Dopo la batosta / Renzi, difficile evitare un atterraggio di fortuna

Dopo la batosta / Renzi, difficile evitare un atterraggio di fortuna

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Matteo Renzi
Matteo Renzi

Ce la racconti come vuole, Matteo Renzi, ma ha perso. E pure di brutto. Vada, se non l’ha già fatto, ad accendere un cero a Beppe Sala che, salvando la ghirba a Milano sia pure affannosamente, gli ha consentito di evitare la disfatta.

Magra consolazione perché il quadro che esce dal secondo turno delle elezioni comunali ci conferma in una ipotesi-sensazione che avevamo già espresso alla vigilia dei ballottaggi: è iniziata la Renzexit. Chi vuol sussultare, lo faccia. Chi crede che si tratti di un’esagerazione ha tutto il diritto di farlo. Ma solo gli illusi possono pensare che dopo una simile batosta (a Roma i grillini che il premier irrideva hanno preso più del doppio del suo candidato e a Torino una bandiera come Fassino è stata mestamente ammainata) il baldanzoso e irruente Renzi possa andare al referendum, da lui stesso già immaginato come il punto di non ritorno per la sua esperienza politica, con reali speranze di farcela.

Proviamo a riavvolgere il nastro. In poco più di due anni il segretario Pd ha aperto fronti di guerra in ogni dove. Prima dentro il suo partito, mettendo alla porta solo i cacicchi (D’Alema) più pericolosi ma non tutti. E ci stava. Ma quando ha messo il naso fuori si è immedesimato nel famoso draghetto Grisù, quello che voleva fare il pompiere ma che lanciava fiammate ogni volta che apriva la bocca. Giù legnate al sindacato e giù sciabolate alle organizzazioni di categoria. Poi caccia continua a (presunti) gufi, cornacchie e volatili vari. Il tutto scandendo ossessivamente il mantra “noi dobbiamo cambiare il paese, solo noi possiamo farlo. Gli altri pensano solo agli inciuci” (e lui trafficava con Verdini e con gli avanzi del berlusconismo).

Il 40 per cento che aveva conquistato alle Europee del 2014 lo aveva illuso (con la compiacenza, sia chiaro, dei giornalini e dei grandi commentatori sempre pronti a baciare la pantofola del capopolo di turno). Ci ha campato sopra per un po’, ma alla fine le chiacchiere, come icasticamente dicono a Roma, “stanno a zero”.

Il Pd è un partito a pezzi, non governato da una classe dirigente di yuppies dall’accento toscano, del tutto fuori controllo in periferia (così che incidentalmente possano emergere eccezioni sorprendenti come quella di Varese). Il governo è stato piegato a sprecare immani energie nella battaglia per il referendum costituzionale. L’economia non riparte, ai risparmiatori truffati dalle banche non è ancora stata data risposta, il malaffare continua a perpetuarsi mentre a Roma litigano sui tempi della prescrizione.

Di fronte a questo scenario un premier responsabile avrebbe dovuto rivoltarsi ancor più le maniche nel tentativo di mobilitare tutte le energie possibili per invertire la rotta. Al contrario Renzi, vittima del suo carattere da gradasso in giacca e cravatta, ha minacciato di imbracciare il lanciafiamme…

È davvero puerile, dopo quel che è successo a Roma e Torino, sentirlo commentare “vedremo cosa sapranno fare i grillini…”. Cosa ha fatto e cosa sta facendo lui gli italiani lo stanno vedendo e non pare che ne siano più così entusiasti. Forse è arrivato il momento di guardarsi allo specchio e di fare ordine in casa propria. Sempre che ve ne sia ancora il tempo. Perché la Renzexit è ampiamente avviata. Smarcamenti e riposizionamenti sono già iniziati poche ore dopo l’apertura delle urne. Allacciate le cinture, turbolenze in vista. L’equipaggio è pronto per un atterraggio di fortuna ad ottobre. Sarà molto difficile evitarlo.