Una bergamasca a Londra  /   Lavoriamo troppo? Forse sì, ma rendersi indispensabili è decisivo

Una bergamasca a Londra / Lavoriamo troppo? Forse sì, ma rendersi indispensabili è decisivo

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Lavoro Working Hard .Dopo dieci anni o poco più di lavoro capisco mio padre e le sue lunghe ore trascorse in ufficio. Rare le occasioni in cui arrivava a casa prima delle 8.30 di sera. Adesso è il mio turno, con la differenza che le mie giornate finiscono ancor più tardi e il lavoro inizia quando bevo il primo caffè e controllo le mail arrivate durante la notte dall’Australia, Singapore o qualche altra parte dell’America. Lavoriamo tanto, troppo? Credo di no. Siamo sempre collegati? Sì. Ci piace? Direi di sì. Da poco più di un anno lavoro per un’azienda americana, dove mi confronto con colleghi stacanovisti e colleghe che prendono tre mesi di maternità, tra prima e dopo l’arrivo del bebè. Come loro, un terzo degli americani laureati lavora almeno 50 ore la settimana, e professionisti di élite, come gli avvocati d’ affari, ne lavorano 70 in media, con solo tre settimane di vacanze l’anno. Insomma, gli piace lavorare. Le statistiche su Cina e Giappone fanno tremare. I colleghi giapponesi e coreani sono spesso in ufficio alle 2-3 di notte. Cenano a casa, e poi tornano in ufficio. Si sta realizzando l’opposto di quanto aveva teorizzato poco meno di cento anni fa l’economista inglese John Maynard Keynes, che negli anni ’30 pensava che la società occidentale sarebbe stata così ricca da permettersi di lavorare solo 15 ore alla settimana. Certo, lo diceva in un momento storico in cui c’erano tutti gli indizi per pensarla così: le ore degli operai in fabbrica erano 60 alla settimana all’inizio del secolo, scese a 40 all’inizio degli anni ’50. Non era quindi strano pensare che, a breve, le proporzioni tra tempo libero e lavoro si sarebbero scambiate.

Questa tendenza ha continuato il suo corso negli anni ’60, per poi avere una brusca battuta d’arresto nei ’70 quando, con l’introduzione di tecnologie e macchinari, il contributo dei colletti blu non è più indispensabile come qualche anno prima.  I lavoratori, specialmente operai, si ritrovano a dover accettare salari più bassi, mentre i dirigenti si concentrano sul taglio dei costi. Il sogno delle 15 ore settimanali di Keynes svanisce, e si capovolge: oggi siamo sempre collegati, non siamo mai “out of the office”, nemmeno su un isola in mezzo all’oceano. Basta avere Iphone o BlackBerry, un caricatore e possibilmente una connessione wi-fi. La tecnologia, che tanto amo e da cui tanto dipendo, ha reso l’intero mercato del lavoro più competitivo. Un tempo la vita era quello che accadeva al di fuori del lavoro, mentre oggi è quello che accade sia tra le mura dell’ufficio e tutte le attività che vi ruotano intorno. Il senso di gratificazione viene da quello che facciamo, che sia disegnare e fabbricare un abito, scrivere un articolo, lanciare un app, o chiudere un affare. Il lavoro è come una nuvola, con dei confini non ben definiti, dove inevitabilmente ci capita di mescolare vita privata e professionale, esponendoci così a persone e idee interessanti. Costruire una carriera oggi significa diventare indispensabili. Esseri indispensabili significa immergersi nel proprio lavoro, nel proprio network, nel proprio gruppo di colleghi e clienti, trovando motivazione e un senso a quello che facciamo. Ecco perché capisco mio papà, e le sue lunghe ore da libero professionista passate in ufficio. Faceva già tutto quello che faccio io ora, solo non aveva l’Ipad.

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