La Brexit non spaventa, decolla la nuova scuola italiana

scuola-italiana-a-londraLa Brexit non spaventa gli italiani a Londra, che non sembrano avere alcuna intenzione di andarsene e anzi, investono nell’educazione dei propri figli. Un segnale positivo si è visto proprio qualche giorno fa, con l’inaugurazione del nuovo ampliamento della Scuola Italiana a Londra, la prima e unica del Regno Unito. In un contesto internazionale come quello della capitale britannica, le offerte formative non mancano. Spiccano scuole internazionali ambite e di prestigio, come quella francese e tedesca, che sono anche un indice significativo non solo del numero di stranieri, ma anche del desiderio di comunità e che si crea tra chi vive all’estero. A queste realtà ben radicate si aggiunge la scuola italiana. Fondata nel 2010 da un ristretto gruppo di volontari privati, ha incontrato le esigenze dei connazionali ed è passata, in pochi anni, ad ospitare fino a cento iscritti, divisi tra scuola d’infanzia e primaria, con il programma di aprire una scuola media nei prossimi anni, cosi da farli proseguire nello studio.

L’istituto ha ottenuto la parificazione da parte dei ministeri della Pubblica Istruzione italiano e inglese. Alla base del progetto formativo, l’opportunità per gli studenti di potersi inserire in un sistema scolastico bilingue ed avere una formazione ampia e completa che coniuga le basi culturali italiane ed anglosassoni, cercando di unire il meglio dei due mondi.  Il successo di questo progetto è arrivato grazie agli sforzi di un gruppo di italiani, che, guidati da Francesca Nelson-Smith, hanno raccolto i fondi necessari bussando alla porta di donatori privati. Francesca Nelson-Smith, che è la fondatrice di questo progetto e vi ha dedicato tempo e risorse negli ultimi 10 anni dice: “Non è stato facile e ci abbiamo messo degli anni ma abbiamo trovato sostegno e aiuto da parte di molti e siamo grati all’Ambasciatore italiano a Londra Pasquale Terracciano, che ha inaugurato la nuova sede la scorsa settimana e ai nostri donatori che con noi condividono la passione per la cultura e la formazione italiane. Oggi siamo molto soddisfatti dell’obiettivo raggiunto”.

Il progetto di ristrutturazione e ampliamento della scuola è stato concepito e realizzato dallo studio di architettura JT Lab, con sede a Londra e a Padova, che si è occupato di connettere  in modo armonioso i civici 154 e 156 di Holland Park Avenue e creare nuovi spazi per ospitare i nuovi studenti. Il progetto, consegnato in tempi record, ha mantenuto le caratteristiche dell’edificio storico e ha creato uno spazio dinamico e a misura di bambino. Tiziano Massarutto, architetto e director di JT Lab, lavora e vive a Londra. “Sono da poco diventato padre e ho pensato a mia figlia, a come interagirebbe con questo spazio, al suo benessere e all’armonia che l’edifico scolastico vorrei che trasmettesse. Nonostante la complessità del progetto, non ho mai perso di vista l’utente finale, ovvero i bambini, che verranno qui per imparare, giocare quotidianamente e, speriamo, essere felici tra queste aule e questi banchi. Ho messo loro in primo piano nel progetto e nell’esecuzione, lasciandomi guidare dai loro movimenti e dall’uso che avrebbero fatto di questo spazio. Questo è il risultato”.

 


Una bergamasca a Londra / L’italia fuori dall’Ue? In Inghilterra l’ipotesi guadagna terreno

LondraDopo la Brexit e l’elezione di Donald Trump, abbiamo capito che è meglio ignorare i sondaggisti e affidarsi paradossalmente alla legge di Murphy: se le cose possono andare male, allora andranno male. Si, sono negativa e pessimista. E spero davvero di sbagliarmi. Intanto voto per posta, ma mi preparo ad un altro risultato deludente sul fronte elettorale. L’Europa guarda all’Italia e si aspetta un’altra ondata di cattive notizie. E non mi riferisco al fatto che la vittoria del no possa spodestare Matteo Renzi dallo scranno da primo ministro. Mi riferisco invece al timore, molto più esteso, che l’Italia venga travolta da un’ondata populista e si avvii verso l’uscita dall’Unione Europea. A volte chi guarda le cose da lontano le vede con più chiarezza. Da Londra, questa possibilità spaventa ma guadagna anche terreno. Quel che è singolare è che le cause di questo pronostico nefasto non hanno molto a che fare con il referendum. E se vi state chiedendo se le cose qui a Londra siano peggiorate dopo la Brexit, la risposta è semplice ed è affermativa.

Ma veniamo all’Italia. Dall’entrata in circolazione dell’euro, la produttività italiana è scesa del 5 per cento, mentre in Francia, Germania e Inghilterra è salita del dieci per cento. Dopo la crisi dell’eurozona, iniziata nel 2010 e proseguita fino alla fine del 2012, le misure di austerità e controllo imposte dalla cancelliera Angela Merkel – che guarda caso non gode di grande popolarità in Italia e nei paesi europei con economie deboli – hanno scatenato un’ondata di populismo in tutta Europa, con la brutta faccia di Nigel Farage in Inghilterra, quella più fotogenica di Marie Le Pen in Francia, e con ben tre facce in Italia: il Movimento Cinque Stelle, la Lega Nord e pure Forza Italia, che da quando Berlusconi è stato mandato a casa nel 2011, ha manifestato un forte sentimento anti Merkel ed anti euro. Sappiamo poi che in democrazia l’opposizione, prima o poi, va al potere. E se Renzi perde il referendum si potrebbe dimettere, aprendo il varco ad un altro momento di instabilità politica ed economica. Perché mai gli investitori stranieri dovrebbero investire in Italia? Qui dove sono io, dove si pensava che la Brexit non sarebbe mai accaduta, invece ci siamo svegliati il 24 giugno sotto choc, e non si sa ancora a che cosa andiamo incontro. Non stupirebbe quindi vedere uno o più Paesi lasciare l’eurozona. E se fossi uno scommettitore, punterei i miei soldi sull’Italia. Non lo sono, e mi limito a riporre le mie speranze su attese ragionevoli.

 

 


Il terrorismo semina paura, ma io continuerò a sentirmi libera

Ebbene, terrorista

ho paura. Ho avuto paura a Istanbul alcune settimane fa, mentre visitavo le zone turistiche di quella bellissima città, dove mi sono sentita a casa pur non parlandone la lingua, ma dove ora non mi sognerei di ritornarvi, per paura di incontrare alcuni dei tuoi amici, armati di bombe a kalashnikov. Dopo la mia visita avete seminato odio e terrore ben due volte. Hai rovinato per sempre non solo il Bataclan ma tutto quel bel quartiere, che vi ruota intorno, pieno di caffè, brasserie e posti autentici, dove mangiare bene, chiacchierare e respirare un’aria artistica e creativa che tanti ancora sognano di trovare a Parigi. Torno spesso, e non sempre volentieri, a Parigi. Lo faccio per lavoro, ma dopo quella gelida notte di novembre è sceso un velo grigio che nemmeno i colori della settimana della moda possono cambiare. Metropolitane, stazioni. aeroporti. A Londra, a Milano, Roma, Napoli, Parigi, Amsterdam. Mi hai fatto sentire vulnerabile, in tutte le stazioni. Hai rovinato uno dei grandi piaceri della vita. Viaggiare, e qui ci metto anche volare, Vivo in una città che è stata duramente colpita undici anni fa dagli attentati del 7 Luglio. Non si dimentica, o se si dimentica, accade solo per poco. Se attraverso una stazione affollata penso che tu, insieme a qualche tuo amico, potreste fare una strage, colpendo persone che come me che cercano di arrivare a lavoro puntuali, o tornare a casa dalle proprie famiglie. E adesso Nizza. Nella memoria collettiva quell’angolo di paradiso che è la promenade des Anglais, dove il clima è mite tutto l’anno e le palme ti proteggono mentre passeggi. Il mare da una parte e hotel dove la vita scorre dolce dall’altra. Hai trasformato il Negresco in un ospedale da campo, quella passeggiata in un luogo di tragedia e rovinato lo spettacolo dei fuochi d’artificio per più di una generazione. La vita che ho conosciuto per vent’anni non esiste più, e non lo sarà almeno per i prossimi dieci. La vorrei indietro. Era bello doversi preoccupare solo di arrivare in orario in stazione per prendere un treno,  di assistere un concerto senza pensare che tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Nella speranza che un giorno questo finisca, non posso fare a meno di due cose. Sentirmi afflitta dalla morte delle vittime. Venerdì è stato un giorno difficilissimo, e il pensiero di un weekend vicino non è bastato a rendermi felice. E poi non posso fare a meno di coltivare la mia libertà, il mio desiderio di visitare musei, di vedere film al cinema, di prendere l’aereo per vedere la mia famiglia o scappare verso un luogo caldo. La libertà, insieme al piacere di vivere questa vita europea, occidentale e democratica, mi appartengono più della paura, per quanti attentati tu possa fare.


Brexit, ecco come i britannici stanno vivendo la vigilia del referendum

BrexitManca una settimana al referendum sul Brexit e il panorama appare più incerto che mai. Certo non ci saremmo aspettati, alcuni mesi fa, di arrivare a questo punto, con un testa a testa così serrato e la possibilità, per certi aspetti piena di incognite, di un voto per l’uscita. E’ una settimana cruciale in cui nessuno, nenanche i più disinteressati alla politica, non possono ignorare il fatto che il voto è alle porte ed è il momento di informarsi e decidere. Dopo che l’autorevole Economist si è schierato per lo status quo, il Sun, giornale popolare e letto dalla “classe operaia”, si è schierato dall’altra parte. Nelle prossime ore altre testate, se ancora non l’hanno fatto, prenderanno una posizione. In questo senso le battute finali di una campagna elettorale non sono molto diverse da paese a paese: anche qui i politici appaiono trafelati, iperventilati, e soprattutto ovunque, a tutte le ore in tv, sui giornali, sui siti. Sono sovraesposti, si attaccano continuamente ma ancora non riescono a dare chiarezza su quel che più conta per l’elettorato, ovvero i fatti. Manca una prospettiva chiara perché nessuno conosce con certezza le implicazioni di uno scenario diverso da quello attuale. E le risposte, anche quando arrivano, non sono né giuste né sbagliate. Per esempio con una Brexit le importazioni costerebbero di più e andrebbero a toccare i costi della spesa quotidiana delle famiglie, ma dall’altro lato aiuterebbero le esportazioni.

Se con la Brexit i costi delle case precipitassero sarebbe davvero una calamità? Chiedetelo a chi è giovane e si sente tagliato fuori per sempre dalla possibilità di acquistare casa e scoprirete che si tratta di uno scenario auspicabile. Nella maggior parte dei referendum lo status quo ha la meglio, ma in questo caso è diverso, perché lo status quo non è quello che sta scritto sul documento elettorale. L’Unione europea cambia di giorno in giorno, creando leggi difficili da prevedere. La Brexit ha inoltre significati diversi a livello individuale. Se la Brexit passasse, il nuovo primo ministro potrebbe negoziare l’accesso al mercato europeo e dare in cambio il mantenimento delle legge attuali sulla libera circolazione degli europei in UK. Nessuno sa cosa significa davvero. Nemmeno gli economisti, che fanno previsioni ma, come sappiamo bene, non hanno poteri di preveggenza. Se sapessero prevedere il futuro, il crash finanziario del 2007 non sarebbe avvenuto, o ci avrebbero almeno avvisati. I britannici sono ormai stanchi di sentir parlare di referendum ad ogni ora, ma perlomeno non devono recarsi alle urne come i cugini americani e votare per Hillary Clinton o Donald Trump, due dei candidati meno popolari nella storia delle elezioni americane di sempre.

 


Brexit, tra aziende e immigrati lo scenario si fa incerto

BrexitSi tratta di un momento storico l’elezione di un sindaco musulmano in una grande e multiculturale metropoli europea. Da venerdì Sadiq Khan è alla guida di Londra. In un momento in cui si innalza un fervore anti immigrazione e slogan populisti cavalcano la paura destata dagli attentati di Parigi e Bruxelles, si tratta di una bella notizia. Figlio di un autista di autobus pakistano e di una sarta, cresciuto in una casa popolare nel sud di Londra con altri sette fratelli, non poteva essere un candidato più diverso da Zac Goldsmith, telegenico e con un sorriso da copertina, figlio di un multimiliardario ed ecologista, studente prima a Eton e poi a Cambridge. Il nuovo sindaco di Londra, una città dove circa un residente su otto è musulmano, avrà un bel da fare davanti a sé. Quello che però tutti non sanno, è il fatto che i suoi poteri non sono vasti quanto sembrano. Londra ha un sindaco eletto dal residente solo dal 2000. Contrariamente alle città italiane, o a quelle americane, i suoi poteri riguardano il sistema dei trasporti, le forze dell’ordine e l’edilizia, ma non nella loro totalità. E’ come se avesse nelle sue mani solo cinque bottoni dell’intera stanza. Di certo, come molti londinesi, è un perfetto rappresentante di tante identità che non sarebbero facilmente coniugabili in altri luoghi nel mondo. Parlando di sé, si definisce: londinese, europeo, di fede islamica, di origine pakistana, un padre, un marito. E’ riuscito ad attrarre l’odio e le minacce delle frange più tradizionaliste della comunità islamica quando, nel ruolo di parlamentare, ha votato a favore delle nozze gay, e attrarre il voto dell’ elettorato conservatore, che non si sentiva rappresentato dalle visioni anti Europa di Goldsmith.

Non è il solo sindaco musulmano d’Europa. Ad accompagnarlo c’è, a Rotterdam, il sindaco di origine marocchina Ahmed Aboutaleb, è divenuto uno dei politici più amati nel suo Paese, ed è stato indicato da alcuni come un papabile primo ministro dell’Olanda in un futuro vicino. L’Olanda, non dimentichiamoci, che ha manifestato negli ultimi anni accesi sentimenti anti islam. Ma se da un lato Londra affida le chiavi della città a un politico che rappresenta il successo dell’integrazione, il resto del Paese sembra andare nella direzione opposta e si interroga  su come potrebbe apparire lo scenario dell’immigrazione in caso si votasse per la Brexit. Uno scenario che non piace alla City e alle grandi aziende, ma che ha numeri e statistiche interessanti. Se l’Inghilterra lasciasse l’Europa, chi già vi risiede non verrebbe cacciato via. Ma per i nuovi arrivati la faccenda si complicherebbe. E sa da un lato abbiamo chi cerca lavoro, dall’altra abbiamo le aziende che negli ultimi decenni si sono abituate a impiegare manodopera, o competenze più qualificate, provenienti dall’Europa. Due milioni e 200 mila lavoratori europei si trovano, impiegati a tempo pieno nello UK. Di questi, quasi un milione sono concentrati nella capitale, mentre oltre 2 milioni di immigrati vengono dal resto del mondo, Europa esclusa. Il dieci percento di questi sono impiagati nell’industria manifatturiera, quasi 500 mila sono nel settore turistico tra hotel, ristoranti e un numero simile è nella finanza, rappresentando circa il 7 percento dell’intero settore. Nessuno davvero sa che cosa accadrebbe in caso di uscita dall’Europa, perché nessun paese prima d’ora l’ha fatto. Di certo l’Inghilterra continuerà ad avere bisogno di immigrati, altrimenti chi servirà i clienti nei bar della capitale, e lavorerà negli hotel? O dove si troveranno degli ingegneri qualificati?

 

 


Una bergamasca a Londra / Lavoriamo troppo? Forse sì, ma rendersi indispensabili è decisivo

Lavoro Working Hard .Dopo dieci anni o poco più di lavoro capisco mio padre e le sue lunghe ore trascorse in ufficio. Rare le occasioni in cui arrivava a casa prima delle 8.30 di sera. Adesso è il mio turno, con la differenza che le mie giornate finiscono ancor più tardi e il lavoro inizia quando bevo il primo caffè e controllo le mail arrivate durante la notte dall’Australia, Singapore o qualche altra parte dell’America. Lavoriamo tanto, troppo? Credo di no. Siamo sempre collegati? Sì. Ci piace? Direi di sì. Da poco più di un anno lavoro per un’azienda americana, dove mi confronto con colleghi stacanovisti e colleghe che prendono tre mesi di maternità, tra prima e dopo l’arrivo del bebè. Come loro, un terzo degli americani laureati lavora almeno 50 ore la settimana, e professionisti di élite, come gli avvocati d’ affari, ne lavorano 70 in media, con solo tre settimane di vacanze l’anno. Insomma, gli piace lavorare. Le statistiche su Cina e Giappone fanno tremare. I colleghi giapponesi e coreani sono spesso in ufficio alle 2-3 di notte. Cenano a casa, e poi tornano in ufficio. Si sta realizzando l’opposto di quanto aveva teorizzato poco meno di cento anni fa l’economista inglese John Maynard Keynes, che negli anni ’30 pensava che la società occidentale sarebbe stata così ricca da permettersi di lavorare solo 15 ore alla settimana. Certo, lo diceva in un momento storico in cui c’erano tutti gli indizi per pensarla così: le ore degli operai in fabbrica erano 60 alla settimana all’inizio del secolo, scese a 40 all’inizio degli anni ’50. Non era quindi strano pensare che, a breve, le proporzioni tra tempo libero e lavoro si sarebbero scambiate.

Questa tendenza ha continuato il suo corso negli anni ’60, per poi avere una brusca battuta d’arresto nei ’70 quando, con l’introduzione di tecnologie e macchinari, il contributo dei colletti blu non è più indispensabile come qualche anno prima.  I lavoratori, specialmente operai, si ritrovano a dover accettare salari più bassi, mentre i dirigenti si concentrano sul taglio dei costi. Il sogno delle 15 ore settimanali di Keynes svanisce, e si capovolge: oggi siamo sempre collegati, non siamo mai “out of the office”, nemmeno su un isola in mezzo all’oceano. Basta avere Iphone o BlackBerry, un caricatore e possibilmente una connessione wi-fi. La tecnologia, che tanto amo e da cui tanto dipendo, ha reso l’intero mercato del lavoro più competitivo. Un tempo la vita era quello che accadeva al di fuori del lavoro, mentre oggi è quello che accade sia tra le mura dell’ufficio e tutte le attività che vi ruotano intorno. Il senso di gratificazione viene da quello che facciamo, che sia disegnare e fabbricare un abito, scrivere un articolo, lanciare un app, o chiudere un affare. Il lavoro è come una nuvola, con dei confini non ben definiti, dove inevitabilmente ci capita di mescolare vita privata e professionale, esponendoci così a persone e idee interessanti. Costruire una carriera oggi significa diventare indispensabili. Esseri indispensabili significa immergersi nel proprio lavoro, nel proprio network, nel proprio gruppo di colleghi e clienti, trovando motivazione e un senso a quello che facciamo. Ecco perché capisco mio papà, e le sue lunghe ore da libero professionista passate in ufficio. Faceva già tutto quello che faccio io ora, solo non aveva l’Ipad.


Se anche l’abbigliamento “maschera” la falsa austerità

Si è conclusa di recente la prima London Fashion Week del 2016. Se dovessi scegliere una parola per riassumere quello che ho visto, sceglierei frugale. Ho visto scendere dalle auto sponsorizzate e lucidate donne e uomini vestiti come se fossero dei senzatetto. In questo periodo dell’anno tutto è enfatizzato, ma non serve essere parte di questa selettiva tribù per abbracciare questo stile. Basta camminare su una strada qualunque, da Castione a Barletta, e accorgersi che jeans strappati con buchi enormi in zona ginocchia, orli sbrindellati, magliette con il buco, giacche con le toppe attaccate, sono la norma.  In Giappone vendono jeans che sono prima stati dati in pasto alle tigri, e poi rivenduti a caro prezzo. No, non si tratta di uno scherzo. Adidas vende scarpe con delle finte macchie di fango, Diesel propone jeans spuzzati di vernice e pittura, come se fossero stati usati per tinteggiare casa. Chi ha un budget limitato può trovare nella rete istruzioni dettagliate e suggerimenti per invecchiare, sgualcire, e direi rovinare, un paio di pantaloni nuovi e perfetti, usando lamette da barba, carta vetrata e candeggina.
Lo stile “usato e martoriato” non si ferma agli abiti. Ho perso il conto di quanti amici hanno in cucina una credenza strappata alla discarica e ritinteggiata, o le cassette della frutta del mercato smaltate e trasformate in porta oggetti. Nessuno sceglie il marmo per il bagno o i pavimenti. Si preferiscono le assi di legno vissute, i rubinetti di metallo opaco e i mattoni a vista, come se non ci si potesse permettere di rifinire i muri.

jeansPer la maggior parte della storia, abiti vecchi e consumati erano l’unica opzione, e chi si poteva permettere bei vestiti li indossava con orgoglio. Il fenomeno di apparire dimessi è relativamente recente e portatore di rottura e contestazione delle regole. Pensiamo al look libero e trasandato degli hippy, i tagli e le spille da balia dei punk, i grunge degli anni ’90. Il denominatore in comune è il momento storico in cui sono nati, segnato da pace e prosperità, in un’era che si può permettere il lusso di scegliere. Se per i nostri nonni abiti dimessi erano un segno di tempi di guerra, fame e ristrettezze, il look stressato e dimesso tanto di moda adesso può rappresentare diverse cose: lo stato d’inquietudine e afflizione nella quale si trova la nostra società, la risposta ad un contesto che ci bombarda di nuove tendenze ogni tre mesi, istigando una fame insaziabile al consumo, abiti prodotti a costo bassissimo, di altrettanto bassa qualità, spesso in condizioni di lavoro disumane. Se una maglietta costa quanto un gelato, il motivo lo sappiamo bene. Un altro motivo è invece la “sindrome di Maria Antonietta”, dove chi ha troppo di tutto, si diverte a travestirsi da povero solo per il gusto di apparire diverso e interessante, o perché ha già indossato velluti, pizzi e sete e desidera qualcosa di diverso. Basta pensare ai guru della Silicon Valley, tutti in felpa sgualcita e maglietta, cercano di apparire modesti quando hanno un conto in banca a sette zeri e l’aereo privato. Oppure non c’è nessun significato sociologico ma è solo e semplicemente moda.

 


Brexit, vi racconto come i britannici affronteranno il referendum

BrexitLa domanda a cui gli elettori britannici si troveranno a rispondere è semplice: rimarremo in Europa o la lasceremo? Prima che il Paese vada alle urne il 23 giugno, ci saranno una miriade di discussioni, dibattiti, manifestazioni, con il solito spiegamento di forze politiche, ex politici, leader economici, a cui seguiranno facce conosciute e in cerca di popolarità.
La risposta a questa domanda non è semplice, il dibattito è più che acceso e nei prossimi mesi farò del mio meglio per aggiornare i lettori de La Rassegna in merito alle ultime news sul Brexit. Iniziamo dal nome. Il mondo anglosassone ama le parole brevi e le abbreviazioni. Hanno già pensato a una parola facile da ricordare e usare sugli slogan. Ieri l’annuncio, da molti vissuto come una pugnalata alle spalle, del sindaco di Londra Boris Johnson che si schiererà per lasciare l’Europa. Strano per il sindaco della città più  internazionale d’Europa, con un padre dal passato da europarlamentare e un educazione da classicista. La reazione dei mercati non si è fatta attendere, con la sterlina crollata a picco sul dollaro e che tocca il valore più basso degli ultimi sette anni. Gli analisti delle grandi banche hanno espresso le loro posizioni, e preferenze: se per Deutsche Bank e Moody’s (l’agenzia di rating) è meglio restare, i loro colleghi di UBS, Citi ed HSBC non si sono sbilanciati, limitandosi a parlare dei rischi legati ad un’uscita.

I leader delle grandi aziende quotate in borsa sostengono la posizione del primo ministro David Cameron, e sono ormai oltre cento gli amministratori delegati che ci hanno messo la faccia, e un terzo di loro ha anche firmato una lettera ufficiale, che verrà pubblicata martedì dall’autorevole quotidiano finanziario Financial Times. Tra loro ci sono Vodafone, EasyJet, Shell, GSK, Brtish Telecommunication, WPP, la più grande agenzia al mondo di pubblicità. E ne vedremo molti altri nelle prossime settimane. I due schieramenti corteggiano infatti i grandi brand, che hanno più impatto dei partiti politici sugli elettori. Ci si aspetta inoltre che i Leavers – ovvero quelli che vogliono la Brexit – faranno di tutto per creare divisione tra le grandi aziende e quelle piccole. Come nel caso del referendum in Scozia, dove i secessionisti rivendicavano il ruolo di portavoce dei piccoli negozianti e commercianti, dei piccoli imprenditori, in opposizione alle multinazionali governate dalle élite.
Cameron ha presentato l’accordo stabilito a Bruxelles la scorsa settimana, chiedendo il sostegno del parlamento per rimanere in Europa, evidenziando il fatto che, in caso di dipartita dall’Europa, l’economia ne soffrirebbe, la disoccupazione aumenterebbe e il paese sarebbe meno sicuro davanti alle minacce del terrorismo e della Russia. Vedremo cosa accadrà nelle prossime settimane, se il sindaco Boris Johnson riuscirà a creare un seguito popolare, o se sarà’ la City a decidere il destino di questo voto.

 


Se il consumatore fa i conti col picco dell’eccesso

iphone ipadI consumatori stanno perdendo il gusto di fare acquisti. L‘appetito del consumatore, che si pensava insaziabile, sta prendendosi una pausa, forse di riflessione. Non lo dico io, ma giganti come Apple e Ikea, che rappresentano il pinnacolo del consumismo degli ultimi dieci anni. Oggetti belli, utili e a cui ambire nel caso di Apple, accessibili e democratici nel caso di Ikea. Guardando agli ultimi risultati pubblicati qualche settimina fa dal gigante di Cupertino, le vendite di Iphone sono stagnanti, mentre quelle di Ipad, sono passate dai 21 milioni del 2014 ai 16 milioni del 2015.  Ikea, che ci ha venduto candele e accessori per la casa, quando invece volevamo comperare solo un paio di mensole, lo ha capito prima degli altri. Sa che le nostre case, probabilmente più piccole di quelle in cui abitavano i nostri genitori, sono ormai piene di candele, tappeti e appendiabiti, magari proprio targati Ikea. Sanno che, per continuare a venderci nuove librerie Billy e divani letto con nomi di tennisti svedesi, ci devono aiutare a disfarci di quelle precedenti. E visto che  un mobile Ikea non sopravvive ai traslochi, e soprattutto, una volta montato, non può essere smontato e rimontato in una nuova casa (e qui parlo per esperienza personale), ha pensato di offrire un servizio di riciclo, che verrà presto lanciato nel nostro continente.

Ormai sembra che solo i paesi in via di sviluppo vogliano comperare ai ritmi serrati con cui compravamo venti o trent‘anni fa. I migliori capitalisti hanno sempre saputo che le società inique non sono un terreno fertile dove fare affari e crescere, per questo Henry Ford decise di pagare bene, e di gran lunga al di sopra della media, i suoi operai. Da questa settimana Walmart, la catena di supermercati più grande degli Stati Uniti, ha iniziato a pagare un minimo salariale di dieci dollari all´ora ai suoi 1.4 milioni di dipendenti. In termini economici, si tratta di un passaggio degli introiti dal capitale alla forza lavoro. Visto che Walmart si trova sulla stessa barca di Ikea e Apple, con i consumi stagnati e, per certi prodotti, con il segno meno, ha quindi deciso di dare un incentivo ai propri dipendenti, rendendoli più motivati, e probabilmente felici. Con questa mossa, fa inoltre capire ai propri clienti, milioni e milioni in tutta America, che le loro spese quotidiane non vanno ad arricchire soltanto gli azionisti, ma servono a migliorare la vita di chi riempie gli scaffali e sta alle casse.  Quando le società occidentali erano povere, rispetto ad adesso, gli economisti si concentravano su come stimolare i consumi e come produrre maggiori quantità di beni. Oggi la domanda che i consumatori si fanno davanti ad un acquisto è spesso: “mi renderà felice?”. Molti di noi hanno lavori che non rendono soddisfatti, che servono a comperare il nuovo tablet o pagare le vacanze. Oggetti o esperienze che hanno lo scopo di rendere sopportabile la nostra esistenza, non certo di migliorarla o di farci, magicamente, fare cose interessanti sul lavoro, o avere un impatto positivo sugli altri.

 


Londra mette a confronto Grecia e Impero romano. E l’Italia la spunta

Mi sarebbe piaciuto essere parte del pubblico in sala ad un dibattito che si è tenuto alla fine dello scorso anno sul tema “Grecia contro Roma”. Organizzato da Intelligent Squared, un’organizzazione culturale che mette insieme temi di attualità e opinionisti di spicco, a volte in forma di dibattito, altre volte in stile tavola rotonda. Questa volta si è trattato di un dibattito, di quelli che piacciono tanto agli americani e che vedremo presto in preparazione alle loro elezioni. Il tema era: chi ha portato maggior contributo alla società moderna occidentale, i romani o i greci? Letto da noi, potrebbe sembrare una domanda che viene posta agli studenti dell’ultimo anno di liceo classico o che potrebbe fare da sfondo ad una discussione semi-intellettuale da circolo letterario di provincia. Invece ha attratto grandi numeri, e lasciato molti interessati a bocca asciutta.

GreeceVsRomePartiti con mille posti a sedere, gli organizzatori, alla luce dell’interesse da evento sportivo, hanno spostato l’appuntamento in un teatro da 2.200 posti, venduti in poche ore, nonostante i biglietti fossero alla cifra non proprio abbordabile di 50 pound (circa 60 euro). Mi sono quindi aggiunta alla lista d’attesa, ma ancora senza successo. A dibattere non erano due sconosciuti o accademici noti solo agli addetti ai lavori, ma il sindaco di Londra, Boris Johnson, classicista laureato a Oxford, e Mary Beard, professoressa di cultura classica a Cambrdige e divulgatrice, che con i suoi programmi di successo su questa materia per la BBC, e un paio di best seller, ha risvegliato l’interesse del grande pubblico su Roma e l’impero romano. Altri autori hanno pubblicato libri di grande successo sempre su questi temi, negli ultimi mesi, a cui si sono aggiunti spettacoli teatrali, altri show televisivi e un vero e proprio festival della classicità in un teatro un po’ d’avanguardia.

Insomma, tutti gli indizi per stabilire che è davvero il momento dei classici. Ma perché proprio adesso?  La risposta non può essere soltanto che una manciata di nomi noti abbia deciso di cavalcare il tema dell’antichità e abbia divulgato il proprio sapere al grande pubblico, fuori da università e circoli di latinisti e grecisti. Quello che stupisce è l’interesse per questi temi, lingue e civiltà in un paese dove il nostro caro, e spesso considerato anacronistico, liceo classico non esiste e dove queste lingue morte sono insegnate, quasi esclusivamente, nelle scuole private, con una connotazione elitaria molto accentuata. E dove l’istruzione media, o universitaria, non include lo studio del latino. Non è infatti un caso che gli organizzatori di Intelligent Squared, con una bella manovra di pubbliche relazioni, abbiano stabilito di devolvere il ricavato dei biglietti all’associazione Classics for All, che si occupa di introdurre Latino e Greco nelle scuole statali.

Il dibattito tra Roma e Atene ci ha ricordato come i greci amavano assimilare e assorbire le idee dei popoli vicini, che i romani stabilirono per primi l’idea di garantire asilo ai rifugiati e dare lo stato di cittadini dell’impero ai popoli che colonizzavano. Sarà forse per questo, per la magnanimità degli antichi romani, che il pubblico ha deciso di assegnare la palma della vittoria a Roma, con un 56 per cento di preferenze a fine dibattito. Probabilmente senza rendercene conto, migliaia di anni dopo che Roma e Atene resero il mondo un luogo più piccolo e dai confini ben definiti, noi spettatori stiamo facendo qualcosa per ripagarli del nostro debito nei confronti del loro contributo alla nostra civiltà. Come so come è finito il dibattito? Sono riuscita a guardarlo in streaming.

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