto che sarà questo l’epilogo. Più probabile, piuttosto, che si vada ad un esecutivo sullo stile del Patto del Nazareno. Berlusconi si è già detto disponibile. E se la battaglia diventerà, come pare oggi, costruire un argine al Movimento 5 Stelle, il governo di larghe intese sarà obbligato. Lo guiderà una figura autorevole, quasi sicuramente del Pd, per il tempo che basta ad approvare  una leggere elettorale nuova, di impianto proporzionale, e ad indire le elezioni. Sul fronte politico, la sconfitta nel referendum avvierebbe in anticipo il regolamento dei conti congressuale dentro il Pd. Alcuni capi bastone oggi renziani potrebbero, l’esperienza insegna, voltare gabbana e prestarsi a costituire una nuova maggioranza con un altro segretario. Più complesso immaginare lo scenario futuro nel campo opposto. Un eventuale governo di larghe intese rimetterebbe al centro della scena Berlusconi. Ma Salvini e Meloni che faranno a quel punto? L’implosione è eventualità tutt’altro che remota.

Resta solo da osservare che, come finisca il referendum, bisognerà fare i conti con il Movimento 5 Stelle. Al netto della disastrosa gestione di Roma (per ora) e di alcuni scandaletti (le firme false non sono una loro esclusiva), i grillini continuano a godere del consenso di circa il 30 per cento degli italiani. È un patrimonio che possono permettersi di utilizzare in vario modo. Cioè mettendosi una buona volta in gioco davvero per il governo del Paese oppure rimanendo sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere del vecchio sistema. Anche per il M5S, dunque, il 4 dicembre non sarà una data qualsiasi.
Prepariamoci, allora. Il film che abbiamo visto negli ultimi tre anni è arrivato ai titoli di coda. Rien ne va plus, faites vos jeux.

 

 


La rivoluzione culturale di Gasperini? Un modello per il territorio

Allora si può. Allora, alla faccia di tanti anni passati a lucrare un punticino dietro l’altro con prestazioni speculative ancorché redditizie, anche l’Atalanta può giocare un calcio spettacolare. Allora, senza invocare antistorici (Verona) o impossibili (Leicester) paragoni, anche una società di provincia può legittimamente aspirare a raggiungere posizioni ambiziose in classifica e cullare pensieri che al momento paiono solo divagazioni oniriche.
Al di là di quanto è stato detto e scritto nei giorni scorsi dopo la vittoria sulla Roma (e i 25 punti conquistati in 13 partite), l’Atalanta guidata da Gian Piero Gasperini ha soprattutto un merito. Quello di aver avviato una vera e propria rivoluzione “culturale”. Non alzate il sopracciglio e non stupitevi se ne parliamo in una sede che solitamente non tratta temi sportivi. Ma vuoi per ciò che rappresenta il calcio vuoi per il ruolo-valore che ha la squadra nerazzurra per i bergamaschi forse non è ozioso lasciare da parte per una volta politica ed economia per affrontare un tema che può essere anche letto come cartina di tornasole per misurare la maturità e la consapevolezza nei propri mezzi di un territorio. Sì, perché questa Atalanta sta facendo giustizia di un certo modo sparagnino e utilitaristico di vedere il football. Per intenderci, quante volte abbiamo sentito ripetere, da parte della società e dei giocatori ma anche di molti tifosi, che “il nostro obiettivo è la salvezza”, dogma in funzione del quale qualsiasi desiderio di vedere giocare un buon calcio o di ammirare la crescita di un giovane prodotto in casa era frustrato sul nascere?

Tutto l’ambiente per anni e anni si è accontentato, tante brutte partite ma risultati sufficienti a conquistare in anticipo o quasi l’agognata salvezza, e senza rendersene conto si è adagiato su un fondo di grigia mediocrità. Mentre altrove, è stato il caso per una buona decina di anni dell’Udinese ed ora è la volta del Sassuolo (entrambe espressioni di realtà assolutamente alla portata di Bergamo), c’era chi cresceva, dava spettacolo, sfornava campioni e scalava le vette della classifica, guadagnandosi per soprammercato la licenza di andare a frequentare pure le competizioni europee (ah, quanta nostalgia…).

Gasperini, con il suo carattere spigoloso e insidioso, con quella dose di presunzione che a volte fa passare da temerari a condottieri invincibili, ma soprattutto con le sue innegabili capacità tecniche supportate da un coraggio non comune (nel lanciare i giovani), sta dimostrando che osare si può, che l’Atalanta può giocare alla pari con le grandi e a volte infliggere loro autentiche lezioni, che nessun traguardo è precluso in partenza, che mettere in campo ragazzi cresciuti nel settore giovanile anziché essere un azzardo è un’arma in più. Ciò che conta, ed è qui che forse ha un valore il ragionamento calcistico, più delle risorse a disposizione (certo non trascurabili), è il progetto. Un progetto che, naturalmente, deve basarsi sulla qualità, sulla capacità di tenuta alla distanza, sulla lungimiranza, sul coraggio, sulla consapevolezza che una vera comunione di intenti fra tutte le parti in gioco può fungere da moltiplicatore di energie.

Tutto questo pare esserci alla base del brillante avvio di stagione di Gomez e compagni. I risultati poi potranno venire o no, e naturalmente da ultradecennali frequentatori dello stadio ci auguriamo che continui così, ma forse conta molto di più il cambio di mentalità che la “cura” Gasperini sta portando. Quanto sarà produttiva dipenderà anche da noi. Da quanto si sarà capaci di mettersi in discussione, di buttare a mare tanti luoghi comuni del passato, di progredire anche culturalmente perché non capiti più di leggere, per esempio, che il massimo complimento per un allenatore vincente è di considerarlo “bergamasco” (quando il provincialismo si fa gretto e becero è davvero rivoltante). Ecco, in una parola, basta una volta per tutte con l’autoreferenzialità, smettiamola con il dire (più che credere) che piccolo è bello, finiamola di crogiolarci nella nostra pur gloriosa storia e guardiamo al futuro con la freschezza, l’intraprendenza, l’entusiasmo, per tacer del resto, dei ragazzi terribili di Mastro Gasperini. Di sicuro non ci annoieremo.

 


Sicurezza, a Milano Sala invoca l’esercito. E Gori?

curnis-assaltoLa nuda cronaca, specie quella nera con la sua brutalità, spesso ha un grande merito. Riporta i politici, e gli amministratori comunali in particolare, sulla terra. D’incanto, di fronte ad un fatto di sangue o al raid di una banda di rapinatori, tante parole retoriche svaniscono nel nulla per lasciare spazio alla realtà. Che, chissà perché, si scopre essere molto diversa da quella raccontata. L’abuso di “storytelling”, il termine che ha preso il posto della vecchia narrazione, risulta evidente se si pensa, tanto per fare un esempio specifico, a Milano. Sì, la già capitale morale (poi sfregiata dal degrado affaristico di Tangentopoli), quella che con Expo 2015 veniva descritta come una sorta di neo paradiso in terra (salvo poi scoprire, mese dopo mese, quanto malaffare, anche di stampo mafioso, ha prosperato all’ombra dei padiglioni di Rho), oggi lancia l’allarme rosso per le scorribande sempre più violente delle bande criminali e dopo la sparatoria con morto incorporato di piazzale Loreto (mica Quarto Oggiaro, eh…) ecco che il sindaco Giuseppe Sala invoca il dispiegamento dell’Esercito sul territorio.

La richiesta viene da quella stessa giunta di centrosinistra (fino a giugno guidata da Giuliano Pisapia) che ha sempre propagandato un’immagine di Milano come capitale dell’innovazione, della moda, del buon vivere e buon mangiare. Una città senza grandi problemi, governata con mano paterna da un sindaco progressista aperto al mondo. Uno storytelling alimentato con servile partecipazione dalle firme salottiere dei giornaloni, abituate a leggere la realtà con gli occhi della società radical chic e incapaci di immergersi nella palude dei comuni cittadini. Sala ha avuto se non altro il merito di violare un tabù. Che serva o meno, nel chiedere l’impiego dell’esercito ha sconfessato in un sol colpo anni e anni di parole d’ordine della sinistra buonista.

Ma la cronaca nera chiama ad un intervento anche il sindaco di Bergamo. La nuova spaccata alla gioielleria Curnis sul Sentierone riporta in primo piano il tema del centro città. Di cosa farne, come vivacizzarlo, come renderlo più sicuro, come creare le condizioni perché delinquenza e degrado non dilaghino indisturbate. È chiaro che c’è anzitutto un problema di sicurezza. E qui la competenza è principalmente, non esclusivamente, delle forze dell’ordine. Ma è altrettanto certo che non basta mettere una pattuglia in più per ottenere miglioramenti significativi. Serve molto di più, serve un progetto ad ampio respiro. Quello che Giorgio Gori aveva promesso in campagna elettorale, subordinato ad un concorso di idee da lanciare in grande stile. Anche qui la cronaca non ammette dubbi: ad oggi non s’è visto nulla. I mesi passano, dall’insediamento della giunta sono trascorsi due anni e mezzo (!), eppure siamo ancora fermi al palo. Piacerebbe capire perché o, se casomai si fosse cambiata strategia, avere delucidazioni su cosa si intende fare. L’assessore alla Sicurezza Sergio Gandi, non ce ne voglia, ormai rischia di fare la fine del cane di Pavlov. Ogni volta che succede qualcosa si premura di dire che “conosciamo la situazione” e “stiamo facendo tutto il possibile”. Ma paura e degrado avanzano e, al netto della spregiudicata propaganda di senso contrario delle minoranze di centrodestra dimentiche che quando governavano loro la città non era certo un eldorado, sembra davvero arrivato il momento di tentare un colpo d’ala. Non è momento di traccheggiare né di giocare a “trova il colpevole”. Tutti sono colpevoli e tutti sono responsabili, ciascuno per le proprie competenze. La cronaca non fa differenze. Se non si interviene è pronta a dispensare nuovi dolorosi episodi.


Trump vince anche se demonizzato. Una lezione per il nostro referendum?

 

Adesso è tutta colpa dei sondaggi. Se la vittoria di Donald Trump ha preso tutti, quasi nessuno escluso, in contropiede la responsabilità è di quei maledetti istituti demoscopici che ci hanno venduto previsioni e statistiche attendibili quanto i visionari di paese che parlano con la Madonna effigiata nel quadro del tinello. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Non è che schiere di presunti esperti e altrettanto improvvisati analisti ci hanno propalato per settimane il frutto malato delle loro narcisistiche elaborazioni e delle loro relazioni autoreferenziale da salotto? Sbagliare si può, intendiamoci, specie quando si deve interpretare il sentire e gli umori della gente. E tuttavia, proprio per questo, sarebbe ora che la si smettesse di affidarsi a tanti presuntuosi dilettanti allo sbaraglio.

Quelli che, materia prima nei grandi giornali, prendono il primo volo per New York, scambiano a fatica due parole con il taxista che li scarica nel pregiato hotel di lusso pagato dalla ditta, e il giorno dopo sfornano una pagina di dotte considerazione su come e qualmente gli americani – nemmeno solo gli abitanti della Grande Mela ma tutti gli americani – vivono e pensano. Quelli che per capire, o fingere di capire, la società americana prendono la prima copia del New York Times (sempre lì si va a sbattere perché fa figo), leggono due articoli, e opla’ ti rifilano un’analisi infarcita di sociologia da fast food. Quelli che, non avendo sufficienti cellule grigie per articolare un proprio pensiero, si rivolgono all’intellettuale di turno, una volta andavano di moda i filosofi ma adesso piacciono da morire gli antropologi e gli esperti di comunicazione sociale (da declinare all’inglese, of course), che in cambio di un soffietto sull’ultimo libro sfornato rilascia osservazioni che vanno nel senso esattamente desiderato dall’intervistatore, a cui spesso non interessa una libera opinione ma portare a casa un titolo che assecondi il volere della Casa.

Questo è l’andazzo nei giornali italiani (per non parlare della TV, dove da tempo conta solo l’effetto spettacolo, non c’è più nemmeno il tentativo di usare la telecamera come scandaglio della società). Inutile sorprendersi della topica Trump il giorno dopo. Ed è francamente penoso leggere le articolesse delle solite prime penne che ci raccontano di come non ci hanno capito un tubo senza provare un minimo senso di vergogna (magari insieme all’ammissione che, dato il macroscopico errore commesso, forse sarebbe il caso di dedicarsi al racconto delle ormai residuali corse di ippica o, ancora meglio, dedicarsi alla compagnia dei nipotini.
Purtroppo, succede qualcosa di ancor più incredibile. Molti di questi commentatori della domenica ora riversano la rabbia per la sconfessione subita addosso a Trump (come ieri sugli inglesi per la Brexit) e agli stessi americani. Uno dipinto come razzista, sessista, troglodita, violento e via insultando; gli altri, come ignoranti, violenti, populisti, qualunquisti, oltre che ovviamente sessisti e razzisti. Gente che ragiona con la pancia e non con la testa, che fa prevalere l’istinto sulla ragione, che guarda al proprio “particulare” e non si cura dell’interesse (supposto) generale. Ancora una volta, anziché sforzarsi di capire ci si abbandona alla demonizzazione. Gli elettori di Trump (come gli inglesi che hanno voluto la Brexit o come i grillini o i leghisti in casa nostra) sono brutti, sporchi e cattivi, a prescindere. Secondo questi fini pensatori, se voti Obama (vedi gli elettori dell’Ohio) sei un cittadino perbene, aperto, evoluto; se, viceversa, la volta dopo opti per Trump diventi un rozzo egoista. E la pratica è inappellabilmente chiusa.
Vale solo la pena di osservare, per tirare amaramente le conclusioni, che in questo modo non si fa altro che fornire più forza e più consensi a chi si vuole criticare o contestare. Sta succedendo anche da noi e potremmo vederne presto i risultati. Vedremo se a forza di dipingere come odiatori di professione, ignoranti, passatisti e quant’altro quelli che non condividono un progetto di riforma costituzionale non si finirà con il tirargli la volata.

 

 


Cari Gorinesi, confessatelo: siete agenti della Spectre!

 

gorinoMa porca l’oca, Gorinesi, Gorinisti o come accidenti si chiamano gli abitanti di Gorino, dovevate proprio fare questa frittata? Non siete i più cattivi né i più intolleranti della Penisola, ma, certamente, siete i più fessi o, perlomeno, i più sfigati. In lungo e in largo, da Sondrio a Lampedusa, esclusi i Welschbezirke tirolesi, prefetti occhiuti e sindaci compiacenti seminano, del tutto a casaccio, migliaia di nerboruti africani sui vent’anni, muniti di telefonino e capetti alla moda, locupletando alberghi, caserme, stazioni e financo colonie religiose, e voi dovete proprio fare le barricate per un manipolo di donne e di bambini, con tanto di immancabili partorienti? Da cosa vi travestirete ad Halloween: da Erode o da Alfred Neuman? Tutta l’Italia boccheggia per un’invasione che, ormai, sta travalicando i limiti del lecito, del tollerabile e, soprattutto, del credibile: gli unici che sorridono e contano le banconote sono quelli che si ingrassano con le ricchissime prebende governative o che utilizzano gli immigrati come schiavi. La nostra Marina Militare, non accontentandosi più di andare a raccogliere gli Africani a due chilometri dalle spiagge, raccontandoci che il golfo della Sirte è nel canale di Sicilia, sta apprestando dei mezzi da sbarco anfibi, per poter raccogliere i profughi addirittura prima che diventino tali: prelevandoli direttamente sotto casa.

Ovunque, si stanno organizzando gruppi di cittadini esasperati, che non ne possono più di strade impraticabili di notte, di palpeggiamenti alle ragazze, di sporcizia, di bighelloni a zonzo, di spacciatori, di case svalutate, di immobili occupati. E voi, in questo scenario perfetto come preludio ad un’insurrezione popolare, pensate bene di rovinare tutto cacciando via donne e bambini? Ma chi ve l’ha scritto il copione, Papa Francesco? Mancava soltanto che, tra i profughi, ci fosse una famigliola di Giudei, marito falegname e moglie gravida, e il quadretto natalizio sarebbe stato completo: buoi e asini, in Italia non mancano, per fare le comparse, e abbiamo perfino un angelino, sia pure bruttarello, da mettere sopra al presepe, con il cartiglio “Gloria in excelsis deo…”. Ma dico io, neanche a farlo apposta! O l’avete fatto apposta? Dai, dite la verità, Gorinesi, Gorinisti o come vi chiamate: vi hanno pagato per allestire questa bella recita di Natale. Vi hanno promesso 500 euro per ogni immigrato respinto. Vi comprano le vongole a trentacinque euro al chilo. Quella storia della Conad che ve le rimanda indietro per il virus è solo depistaggio. Non è possibile che, su più di sessanta milioni di Italiani, di cui una buona metà imbufaliti, esasperati, ridotti alla disperazione, da un governo scellerato, gli unici che facciano le barricate per fermare i profughi vadano ad incappare in un pullman carico solo ed esclusivamente di povere donne e di minorenni. Probabilmente, l’unico pullman del genere in tutta la Penisola.

Ha ragione Alfano: questa non è l’Italia. Questo è un film. E la riprova è che la canea organizzata, i lanciapietre di regime, la fuffaglia radical-sciccosa, non aspettava altro, e ha sparato a palle incatenate. Un tiro di controbatteria che era pronto da mesi: mica si improvvisano certe battaglie. Lo ripeto: questo non è un caso di razzismo, questo è un assist di Lionel Messi. Perché l’Italia, ahimè, è quella che accetta, obtorto collo, i diktat governativi: quella che vede le frotte di nullafacenti giocare col cellulare sulle panchine e abbozza, salvo, magari, scuotere la testa o, tra le mura domestiche, lasciarsi andare alla geremiade. Perché l’Italia vera ha paura di passare per cattiva: ingoia e tace, per non subire il linciaggio. Invece, voi, cari Gorinesi, siete in assoluta controtendenza: vi mandano qualche donna, spaventata, disperata, incinta (il marito è un ectoplasma ignoto) e voi la respingete crudelmente, al suo destino drammatico. Il perfetto ‘vilain’ da commedia: un misto di cattivaccio biblico, di Hitler e del contadino Jacques. No, scusate ma io non ci credo, cari Gorinesi o Gorinisti o chessò io: c’è un limite anche alle bizzarrie del caso.

Venti su centoquarantamila è una percentuale che rasenta il nulla: non c’è nulla di male, però ammettetelo che era un piano prestabilito per fare sembrare Alfano intelligente e Vauro umoristico. E’ anche quella una forma di attività caritatevole, in fondo. E poi, suvvia: l’anziana signora che si fa intervistare da Formigli e dice che i negri sono meno intelligenti dei bianchi è un cameo degno di Bette Davis. La nonnina veterorazzista, esponente di spicco del movimento di protesta anti-migranti di Gorino merita di entrare nel pantheon delle più eccelse parodie: il movimento per la liberazione della Giudea dei Monty Python, “Cornovaglia libera, libera Cornovaglia”, la nonna del Corsaro Nero. Altro che razzismo padano! Che, con tutto un Paese messo in ginocchio dalla politica migratoria del governo, un Paese che esporta migliaia di giovani laureati ed importa migliaia di giovani disoccupati, che nemmeno parlano l’italiano, possa risuonare un’unica concreta voce di protesta, e che vada a sbattere in un incidente così formidabile, mi pare davvero incredibile. Confessatelo serenamente, cari come diavolo vi chiamate, siete agenti della Spectre!

 

 


Appalti e corruzione, forse è il caso di riscrivere la storia dell’Expo

1.ExpoNon passa settimana senza che spuntino nuove indagini, con annessa gragnuola di arresti impreziosita da un contorno di saporite intercettazioni telefoniche, su vorticosi giri di mazzette gestiti da cosche mafiose all’ombra di Expo Milano. L’ultima è di pochi giorni fa ed ha visto finire nelle patrie galere 14 tra manager e imprenditori calabro-lombardi accusati di corruzione per vari appalti e subappalti in Lombardia, a partire dai padiglioni Italia, Cina ed Ecuador della sfavillante esposizione universale andata in scena lo scorso anno. E allora, poiché trattasi per l’appunto solo dell’ultima e gli inquirenti lasciano intendere che altro sta per arrivare in tavola, la domanda sorge spontanea: non sarà forse il caso di riscrivere la storia di Expo? Cioè a dire, non vi pare che sarebbe opportuna una seria operazione di revisione storica per demolire il mito, falsamente costruito con il più tradizionale cocktail di propaganda e retorica, di una Expo modello di virtù, esempio inimitabile e irraggiungibile di operazione, come fu definita, “tangente free”?

Nei mesi scorsi ci sono state riempite le orecchie (e anche qualcos’altro, si parva licet…) con questa storia di Milano che poteva e doveva essere presa ad esempio. Chi non ricorda, è storia di poche settimane fa, la violenta polemica del presidente del Consiglio contro la sindaca di Roma per il suo dietrofront sulla candidatura della Capitale per le Olimpiadi del 2024? Diceva Renzi: “Bisogna bloccare i ladri, non le opere”, e indicava a modello proprio Expo. Le inchieste giudiziarie stanno dimostrando, ahinoi, che se l’esposizione universale è stata innegabilmente un successo di pubblico, con qualche ritorno sull’immagine di Milano (ma meno di quanto si tenda ad accreditare), è altrettanto sicuro che ha consentito alle più diverse organizzazioni criminali e a vari lestofanti incistati nella pubblica amministrazione di ingrassare all’ombra delle gare d’appalto e della gestione dei servizi.

Qualcuno dirà che era inevitabile, altri rimarcheranno che laddove ci sono grandi investimenti è fisiologico che ci sia chi se ne approfitta. Con un po’ di fatalismo all’italiana, dove abbiamo fatto lo stomaco ad ogni genere di scandalo (compreso quello di vedere figli di ex ministri e ex ragionieri dello Stato implicati in inchieste vergognose), potremmo anche rassegnarci all’evidenza e chiuderla lì. Se non fosse che viene il sospetto che forse talune indagini siano una scoperta solo per noi sprovveduti uomini della strada. Che forse, ma solo forse sia chiaro, la puzza di marcio si era sparsa già da tempo, magari fin da quando le masse si disperdevano lungo il Decumano, ma che non era opportuno, politicamente parlando, sollevare il coperchio del bidone. Sapete com’è, l’immagine dell’Italia nel mondo, il governo del fare, le magnifiche sorti e progressive. Pubbliche virtù e vizi privati, magari con l’autorevole copertura di chi stava seduto in alto loco.

Oggi quell’immagine di efficienza e di pulizia, su cui anche i giornaloni hanno dato prova di appiattimento (sarà mica perché Expo ha comprato spazi pubblicitari per milionate e milionate?), è brutalmente svergognata da ciò che emerge dai palazzi di Giustizia. Bisognerebbe onestamente prenderne atto. Ma dubitiamo che lo faranno quelli che cavalcano la retorica delle grandi opere che muovono il mondo, quelli che dicono che l’Italia deve riprendere a correre, quelli che l’immagine viene prima di tutto. Ad oggi, spiace constatarlo, il Paese è paralizzato attorno ad una controversa riforma costituzionale. Chi corre davvero, invece, sono mafiosi e corrotti.

 

 


Quella miseranda tremarella che “schiaccia” il mondo della scuola

ragazzi-a-scuolaLa scuola: già, la scuola è uno dei nostri più grossi problemi, da qualunque parte la si giri. E’ un problema la mancanza di certificazioni attendibili, come lo è la retribuzione degli insegnanti, mediamente bassa e del tutto slegata da meriti e demeriti. E’ un problema la dispersione, è un problema la formazione: insomma, per farla breve, è un intero campionario di cose che non funzionano o funzionano male. Oltretutto, ognuna delle numerose componenti che formano quel vasto universo che è la pubblica istruzione vede soltanto i propri problemi, mancando quasi sempre di una visione globale della questione: genitori e ministri, alunni e dirigenti, insegnanti e provveditori, bidelli e direttori generali hanno ognuno una propria visione, tanto diversa quanto significativamente distorta, del quadro. Io vi dirò, da parte mia, quello che, secondo me, è uno degli Schwerpunkt del sistema scolastico: la luna invece del solito dito, se preferite lasciare Clausewitz alla sua naftalina. Alla base di tante pecche della scuola italiana dell’anno domini 2016 c’è la paura. Sissignore, la paura: una fifa birbona. Paura, innanzitutto, collettiva: quell’ansiosa, sudaticcia, mancata assunzione di responsabilità, che divora tanti nostri connazionali, nel pubblico impiego assurge a dimensione esistenziale. Così, la scuola si riempie di codicilli e di regolamenti, allo scopo di scongiurare disastri: soprattutto, la responsabilità dei disastri.

Non si può correre, giocare, uscire nel cortile, entrare in classe durante l’intervallo, andare in bagno se non ad orari strettamente stabiliti, passare di qui, entrare di là: non per un legittimo desiderio di ordine e decoro o per tutelare la salute ed il benessere degli studenti, ma per evitare incidenti che possano creare guai. Per scansare i casini, per dirla in francese. E, allo stesso modo, le tonnellate di carte che i docenti devono compilare sono, nella maggior parte dei casi, dei giubbotti antiproiettile, dei paraspalle: si certifica questo e si documenta quell’altro nel timore che a qualcuno venga in mente di contestare, denunciare, ricorrere. Il fantasma del famigeratissimo TAR incombe su esami e scrutini, come un convitato di pietra alla cena di Don Giovanni. Lo stesso dicasi per la pletora di diagnosi sui disturbi dell’apprendimento o sui cosiddetti BES: uno studente in possesso di tali requisiti è, praticamente intoccabile e sa che potrà godere di accomodanti soluzioni fino al giorno del diploma, anche se, talvolta, il suo vero problema si chiama asineria volontaria da scansafatichismo: per la paura, ancora per la paura. E, poi, non meno perniciosa, c’è la paura a titolo individuale: quella vocina che tanti insegnanti sentono dentro di sé e che dice che, prima o poi, qualcuno li sgamerà. Si scoprirà che si preparano la lezione la sera prima, studiando sugli stessi manuali dei propri alunni, tutto quello che non hanno studiato quando avrebbero dovuto.

Qualcuno porrà la domanda, apparentemente innocente, su quel teorema, su quella forma idiomatica, su quell’autore, e loro, non potendo confessare di non averlo studiato, dovranno arrampicarsi sui vetri. Verrà fuori, allora, la vecchia cara paura all’italiana: paura di un’insufficienza culturale complessiva, quasi preterintenzionale, nata da decenni di accumulazioni recidive di trucchetti e di sindacalismo, di concorsi mancati e di concorsi truccati. Il povero insegnante si troverà nudo, di fronte all’ammissione della propria sconfortante inadeguatezza, e dovrà rifugiarsi dietro ai: fanno tutti così, non sono peggio degli altri. Paura. Mano a mano che si sale o che si invecchia, questa paura si disperde e si stempera: non è più così ossedente, non ti crea più incubi notturni. Ma rimane: come quando si sogna di dover ripetere l’esame di maturità. E io sono certo che, dietro la sicumera di certi ministri o sottosegretari, dal curriculum un po’ incerto, dai titoli un po’ vaghi, dalle pubblicazioni un po’ inesistenti, quella paurina ci sia ancora: lungo il filo della schiena, nascosto dalla legittima soddisfazione di essere lì, a far correre trafelati uscieri e ad essere trattati da padreterni da una schiera di accademici semigenuflessi, c’è quel brivido sottile.

E una voce che dice: non es dignus! Tutto il contrario dell’umiltà predicata dai vangeli: una condanna inappellabile, piuttosto, di catoniana potenza: non sei degno del nobile compito di educare le nuove generazioni, perché, dentro di te, sei soltanto, un frodatore, uno che si arrangia. Ma io, certamente, esagero: mi faccio prendere la mano e trascendo nell’epifonema. C’è tantissima brava gente che dà l’anima per la scuola e non sarebbe giusto accomunarla a qualche mela marcia: eppure, anche loro sono vittime di questa paura. Perfino i migliori accettano, supinamente, di gettare il proprio prezioso tempo nella compilazione di inutili carte, nella produzione di vana paccottiglia: perfino i più bravi, in fondo, hanno paura. E’ talmente radicata, ormai, questa miseranda tremarella, da non permettere più di vedere la luna dietro al dito. E la luna è la trasmissione di una civiltà, prima che muoia, uccisa dalle sue stesse paure. Una civiltà di uomini, in piedi, responsabili, fieri di sé e del proprio destino.