Così Uber mette all’angolo anche i mitici black cab

Black_London_CabIl black cab sta a Londra quanto la regina sta a Buckingham Palace. Non stupisce che al lancio di Uber i taxisti abbiano protestato ferocemente, paralizzando la città a più riprese. Nonostante le critiche, il business invece fiorisce e prolifera. Con 500mila utenti, 7mila autisti impegnati quasi a tempo pieno, Uber, che ha appena raccolto investimenti per oltre 5 miliardi, fa rosee previsioni per il futuro, prospettando di arruolare fino a 4.2000 autisti nei prossimi 18 mesi. Si tratta di un affare serio, i numeri sono di peso, anche se gli utili non sono ancora maturati. Il successo di questo servizio è facile da spiegare: Uber è conveniente ed è semplice. Il consumatore guarda alle proprie tasche e alla praticità del servizio. Nonostante queste premesse, Uber gode di una fama non sempre brillante, e non solo tra i taxisti degli iconici taxi neri. I motivi vanno dal suo investitore, la banca d’affari più aggressiva al mondo Goldman Sachs, la sede fiscale in Olanda, le corse che a volte costano ben più del preventivo, il sospetto di sfruttamento dei guidatori, che vengono pagati il minimo salariale o anche meno, controlli non sempre accurati sulle abilità al volante dei propri impiegati.

Segue poi l’accusa di gestire in modo improprio i dati che raccoglie sui percorsi e i suoi utenti, ma lo stesso commento si potrebbe scagliare contro molte altre azienda, con Google e Facebook in pole position. Uber suscita domande scomode sul futuro della nostra economia, a cui non abbiamo ancora trovato risposte convincenti. Domande simili a quelle che nascono dall’ascesa di Amazon o I Tunes. Questi prodotti o servizi vengono chiamati in inglese disruptive, che a noi suona un po’ come distruttivi. E lo sono, perché minano come un terremoto lo status quo. Chi ha vissuto negli ultimi dieci anni nei quartieri residenziali e fuori dal centro benedice l’avvento di Uber, che ha reso la vita molto più facile a chi non può permettersi un appartamento in zona 1, o vivere particolarmente vicino a una fermata della metropolitana. Ai vecchi tempi, se si voleva prendere un taxi la notte per trasportare qualcosa di ingombrante, i famosi black cab spesso si rifiutavano, come declinavano la corse per i passeggeri diretti a Brixton, o più in generale a sud del Tamigi. Non è più cosi, visto che gli autisti di Uber sono ben disposti ad andare nei quartieri periferici, perché sanno che non gli sarà difficile trovare clienti per il viaggio di ritorno. Intanto i taxisti non si arrendono e si stanno organizzando con nuove app che faranno concorrenza a Uber. Stiamo a vedere che cosa accadrà nei prossimi mesi.


Se i brand del lusso scoprono il “traino” del museo

SAATCHI-GALLERY ChanelIl pubblico fa le code per vedere borsette, cinture e foulard. Non per comprare in saldo, solo per guardare. Sembra un controsenso, vetrine e negozi sono accessibili a tutti, non solo a chi compera.

Invece i brand del lusso che sembrano avere in mente solo sceicchi e magnati della Cina quando assegnano i prezzi ai loro prodotti, si sono inventati un nuovo modo per aumentare la desiderabilità dei propri prodotti e farli circolare, o meglio vedere, in foto e come oggetti assoluti del desiderio. La Saatchi Gallery di Chelsea ospita in queste settimane una mostra intitolata Mademoiselle Prive’, uno show dal grande budget, ultimo esempio di grandi marchi di moda che si impongono nel mondo della cultura. Mademoiselle Prive’ è la quarta mostra di Chanel. Il primo passo venne affidato all’architetto Zaha Hadid nel 2008, con una capsula chiamata Mobile Art. Doveva fare il giro del mondo ed essere messa in mostra in molte città. Poi accadde la crisi globale del 2008, mettendo un freno a questi piani commercial-creativi. Si trattava di un progetto precursore dei tempi, che debuttò un anno dopo il lancio dell’i-Phone, appena prima che i social media cambiassero completamente il modo in cui consumiamo notizie e il modo in cui i brand vendono alla propria clientela. Questo nuovo show sembra invece concepito apposta per la generazione Instagram, con la merce allestita in modo perfetto per essere fotografata da uno smartphone e per essere condivisa.

Se Chanel entra nei musei, Luis Vuitton non perde tempo. Si è appena conclusa un’altra mostra a cura della casa di moda francese dal titolo Series 3, che ha messo semplicemente in mostra la collezione autunno/inverno 2015, ovvero quella corrente. Aperta durante la London Fashion week, ha collezionato oltre 100 mila visitatori in meno di un mese. Lo stesso è avvenuto a Parigi a qualche giorno di distanza, quando Hermes ha presentato la collezione della prossima stagione in una mega installazione dal nome evocativo Wonderland, ovvero il Paese delle meraviglie.

La stessa installazione è poi passata da Londra, ancora una volta alla Saatchi Gallery, ancora una volta con code come se regalassero i famosi accessori di pelle. Quel che accomuna questi allestimenti – curati in ogni particolare – è il fatto che tutti puntano l’attenzione sul lavoro manuale e artigianale che concorre alla realizzazione di ogni pezzo, cercando di elevare questi prodotti a forme d’arte. Associare arte e artigianato serve a rafforzare il senso di creatività, arte ed estetica di un prodotto di lusso. Chi acquista un prodotto compera un’esperienza, un retaggio culturale, una tradizione di cui entra a far parte. Ed è disposto a pagare di più per il piacere dell’esperienza.

 


Che fortuna essere un italiano nella capitale inglese

LondraChe a Londra ci siano molti italiani non è una novità. Che tutti questi italiani pensino di essere gli unici a parlare una lingua esotica e poco conosciuta, è qualcosa che non smette mai di stupirmi. Quante volte, in giro per strada, sui mezzi pubblici, nei bar, mi è capitato di sentire conversazioni a voce alta, con pensieri e commenti che solitamente si tengono per sé, o si sussurrano a voce bassa. Commenti, lamentele, giudizi, apprezzamenti volgari. Tutto senza filtri, con la sicurezza che “tanto nessuno mi capisce”. Invece gli italiani a Londra sono 500 mila, e questo numero è per difetto. Tanti sono quelli regolarmente registrati con l’AIRE, in migliaia non vengono inclusi in questa statistica. Un paio di volte, armata di coraggio sono intervenuta, senza ribattere i loro commenti, solo ricordando loro di non essere gli unici capaci di parlare e capire l’italiano. In entrambi i casi, i responsabili avrebbero preferito sparire. Di certo li ho fatti arrossire e sono pronta a farlo ancora. Nella città dove essere eccentrici non desta scompiglio, dove indossare un tutù per andare a comperare il latte o aggirarsi per il centro con due pappagalli sulle spalle non crea imbarazzi, i commenti e le opinioni non passano inosservati.

Fortunatamente noi italiani ci distinguiamo per molto di più delle opinioni forti, espresse ad alta voce. Nella ristorazione, abbigliamento e cosmetica, oltre che naturalmente architettura e design, il passaporto Italiano apre porte ed è visto come un sigillo di qualità. Le cucine e i bar parlano italiano, i negozi di vestiti e i saloni dei parrucchieri non sono da meno. Tanta manodopera giovane e intraprendente trova lavoro nelle grandi catene di ristorazione e caffetterie, dove essere straniero è un punto di forza. Parlando con il direttore di un grande albergo, mi spiegava che la sua catena di hotel a cinque stelle impiega esclusivamente certe nazionalità per certi servizi: gli italiani in cucina, gli spagnoli alla reception. Non mi stupisce.

Mostrare la propria nazionalità, anche con un po’ di orgoglio, è divenuta una cosa comune in tanti settori dove l’interazione con il cliente è importante. Un tempo riservato alle boutique di alta moda, dove commessi in divisa indossavano una targhetta con la bandierina della lingua parlata, la spilletta con la bandierina viene ora utilizzata largamente in molti bar, caffetterie e fast food. In una città che parla tantissime lingue, è un modo in più per far sentire il cliente a casa. Non importa se anche solo per un caffè. A volte il badge non serve: non appena gli italiani aprono bocca, li si riconosce subito. Il nostro accento è apprezzato ed è facile da individuare, ma impossibile da sradicare. Ci battono solo gli spagnoli, con cui a volte ci confondono.

Per quanto riguarda la mia esperienza diretta, chi mi taglia i capelli è di Bergamo, mentre la manicure è curata grazie ad una ragazza di Brescia. Ogni volta che visito il salone in cui lavorano, mi accorgo di non essere l’unica italiana. Non sono l’unica a cui piace sentire la voce di casa.

 

 


Il rito del tè inglese ora “seduce” anche i salutisti

téQuello che tiene uniti gli inglesi non è la regina, ma il tè, seguito dal cricket. Nessuno li disprezza, molti li amano, la maggior parte li accetta. Il tè è parte della vita quotidiana tanto quanto la tazzina dell’espresso lo è in quella italiana.

I numeri non mentono. Gli inglesi bevono una media di 165 milioni di tazze di tè al giorno ed il 98% di questi vi aggiungono del latte. Provate a chiedere una fettina di limone e vi guarderanno come se aveste chiesto il sale al posto dello zucchero. Insomma, se smettessero di bere tè, gli inglesi soffrirebbero di disidratazione.

Durante il mio viaggio in India uno dei momenti più memorabili è stata la visita ad una piantagione di tè, dove la nostra guida ci spiegava come lì venisse raccolto e prodotto esclusivamente “tè felice”, spiegando che il raccolto di fronte a noi sarebbe stato venduto all’asta, a Cochin e Guwahati in India, ma anche a Colombo in Ski Lanka, Limbe in Malawi e Jakarta in Indonesia. Non avevo proprio idea che questo prodotto venisse smerciato ancora come in epoca precoloniale. Pensavo andasse direttamente alla fabbrica, impacchettato e poi distribuito. Invece si vende all’asta, e chi compra deve negoziare fino all’ultima foglia.

Poi noi lo vediamo impacchettato in modo più o meno elegante, venduto a caro prezzo da Harrods e Fortunum and Mason o attraverso i supermercati e la grande distribuzione a prezzi molto accessibili. I turisti continuano ad acquistare le belle scatolette di metallo contenenti la miscela, irrinunciabile souvenir anche nel mondo della globalizzazione.

Pur godendo di ottima salute, e continuando ad influenzare l’immaginario popolare, il tè e le sue varianti ai vari sapori si sono evoluti molto negli ultimi anni.

La frenesia per cibi e bevande salutari ha fatto impennare il consumo di tè verde, specialmente tra donne e giovani. I dati parlano chiaro: una tazza su otto non è più di tè tradizionale, ma di una miscela verde o alle erbe che promette benefici per la salute. La caccia agli antiossidanti passa da quel che beviamo.

Negli ultimi due anni sono fioriti, specialmente nella zona est di Londra, bar specializzati in questa bevanda, da servire come cocktail, e quindi mescolati con alcol, o come Bubble tea, un drink asiatico da bere freddo con dei grani di tapioca. Bello da vedere, ma non sono sicura in fatto di gusto. Nel centro di Londra e nei grandi alberghi il rito dell’afternoon high tea si celebra a ritmo serrato, con prenotazioni e liste d’attesa per ogni giorno della settimana, dalle tre alle sette di sera. I turisti lo amano, affascinati dal rituale fatto di torte, pasticcini e tramezzini presentati in modo impeccabile, come in una commedia di Oscar Wilde.

Non solo più il tè delle cinque.

Sono inoltre spuntati molti nuovi brand, alcuni ancora di nicchia, altri che hanno conquistato un pubblico ampio e in crescita, che fanno leva su un consumatore giovane, informato e sensibile all’ecologia: dal tè etico di Hampstead Tea, coltivato senza sfruttare i braccianti e l’ecosistema, all’australiano T2, con un packaging accattivante e boutique simili a negozi di design, a Kusmi, costoso ma buonissimo, al più sofisticato e francese di Mariage Frères.

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Se il dipendente si muove l’azienda risparmia

runningViviamo in un mondo dove tutto e tutti sono sempre più connessi. Tutto questo ha delle implicazioni sempre più visibili nel lavoro e nella società. L’ultima iniziativa tecnologica, a cui sto partecipando, ha preso il via all’inizio di questa settimana, dopo essere stata annunciata un mese fa. Si tratta del Global corporate challenge o GCC per farla breve, ovvero di una sfida senza confini a cui stanno partecipando migliaia di grandi e medie aziende. L’obiettivo è incentivare la forza lavoro ad essere più dinamica, muoversi di più e, obiettivo finale, stare meglio. La mia azienda ha subito aderito a questo progetto, iniziando a battere i tamburi e incentivare la forza lavoro o creare squadre da sette elementi, meglio se con colleghi di altri uffici e non con il vicino di scrivania. A poche ore dal lancio, i più sportivi avevano già fatto squadra. A tre giorni l’80 per cento dell’azienda era arruolata.

Un paio di settimane fa é seguita la distribuzione di piccoli pacchetti regalo, dal design innovativo e moderno. All’interno un contapassi, anzi due, nel caso il primo vada perso o dimenticato. E poi l’invito a scaricare l’app dove registrare i propri passi, o altre attività come il nuoto o la bicicletta.

Obiettivo: fare almeno diecimila passi al giorni, meglio ancora superare il traguardo. Tutto conta. Diecimila passi sono circa sette chilometri e mezzo, una distanza del tutto relativa. E’ passata meno di una settimana e l’entusiasmo vince: tutti parlano di quanti passi hanno collezionato il giorno precedente, della posizione del proprio team in classifica e di nuovi obiettivi nel campo del fitness. Quello che più mi ha stupito è osservare quanti dei miei colleghi, per lo più uomini, giovani, sportivi e competitivi, abbiano sentito il bisogno di andare oltre il contapassi e regalarsi un braccialetto tecnologico che monitora il sonno, a frequenza cardiaca, e registra automaticamente i risultati. Chi ha il contapassi, deve invece ricordarsi di registrare i dati manualmente alla fine di ogni giornata. Ho come il sospetto che dietro a questa iniziativa ci siano Garmin, Nike e altri produttori di braccialetti sportivi.

Mi chiedo quale sia il vero motivo di questa improvvisa mania per lo sport e il movimento, specialmente nel settore finanziario, dove fino a poco tempo fa si facevano affari davanti a numerose bottiglie di vino e pranzi interminabili. La prima è che le aziende pagano a caro prezzo le polizze sanitarie private. Se la forza lavoro è in forma, è più facile che abbia meno bisogno di frequentare medici e fisioterapisti. La seconda è che ormai dimostrato che esiste un rapporto proporzionale tra produttività, livelli di stress e sonno. Insomma se l’impiegato sta meglio, lavora meglio, produce di più, si ammala di meno e costa di meno. Se queste iniziative funzionano e rappresentano davvero un risparmio sul lungo termine, lo sapremo solo tra qualche anno, quando ci saranno dati rilevanti che permetteranno di tirare le somme. Nel frattempo io e il mio team ci stiamo divertendo. Oggi ho fatto 4706 passi, sono solo le 10.30, già a metà del mio percorso.

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Perché qui la febbre dell’Expo non è salita

LondraCi sarà cibo, design e cultura. La stampa inglese non ha dato spazio all’apertura dell’Expo 2015, forse troppo preoccupata dell’arrivo della principessa Charlotte e a fare pronostici sui nomi della bambina. Come al solito le cattive notizie viaggiano veloci e i disordini di alcuni giorni fa, hanno risvegliato l’attenzione dei corrispondenti dei giornali inglesi dall’Italia, che non hanno risparmiato righe di inchiostro per descrivere i disordini dei no Expo, che stentano a comprendere. Non tanto che ci siano i manifestanti, quanto che le autorità cittadine autorizzino una manifestazione in un momento come questo.

Oltre a cibo e vino, gli inglesi visualizzano l’Expo come un Salone del Mobile al quadrato, arricchito dal bel canto di Andrea Bocelli e della musica sublime del pianista Lang Lang. Se poi a questo si aggiunge la mostra dei disegni di Leonardo da Vinci a Palazzo Reale, e i musei-fondazioni aperti dalle case di moda italiane, e le memorie del Salone ancora fresche nella mente, Milano si presenta come il luogo dove, in questo momento ed in Europa, accadono cose, e sono interessanti.

Nelle ultime settimane, dopo lo choc provocato dalla sparatoria al tribunale, abbiamo visto non soltanto l’apertura dell’Expo, con le alte cariche a ripararsi dalla pioggia con i poncho usa e getta, ma soprattutto il maestro Giorgio Armani che festeggia i 40 anni di onoratissima carriera e apre Armani/Silos. La famiglia Prada ha fatto lo stesso, portando a nuova vita un’ex area industriale grazie al lavoro di Rem Koolhaas. La Fondazione Prada ospiterà mostre e darà una nuova casa alla loro estesa collezione d’arte. Stampa e amici della famiglia Prada-Bertelli hanno già curiosato e messo foto e video sui social media, per il piacere e gli occhi di noi curiosi, chi ha reso omaggio a re Giorgio lo abbiamo visto su tutte le gallerie fotografiche dei giornali. Io guardavo e dicevo tra me – I wish I was there!

Ma torniamo all’Expo e ai motivi per cui è passato in sordina. L’assenza di pubblicità e di comunicazione è il primo che mi viene in mente. Mi sarebbe piaciuto vedere qualche pubblicità in giro per Londra, nei luoghi frequentati dagli italiani a Londra e negli aeroporti, magari sulle tratte che collegano Londra a Milano e Bergamo. Mi viene inevitabile pensare al clamore mediatico suscitato cinque anni fa dall’Expo di Shanghai, con tanto di visite ufficiali del primo ministro David Cameron e delegazioni delle grandi multinazionali, in prima linea quella per cui lavoravo io.

L’edizione precedente dell’Expo era stata interpretata dall’Inghilterra come un’occasione per rinforzare gli accordi commerciali con la grande Cina. Se poi ci mettiamo che svariate archistar inglesi quali Thomas Heatherwick e Norman Forster ne avevano disegnato gli spettacolari padiglioni, si capisce che la stampa e l’opinione pubblica, avevano dei motivi di larga scala per interessarsi. Non dimentichiamoci anche che l’Expo in Cina era costato oltre 15 Miliardi, mentre quello di Milano non supera i 3. Stiamo a vedere che succede, per me Milano ha tutte le carte in regola per stupirci.

Alessandra Canavesi

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La coperta troppo corta della “Generation rent”

apartment rentEssere proprietari della casa in cui si vive non è più la norma per la mia generazione. Tra i pochi che scelgono l’affitto come stile di vita, con meno vincoli, libertà di spostarsi e cambiare città o quartieri, la maggior parte di noi sogna invece un luogo da poter chiamare casa. Una prospettiva inarrivabile per molti, anche mettendo in conto compromessi, quali vivere in zone decentrate, meno costose e in appartamenti di piccole dimensioni. Accade in Italia ed accade anche a Londra. La chiamano generation rent, ovvero la generazione che vive in affitto. Secondo gli ultimi sondaggi, l’82% dei giovani tra i 20 e i 45 anni che non vive in una casa di proprietà, pensa che non riuscirà mai ad acquistarne una. Le uniche possibilità per rivoltare la situazione sarebbero una vincita al lotto o ricevere un’eredità. Insomma, senza un aiuto sostanzioso, che sia la fortuna o uno zio scapolo senza eredi diretti, comprare casa resta un miraggio. Le banche si preoccupano, commissionando sondaggi che mettono in evidenza quello che noi della generazione rent già sappiamo: se la situazione non cambia, non avremo mai bisogno di bussare alla porta della banca per chiedere un mutuo.

Nell’ultimo anno la situazione sembra essersi aggravata. Nonostante il mercato non sia più bollente come un anno fa – i costi delle case a Londra siano scesi lievemente e il numero delle transazioni calate del 30% negli ultimi 12 mesi, il numero delle persone che possono permettersi di risparmiare e accumulare un deposito che garantisca un buon tasso di interesse, è sceso ulteriormente. Il motivo è semplice: il costo della vita. A questo si aggiunge, a parer mio, anche una componente psicologica: se non mi posso permettere di risparmiare per un deposito, tanto vale spendere su qualcosa che mi offra una soddisfazione immediata: vacanze, macchina, intrattenimento in generale.

Ci sono poi i lifestyle renters, giovani che hanno dei salari di livello medio-alto ma che preferiscono la flessibilità e la mobilità – magari per cambiare quartiere e stile di abitazione – anziché investire tutti i propri risparmi per un deposito (che non dimentichiamoci dovrebbe essere del 20-25% per ottenere dei buoni tassi di mutuo).

Una situazione che sei, sette anni fa sarebbe stata improbabile. Chi ha acquistato qualche anno fa, non solo ha goduto di prestiti oggi inimmaginabili da parte delle banche, che offrivano mutui al 110% per coprire anche il costo di acquisto di mobili ed elettrodomestici, ma anche di un costo degli immobili significativamente più basso. Il risultato è che si trova spesso seduto su una miniera d’oro. In certe parti di Londra – oltre ovviamente alle zone centralissime – il valore degli immobili si è quintuplicato. Nessun merito, solo fortuna per aver comperato al momento giusto. Il contrasto si fa ancor più evidente se si tiene conto del fatto che i giovani inglesi – dal dopoguerra fino a qualche anno fa – hanno goduto di condizioni invidiabili e standard di vita, quali compensi e costo della vita, ben più convenienti che nel resto d’Europa.

Subentra poi il fattore culturale: gli inglesi, un po’ come gli italiani, sono ossessionati dall’idea di avere una casa di proprietà. E una volta che l’hanno, la vogliono ingrandire, modificare come nel famoso programma di Sky Grand Design, dove case modeste, ruderi e garage vengono trasformati in loft, residenze patrizie, magari con pannelli solari e autosufficienza energetica.

A differenza della Germania e di altri paesi del nord Europa, dove vivere in una casa in affitto non ha nessuno stigma sociale e la disponibilità di immobili da affittare è vasta e di buona qualità, non si può dire lo stesso di Londra e di gran parte dell’Inghilterra. Purtroppo gli affitti sono spesso alti, di breve termine e offrono soluzioni di bassa qualità per quel che si paga. La coperta è sempre troppo corta per la generation rent.

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Stagisti: raccomandare va bene, a patto che…

Berlin Mitte Is Home To Germany's LobbyistsDopo le vacanze di Pasqua entreremo improvvisamente nell’ultimo trimestre scolastico. Per gli studenti universitari significa soprattutto trovare uno stage estivo nel settore di interesse o dove poter raccogliere informazioni utili per stendere la tesi. Nei miei dieci anni di lavoro ho conosciuto molti intern – come li chiamano nel mondo anglosassone – che hanno trascorso con me e il mio team un po’ di tempo, da un paio di settimane fino a sei mesi. Cosa avevano in comune? Avevano tutti le giuste connessioni. Fortunatamente la maggior parte di loro aveva anche un ottimo titolo di studio, tanta energia e altrettanta dimestichezza con le tecnologie, mescolate a sicurezza in loro stessi. Il dibattito sul fatto se sia giusto o no aiutare chi si conosce – in certi casi i propri familiari – è un argomento sempre attuale. Se potessimo aiutare chi conosciamo e che reputiamo meritevole, non lo faremmo tutti? Io l’ho fatto, per una legge non scritta in cui credo: aiuta e verrai aiutato. L’ho fatto indiscriminatamente? No. Quando ho passato contatti utili, mi sono sempre assicurata che il beneficiario avesse le qualità giuste: un buon titolo di studio, capacità interpersonali, entusiasmo e desiderio di imparare.

Mi è inoltre capitato di lavorare con i cosiddetti raccomandati, figli di investitori, clienti importanti o personaggi influenti, come ad implicare che il servizio al cliente passa anche dall’offrire un paio di mesi di esperienza ai loro eredi. E quando ci si trova in queste situazioni, ad amministrare il tempo e le mansioni di questi stagisti, bisogna sempre muoversi con molta cautela. In un mondo dove il passaparola può determinare molte opportunità lavorative, le connessioni giuste possono fare, o disfare, una carriera. Le storie di “figli di” sono tante, specialmente quando si parla di dinastie imprenditoriali: da Santander, dominata dalla famiglia Botin, a Sky, dove Murdoch senior e i figli si spartiscono le responsabilità direzionali, sono solo i primi esempi che mi vengono in mente.

Reclutare tra chi si conosce, sia famiglia o compagni di scuola o di chiesa, garantisce che le responsabilità ricadano sulle persone migliori? La risposta ovvia è: non sempre. La verità è che il mondo lavorativo anglosassone garantisce spesso un biglietto di ingresso ai privilegiati, ma con una data di scadenza. Una volta entrati, si deve dimostrare il proprio valore per poter restare. Alcune grandi aziende, per proteggersi dall’accusa di nepotismo e favoritismi, hanno adottato delle politiche di reclutamento del personale molto rigorose: chi assume non può vedere il nome completo e la scuola frequentata dal candidato, per non fare discriminazioni di nessun tipo, aprendo la strada al multiculturalismo. Tuttavia questi criteri non sono a prova di bomba.

Esistono poi altri tipi di raccomandazioni, chiamate invece referral: chi si candida per una posizione e compila la propria candidatura on line, è invitato a menzionare il nome di chi si conosce in quell’azienda. In caso di assunzione, il contatto di riferimento si vede riconosciuto un gettone, un bonus che molto spesso vale dai 2 ai 5 mila Pound, soldi che l’azienda avrebbe invece pagato ai cacciatori di teste o alle agenzie di trova lavoro.

Il colosso della consulenza E&Y ha stimato che – su 14mila persone all’anno che si candidano per lavorare per loro – solo l’1 per cento ha un contatto interno, insomma una percentuale del tutto trascurabile.

 

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Il coraggio dei manager che scelgono la “libertà”

project-managerScoprire che il tuo capo guadagna il doppio o anche il quadruplo di te è un’esperienza demoralizzante. Ma quando il divario tra te e l’amministratore delegato ammonta a 440 volte lo stipendio medio di un impiegato, non c’è morale che tenga. Lo scorso anno 10 capi di altrettante società quotate alla borsa londinese si sono spartiti 120 milioni, con una media netta di 12 milioni di sterline a testa, solo in un anno. Chi lavora con loro e per loro si porge una domanda legittima: se li meritano davvero? E se la risposta è affermativa, per quale motivo se li meritano? Se lo chiedono in molti, migliaia di impiegati di queste grandi aziende. Se lo chiede anche chi lavora in proprio o gestisce un business da piccola-media impresa, chi lavora 16 ore al giorno e mette i risparmi personali nella propria azienda, chi non viene portato in giro dall’autista, chi viaggia sui voli low cost e non sugli aerei privati.

Si tratta infatti di aziende quotate in borsa, che devono rendere conto del proprio operato, e dei compensi, agli investitori che – specialmente alla luce di una degli scandali finanziari degli ultimi anni – mettono in discussione i mega bonus dei capi e dei membri del consiglio di amministrazione. Un breve saggio appena pubblicato da David Bolchover (http://www.davidbolchover.com/) autore rispettato di libri economici, smaschera alcune verità. Il saggio si chiama “Fatto su misura. Come le opinioni (sulle performance dei dirigenti) diventano fatti”. Il breve report discute quale sia l’impatto reale e misurabile di un amministratore delegato sulla propria azienda, e si domanda quanto siano rari i capi di successo. Quanto emerge ce lo aspettavamo: non c’è scarsità di dirigenti di alto livello, e sono tutti molto più sostituibili di quanto si pensi e la cima della piramide difficilmente influenza quanto accade alla base.

Purtroppo, in Inghilterra come altrove, il sistema è perpetuato da chi ne fa parte. Chiamala casta, chiamalo old school network, il risultato non cambia: i consigli di amministrazione sono popolati da persone molto simili tra loro, che probabilmente hanno frequentato le stesse università o gli stessi licei, pronti a difendere i propri diritti – e privilegi – corporativi, a spada tratta. Protetti da consulenti esterni e advisor, scelgono chi conoscono e di cui si fidano, inclusi propri successori, selezionati tra chi porterà avanti i loro progetti. Mentre fanno ciò, si assicurano che i loro compensi rimangano intoccati o volgano al rialzo. Con scontento degli investitori, che non hanno molti scrupoli davanti agli alti compensi dei dirigenti quando le cose vanno bene, ma sono molto meno comprensivi quando i titoli scendono.

Come giustificano i propri compensi i diretti interessati? Loro si difendono spiegando i loro compensi sono direttamente proporzionali alla misura dell’azienda che guidano. Quello che però non dicono è che le grandi aziende si avvalgono dei migliori consulenti offerti dal mercato, dai revisori di conti, agli avvocati, agli addetti alla comunicazione, fino alle agenzie di pubblicità. L’unico vero rischio che corrono è quello di essere licenziati, o dimettersi, con una buona uscita che garantisce una pensione per le prossime tre generazioni. Nel caso di un piccolo imprenditore o per chi fonda una start up, il rischio è spaventoso, si chiama fallimento e non garantisce un vitalizio.

C’è anche una terza via, composta da chi decide di scendere dagli aerei privati e cambiare rotta, portando la propria esperienza altrove, mettendosi in proprio o a servizio di start up, con un compenso da minimo sindacale. Ne abbiamo visti molti che – dal 2009 in avanti – hanno lasciato i consigli di amministrazione e l’autista per mettersi  in gioco, a volte anche rischiando. Sono i manager che preferiscono la libertà e l’indipendenza, e la flessibilità di costruire un business senza il vessillo degli investitori. Chi ha fatto questa scelta si è guadagnato il rispetto della società e dell’opinione pubblica.  Non lo stesso trattamento (anche di opinione) riservato a chi siede sulle sedie dei grandi consigli di amministrazione.

 


Disoccupato e sessantenne? C’è una banca che ti cerca

disoccupato02Perdere il lavoro a dieci anni dalla pensione ha il sapore di una sentenza definitiva. E’ una storia dura, triste, che abbiamo sentito ormai troppe volte. Ingiusta, quanto molte storie personali di disoccupazione, comune all’Italia e al sud d’Europa. In Inghilterra soltanto ci sono circa un milione di persone tra i 50 e i 65 anni che sono state lasciate a casa o forzate ad accettare il prepensionamento negli ultimi tempi.

La banca Barclays e la catena di megastore del bricolage B&Q hanno aperto le loro porte a questo gruppo, lanciando un programma di assunzioni riservate esclusivamente a questa fascia di età. In entrambi i casi di tratta di un programma di apprendistato della durata di un anno, speculare a quello, molto comune per le grandi aziende inglesi, per giovani tra i 18 ai 24 anni senza qualificazioni.

B&Q non ha ancora spiegato che cosa accadrà ai neo assunti. A Barclays hanno già le idee chiare: chi verrà scelto, farà la gavetta. Questo programma infatti non garantisce un posto alla sede scintillante dell’head office di Londra, ma nelle retrovie, ovvero le piccole filiali sparse in tutto il paese. Le premesse sono però promettenti: oltre ad un’assunzione a tempo indeterminato e un training esteso, per chi si impegna e dimostra di avere le giuste qualità, unite al desiderio di apprendere, le possibilità di crescere e progredire sono infinite.

Conosciamo bene la storia di chi inizia a lavorare in una filiale come fattorino, e finisce la carriera a dirigere la banca. Nella mia vita ho incontrato una sola persona a cui è andata così. Se fosse ancora vivo avrebbe 105 anni. Per chi è nato dagli anni ‘70 in avanti, è difficile credere alla favola del self made man, quando invece le storie di raccomandazioni e di strade spianate – per pochi fortunati – sono davanti ai nostri occhi quotidianamente.

Il commento dei giornali a questa iniziativa non si è fatto attendere. Hanno infatti puntato il dito contro Barclays, che da alcuni anni a questa parte gode di scarsa fiducia, accusando l’istituto di puntare su questa operazione per edulcorare la propria immagine. I vertici della banca hanno subito smentito, spiegando che la decisione di lanciare questo programma è dettata da motivi strettamente commerciali. Sostengono che gli ultracinquantenni siano una grande risorsa e abbiano qualità, come pazienza e la possibilità di ispirare fiducia, quasi impossibili da trovare in un giovane di 20 anni. Una persona di mezza età ha probabilmente un mutuo, o quantomeno è molto probabile che sappia che cosa significhi fronteggiarne la rata ogni mese. Le chance che un impiegato con qualche capello grigio abbia dimestichezza con l’economia domestica e le spese di una famiglia aiutano a renderlo più empatico nelle relazioni con i clienti della banca. La fiducia è una parola molto importante quando di parla di risparmi e denaro.

Questo schema, lanciato a febbraio, inizierà a pieno ritmo dopo l’estate del 2015. Il messaggio è chiaro: passati i cinquanta, la maggioranza della forza lavoro può non essere all’avanguardia nell’informatica, ma ha accumulato decenni di esperienza, essenziali per garantire il successo nelle relazioni con i clienti e nella risoluzione dei problemi. Velocità e tecnologie sono aspetti fondamentali del progresso, ma l’esperienza resta fondamentale.