Legge di bilancio, una manovra che non brilla per coraggio

Cambiamenti ma senza rottura con il passato in un provvedimento che appare ai più come la solita legge con un articolo e mille commi

La legge di bilancio 2023 stata un’occasione mancata. Per il nuovo Governo per dare un messaggio di novità in linea con il programma elettorale e di creare una discontinuità rispetto alla politica dei precedenti Esecutivi. Mentre Draghi aveva costruito l’obiettivo del suo Governo sulla disponibilità dei fondi del PNRR e quindi sulla necessità di accelerare nelle riforme, il premier Meloni si è dibattuta nell’incombenza di tenere unita la nuova maggioranza e di rendere sostenibile l’azione politica desiderata, problema costante nel passaggio dall’opposizione alla maggioranza di Governo. Il risultato è che l’ultima legge di Bilancio è apparsa ai più come un minestrone già riscaldato molte volte.

Il nuovo Esecutivo ha due grandi attenuanti di non poco conto: l’insediamento nei mesi autunnali che l’ha costretto ad un “tour de force” per evitare l’esercizio provvisorio e la confermata “coperta corta” in un clima di gelida emergenza.

Non solo. Come già avvenuto per i precedenti Governi insediati dopo un rovescio elettorale, in particolare quello giallo verde di cinque anni fa, è mancato tempo per creare nel gruppo di maggioranza quel sistema di competenze necessarie a tradurre in riforme perseguibili i programmi elettorali.

L’ultima clamorosa questione dell’accusa ai benzinai di speculazione sui prezzi della benzina dimostra la cattiva conoscenza del Governo sulle modalità di formazione dei prezzi dei carburanti.

La questione della sanzione per i mancati incassi con pagamento elettronico, annunciata per settimane che sembrava alla rappresentanza un modo nuovo e meno ideologico di affrontare la questione dei pagamenti, è presto rientrata nel nulla di fatto e sparita dai “radar” del Governo.

Alla fine si è in parte osato su certi temi comunque delicati ma senza esagerare: come per la questione del reddito di cittadinanza che per mesi è stato attaccato come elemento nocivo per il lavoro e poi è stato oggetto di un semplice “maquillage” che non ne cambia la natura e nemmeno la sostanza.

Oppure ancora per i voucher del lavoro occasionale, tanto richiesti da imprenditori e familiari che devono gestire punte di lavoro o lavoro occasionale; la legge  ha ampliato la platea dei fruitori e raddoppiato l’importo per beneficiari ma senza spingersi fino al ribaltamento del decreto Gentiloni che nel 2017 ne sancì l’abrogazione.

Infine la quota “103” per la pensione, che sembra la striscia della quota “102” di un anno fa, sempre nella speranza che non prosegua troppo per i malcapitati lavoratori precoci e che risulta ai più troppo poco coraggiosa rispetto alla famosa quota 100 del decreto di quattro anni, che costituì il reale elemento di “rottura” della Legge “Fornero” e dei rapporti con il direttore generale INPS da parte della Lega.

In mezzo poi tante cose, molte di buon senso e apprezzabili ma nessuna in grado di offrire una soluzione diversa ad un problema già noto. Insomma se formalmente è la solita Legge di Bilancio, con un solo articolo ma quasi mille commi, ci è sembrato che non sia emersa una visione del futuro e soprattutto che sia mancato il coraggio.

Da un Governo che ha i numeri per governare ci aspettiamo di più.

 


Doccia gelata per bar e ristoranti. Il nuovo decreto è inaccettabile

Il decreto legge entrato in vigore il 7 gennaio è inaccettabile. Non solo perché rappresenta l’ennesima doccia gelata per bar e ristoranti che saranno costretti a chiudere il prossimo fine settimana quando invece avrebbero una forte necessità di poter lavorare. Questo provvedimento toglie speranza e rafforza quel senso di mancanza di prospettiva che il governo, più della pandemia, ha contribuito a diffondere. Ricordiamo la pomposa conferenza stampa nella quale era stato richiesto un grande sacrificio agli italiani e soprattutto ai gestori di bar e ristoranti, oltre che dei commercianti di generi non alimentari, costretti a chiudere nel periodo delle feste con l’auspicio di ripartire dopo l’Epifania.

Il colore arancione assegnato a tutta Italia obbligherà bar e ristoranti alla chiusura e a gestire le disdette delle prenotazioni già ricevute. Non è pensabile che si possano aprire e chiudere attività di impresa come se fossero interruttori. Come si può pensare di muovere e fermare lavoratori, comprare e gestire derrate alimentari senza programmazione? Come gestire imprese senza prospettive? Emerge scarsa competenza e molta approssimazione su questioni delicate. Il risultato è che in questa giungla di decreti e provvedimenti i cittadini e le imprese non ci capiscono più nulla, mentre con questo ennesimo decreto la maggior parte dei ristoranti sceglierà comunque di restare chiusa e lo farà in attesa di conoscere quali prospettive il Governo voglia riconoscere loro.

Il DPCM del 3 dicembre si era dato una proiezione di circa un mese e mezzo, fino al 15 gennaio, per capire come si sarebbe evoluta la pandemia chiedendo agli operatori di pazientare in attesa che i dati epidemiologici avessero riportato le diverse aree geografiche in area gialla. Così è stato per la Lombardia e anche per Bergamo i cui indici, suffragati anche da una ricerca dell’Università degli Studi di Bergamo, avevano evidenziato come nella seconda ondata i numeri della pandemia avrebbero giustificato misure meno restrittive.

Eppure Bergamo ha pazientato prima, con la stragrande maggioranza dei commercianti, l’arrivo della zona “arancione” avvenuta il 27 novembre, poi, con i bar e ristoranti, la tanto agognata zona “gialla” il 13 dicembre. Quel sistema che garantiva quel poco di linfa vitale alle imprese commerciali è durato poco, fino all’antivigilia di Natale. Eppure da quel 3 dicembre, data dell’ultimo DPCM, la situazione sanitaria è nettamente migliorata almeno per quanto riguarda il nostro territorio.

Il Governo italiano ha lanciato prima come novità e difeso pubblicamente poi questa sua impostazione “a colori” che, diciamocelo, ha fatto sorridere l’Europa e mosso l’ironia delle comunità dei social. Peccato che se proprio il Governo ne ha sancito il successo oggi lo sta già sconfessando. Se il Decreto legge del 18 dicembre, quello per il Natale, è stato giustificato dall’Esecutivo dall’esigenza di evitare spostamenti e assembramenti nel periodo natalizio, posizione criticabile perché i pranzi e cene sono state fatte comunque nelle case con rischi anche maggiori rispetto ai ristoranti, l’ultimo decreto legge, quello del 5 gennaio, definito come “ponte” verso il nuovo DPCM, non ha nemmeno una giustificazione plausibile. Noi riteniamo che sia il frutto di quel retaggio mentale di parte del Governo che ritiene siano i bar e ristoranti i luoghi del contagio mentre per molti imprenditori e cittadini rappresenti ormai un pericoloso “accanimento terapeutico” verso la categoria.

Più grave ancora è che il Governo abbia già pronto il cambio di criteri o degli indici per far precipitare interi territori in aree a maggiori restrizioni, arancioni e rosse. Come a dire che quando i sacrifici di pochi hanno portato miglioramenti per tutti allora si cambiano nuovamente le regole. Sempre e solo per quelli. Un “gioco dell’oca” nel quale qualcuno torna sempre indietro. Come è pensabile lavorare in questo modo? Si, perché bar e ristoranti non sono solo un servizio per i cittadini ma un lavoro per molti.

Le ordinanze del Ministro della salute che richiamano al primo punto gli articoli della costituzione sembrano cozzare con quanto sta avvenendo a danno di un intera categoria di cittadini e lavoratori. Questi provvedimenti, che si basano su presunzioni di violazione della legge e sull’incapacità dello Stato o di sue parti di far rispettare la legge e quindi le misure stabilite per mantenere il distanziamento, minano il diritto al lavoro di milioni di addetti, titolari e dipendenti delle imprese commerciali e in particolare del settore della ristorazione. Solo nella nostra provincia il settore conta quasi 5.000 imprese e circa 15.000 occupati.

Allora è giusto ricordare quanto recita la nostra Costituzione nei suoi primi quattro articoli “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…..La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità….Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge….La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ebbene a noi non sembra che in un Paese nel quale tutti i settori produttivi possano continuare a lavorare nel rispetto della legge questo non possa avvenire per alcuni. Ci umilia sentir parlare di misure necessarie per evitare nuovi lockdown perché quello che stiamo subendo è proprio questo. Non lo accettiamo e non ci rassegniamo nella denuncia di quanto sta avvenendo alle spalle di molta brava gente.


Lavoro, costruiamo la ripresa su solide competenze

Nel marasma del bombardamento mediatico negativo che giunge sui giovani, già provati dal nuovo lockdown, ogni tanto qualche notizia positiva è da sottolineare.  Che ci sarà posto eccome, a pandemia terminata, per coloro che avranno intrapreso e affrontato con serietà e dedizione il loro percorso di studio. E’ questo il messaggio che emerge dalla giornata del Commercio, Turismo e Servizi del programma delle giornate di orientamento professionale organizzata dal Rotary Club di Bergamo in collaborazione con Ascom Confcommercio.Un confronto avvenuto rigorosamente in digitale ma non per questo meno partecipato con il collegamento di quasi 500 ragazzi delle classi IV degli istituti superiori bergamaschi e con un podcast finale a tre voci, con la testimonianza dell’imprenditore Giovanni Collinetti e del consigliere del club, l’avvocato Francesco Fontana, che con me hanno risposto a raffica alle centinaia di domande che sono giunte via chat. 

I giovani hanno apprezzato il messaggio positivo che esiste senza dubbio per loro un futuro lavorativo e che dipenderà, come del resto è sempre avvenuto, soprattutto da loro.  

I dati forniti sulle prospettive della ripresa del mercato del lavoro sono stati incoraggianti e capaci di ribaltare lo sguardo nefasto di breve termine che, nell’indagine continuativa di Unioncamere e Provincia di Bergamo del mese di ottobre, ha registrato 6.150 nuove assunzioni previste dalle imprese bergamasche a fronte delle 8.350 dello stesso periodo del 2019, con una caduta di oltre il 26%. Ad essere colpiti sono soprattutto il commercio e il turismo settori che, ancora in difficoltà per il precedente lockdown, si sono trovati da poco in un altro terribile stop.

Ed è proprio da questi settori più colpiti, quelli del terziario,  che sono giunti messaggi benaguranti per i ragazzi prossimi  al diploma. Sono i numeri a darci conforto. La previsione dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine, nel quadriennio 2020-2024, di Unioncamere evidenzia gli scenari che si stanno profilando a seguito della pandemia e partendo dalle previsioni sull’impatto del PIL nel 2020 e 2021 del Governo italiano, Banca d’Italia, ISTAT, FMI e Commissione europea tracciano uno scenario di base (ottimistico) e uno scenario avverso. In entrambi i quadri la ripresa della crescita dell’economia avverrà dal 2021 e da lì, al netto di quanto registrato in termini di fuoriusciti dalle imprese non appena scaduto il termine del divieto di licenziamento, partirà la risalita. Saranno soprattutto il settore pubblico con i pensionamenti accentuati con “quota 100” ad avviare una campagna di sostituzione di forze lavoro. 

Lo studio evidenzia un fabbisogno di nuove risorse lavorative che andrà dal 2020 al 2024 dai 2,0 milioni circa nello scenario avverso e di oltre 2,6 milioni di fabbisogno occupazionale sia per la domanda di rimpiazzo dei pensionandi sia per domanda di espansione, sia per il settore pubblico e privato sia per dipendenti che per i lavoratori  indipendenti. 

Venendo al fabbisogno di laureati, lo studio evidenzia un fabbisogno totale nei 5 anni che, distribuito su ciascun anno, presenta un equilibrio tra domanda delle imprese, 898.300 in 5 anni per 179.700, perfettamente in linea con il numero di laureati che presumibilmente entreranno nel mercato del lavoro, ossia 179.600 l’anno.

Il fabbisogno delle imprese registrerà picchi positivi e negativi ma sarà in linea con l’offerta di lavoro dei giovani. 

Meno per i diplomati per i quali si stima un fabbisogno medio annuo di 180.400 a fronte di 292.300 di offerta annuale. Disastrose sono invece le previsioni per la formazione professionale per cui la domanda sarà nettamente inferiore all’offerta. 

Il segnale per le famiglie e per gli studenti è chiarissimo. I giovani dovranno investire su un percorso di studio universitario. Per i bergamaschi poi la forza delle imprese del territorio costituisce una garanzia. Lo studio incrocia infatti domanda e offerta nazionale dove l’offerta è distribuita su tutto il territorio della penisola, mentre la Lombarda da sola, almeno per il settore privato, concentra la gran parte della domanda di nuovi posti di lavoro. 

Se la strada per chi vorrà studiare è segnata, il percorso dovrà essere coerente. Volendo infatti indagare sugli indirizzi di studio, l’analisi di Unioncamere evidenzia che al pareggio numerico si affiancherà lo scostamento qualitativo tra domanda e offerta. Avvertiremo un deficit della domanda di professioni mediche e paramediche, ingegneristiche, e giuridiche, per le quali potremmo non trovare manodopera qualificata, contro un surplus senza sbocco di studenti dei percorsi economico, linguistico e politico sociale. 

Il titolo di studio non sarà però sufficiente. Nell’entrata nel mondo del lavoro acquisteranno sempre più valore le soft- skill come la flessibilità di adattamento, capacità di lavorare in gruppo, risolvere problemi, lavorare in autonomia e  comunicare correttamente in lingua italiana. Dando per acquisite la conoscenza di una o più lingue straniere parlate in modo fluente. 

Le nuove competenze faranno la differenza. Saranno necessarie competenze ambientali o “green”, ossia le attitudini al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale (richieste secondo la ricerca ad oltre il 60 dei candidati, le competenze digitali di base come l’uso di internet e di strumenti di comunicazione visiva e multimediale (oltre il 56% dei neolavoratori). In particolare si affermeranno le e-skill mix ossia la somma alle competenze digitali di base o della capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici, oppure di saper gestire soluzioni innovative. Queste saranno richieste solo, si fa per dire, al 24% dei candidati, cioè a tutti coloro che occuperanno una fascia altamente qualificata della domanda di lavoro.

In definitiva ,dalla pandemia potremo uscire con un cambiamento epocale del lavoro al quale le nuove leve risponderanno con nuove competenze. In un contesto maggiormente mutevole che richiederà strategie nuove di continuità e cambiamento.

I settori del terziario saranno i primi a recepire il cambiamento come sempre avvenuto. Riprenderanno più lentamente per il grave colpo accusato dal Covid-19 ma con una capacità superiore alla media di generare nuove opportunità.  E queste competenze saranno utilissime per le imprese. 

 

    

        

     

  

    

 


Siamo scesi in piazza per ribadire le ragioni di una categoria calpestata dalle nuove restrizioni

Bergamo ha partecipato con grande orgoglio al flash mob “Siamo a terra”, la manifestazione organizzata da Fipe Confcommercio in 24 città italiane e nella quale Bergamo è stata invitata come luogo simbolo della lotta al Covid. La partecipazione sul Sentierone di numerosi ristoratori, baristi e gestori di pubblici esercizi nella mattinata del 28 ottobre ha rappresentato l’occasione per ribadire le ragioni della categoria nuovamente colpita dalle restrizioni del Governo.

Il motivo che ci ha mosso alla partecipazione non è economico.

Siamo scesi in piazza, pur consapevoli che la partita della chiusura serale era già persa con l’entrata in vigore del DPCM, mentre quella economica aveva già avuto risposta la sera precedente con la pubblicazione del nuovo Decreto Legge.

Ci preme invece il riconoscimento del ruolo delle nostre piccole e medie aziende del settore, calpestate da questa chiusura. Abbiamo portato avanti la nostra iniziativa come battaglia di civiltà. Crea amarezza aver ascoltato che la ristorazione, il commercio nei centri commerciali, la cultura, lo sport e il turismo siano sacrificabili per la “non essenzialità dei servizi”. Peraltro a fronte del riconoscimento che il mondo intero attribuisce alla cucina e all’ospitalità italiana. Cinema e teatro sono insorti quanto noi contro il decreto di chiusura ed hanno alzato il livello di sensibilità dell’opinione pubblica.

Ora i sostenitori delle chiusure spostano l’enfasi sull’obiettivo di limitare le occasioni di contagio. Anche in questo caso con argomentazione opinabili.

Purtroppo le misure stabilite non funzioneranno. Non si fermeranno la socialità e la relazione chiudendo le attività serali senza bloccare a casa le persone. I giovani possono non andare al centro commerciale ma si frequenteranno altrove. Appare strano che i locali chiudano alle 18 e le persone possano circolare (in Lombardia), anche in gruppo, fino alle 23.

Proprio perché siamo convinti che non siano  i locali i vettori del contagio temiamo che la loro chiusura serale non fermerà la curva del contagio. Per quanto detto, si tratta per noi di palliativi. Al Governo non resterà che chiudere il commercio e la ristorazione anche in orario diurno, mandando la gente ad affollare i supermercati e a mangiare insieme negli uffici e nelle aziende prima di pensare a nuove e maggiori restrizioni. Quando l’elenco dei capri espiatori terminerà, occorrerà che la politica faccia nuove scelte.

Prima del nuovo e non auspicabile lockdown che rappresenterebbe il fallimento della politica, dovranno essere affrontati i nodi lasciati irrisolti per mesi: trasporti, scuola e sanità. Su questi punti nevralgici gli imprenditori non c’entrano, mentre sono mancati i decisori politici. Vedremo se qualcuno se ne assumerà le relative responsabilità o se, come sempre in Italia, nessun farà un passo indietro.

Noi nel frattempo abbiamo deciso di protestare nel rispetto dell’ordine pubblico e delle istituzioni. Alcuni ci hanno criticato sostenendo che avremmo dovuto essere più duri e coraggiosi oppure dovremmo fare di più e meglio. Siamo consapevoli dei nostri limiti e cercheremo di essere più efficaci. Attendiamo anche di condividere le proposte di altri. Siamo disponibili a collaborare per altre iniziative che senza strumentalizzazioni politiche aiutino la causa di coloro che stanno subendo i danni della chiusura.

Ringraziamo per ogni contributo economico perché quando si ha “sete”, ogni goccia è preziosa. Il lockdown di marzo ha spinto i piccoli imprenditori ad attingere ai propri risparmi e all’indebitamento bancario. Ora lo spazio sul ricorso alle loro tasche è terminato.

Il Governo ha emanato il Decreto Legge 137 con il tempismo richiesto. Ne prendiamo atto, con l’auspicio che i soldi siano versati sui conti correnti al più presto.

Per la maggioranza degli operatori d’impresa bar e ristoranti sarà tra i 2.000 e i 5.000 euro. Per dignità, non chiamiamolo ristoro. Il contributo, sommato a quello della primavera raggiungerà il 4/5% del volume d’affari annuale e il15/17% del volume dei tre mesi di chiusura totale e parziale dall’impresa.

Pur sgravata dal costo del personale (ammortizzatori sociali per i dipendenti) e dai canoni di locazione (che comunque è in credito di imposta) l’impresa sarà sgravata solo da una parte dei suoi costi fissi e non ci sarà spazio ad alcuna remunerazione del titolare e dei suoi familiari.

Come sopravvivranno durante questo periodo? Sono sempre di più i titolari di impresa che si vorrebbero essere ammessi alla Cassa integrazione riservata ai loro dipendenti.


Quel coprifuoco che spegne il commercio e la ristorazione più che il virus

Lo scontro aperto tra governo e sindaci, con la pubblicazione del nuovo DPCM, ribattezzato anche lo “scaricabarile” sui Sindaci, ha trovato ben presto una linea di convergenza e di rilancio: non si chiudono le piazze, non  si puniscono i trasgressori,  ma si manda a casa tutti alle 23. E a ciò si aggiunge la chiusura dei centri commerciali e delle medie superfici di vendita, per scongiurare assembramenti il sabato e la domenica.

Insomma, tra la richiesta drastica dei diversi comitati Scientifici, composti da luminari, di imporre un nuovo lockdown, è passata una linea comune e condivisa: le Regioni firmano   ordinanze restrittive sul terziario, i Sindaci dei comuni capoluoghi propongono e avvallano soluzioni che non richiedono grandi spiegamenti di polizia e all’orizzonte si intravede- di nuovo- un nuovo DPCM.

Alla fine, purtroppo a pagare è sempre il soggetto debole, in questo caso il commercio. Esistono forse evidenze che il Covid si trasmetta nei negozi e nei ristoranti e non sui mezzi pubblici, in classe o in mille altri luoghi e modi?

Mai come in questa fase esiste una forte discrasia tra quanto riferito dai media che pubblicano interviste e approfondimenti sui rischi sanitari gravissimi che corriamo e quello che la gente pensa e scrive nelle chat, sui  social, che evidenzia come larga parte dell’opinione pubblica valuti le scelte delle regioni spropositate e autolesionistiche rispetto alle necessità.

Dove sta quindi la questione? 

Comitati tecnici scientifici e politici dicono di voler “contemperare le esigenze produttive”, intendendo con questo termine la produzione industriale, l’esercizio dei mestieri e l’erogazione di servizi alle persone e alle imprese, ma in questo elenco non compare il terziario. Deduciamo quindi  che il commercio, la ristorazione l’intrattenimento siano da considerarsi  di “serie B”, ossia siano servizi voluttuari non indispensabili.

Peccato che rappresentino un quarto delle imprese e un terzo degli addetti occupati della nostra provincia.

Le domande che ci poniamo sono queste. Se la situazione è così grave perché allora imporre il fermo dalle 23 alle 5 quando il 95% delle persone in questa fascia oraria è già a casa (e tra queste, molte hanno probabilmente contratto il virus durante il giorno)?

Perché non procedere a misure di lockdown e di isolamento per gli over 60-65 anni, le persone più vulnerabili, come già avvenuto a marzo, con possibilità di uscita all’aria aperta ma a distanza e non in ambienti chiusi?

Perché fermare il commercio e la ristorazione in blocco e non punire solo chi non rispetta le regole?

Forse queste domande, estremamente semplici, sono troppo difficili per la classe politica che ci ritroviamo. Nel gioco dello “scaricabarile” è stata trovata la vittima di turno.  E’ come fermare l’intera edilizia per quelle poche imprese che non rispettano le regole di sicurezza e prevenzione.

Consapevoli di questo, lanciamo qui un appello: smettiamola di annunciare misure restrittive che costano gravissimi danni economici (agli imprenditori e ai loro dipendenti) e di chiedere contestualmente al Governo di stanziare risorse riparatrici. Perché l’esperienza recente ci ha insegnato che alle piccole imprese e ai lavoratori arrivano solo le briciole e a “Babbo morto”.

 


Post Covid, la resilienza (e il gran cuore) degli imprenditori faranno la differenza

L’Italia non è più al primo posto per contagi e morti da Covid da molti mesi. Eppure resta nell’immaginario collettivo planetario il Paese Occidentale dove la pandemia post Cina è iniziata. Bergamo è inoltre il territorio italiano che, per primo e più di tutti, ha pagato a causa di questa emergenza sanitaria.
All’inizio di aprile del 2020, quando Format Research ci consegnò l’Osservatorio semestrale dell’andamento delle imprese, apparse subito chiaro che il contraccolpo economico della pandemia non aveva precedenti.La caduta verticale del clima di fiducia delle imprese era impressionante. La fiducia degli imprenditori nell’andamento della propria impresa calava del – 38,2%, toccando quota 11,6%, il 7,4% in meno del dato nazionale (19%). Mai si erano registrate perdite di questo rilievo in condizioni normali. Con la fiducia cadevano anche gli indicatori dei ricavi, del fabbisogno finanziario (capacità di farne fronte) e dell’occupazione. Dati da bollettino di guerra, più che da economia del tempo di pace.
Da un punto di vista sociale ed economico, dopo il dramma sanitario, Bergamo ad aprile era ancora capitale della pandemia rispetto alla Lombardia e al resto d’Italia e i dati raccolti potevano dipendere ed essere giustificati dalla condizione emotiva degli imprenditori, ancora sotto shock per quanto stavano vivendo a livello umano e familiare. La paura della gente paralizzava anche gli acquisti più necessari.

Sono passati sei mesi, la situazione è certamente migliorata, ma resta difficile. Un recupero economico c’è stato, ma per molti non è sufficiente per dare continuità alla propria impresa. L’incertezza prevale e forte è il disorientamento degli imprenditori. Non ci sono ancora punti fermi sui quali fissarsi per ripartire.
Come sta andando Bergamo rispetto al resto d’Italia? La discesa del PIL e dell’indice dei consumi, non misurati su scala provinciale nell’ Osservatorio di settembre, sono da considerare allineati a quelli nazionali, con il primo dato, quello della ricchezza prodotta, leggermente superiore per la robustezza dell’economia territoriale e il secondo, i consumi, inferiore per la propensione al risparmio che contraddistingue i bergamaschi.

Per il resto l’effetto della pandemia è ancora forte. Nella propensione nel fare impresa, in un territorio che per sua natura ha sempre registrato una forte natalità di impresa, si è registrato il – 59% di nuove attività nel secondo trimestre 2020, rispetto al -41% del dato nazionale, con la punta del – 80% per le imprese del turismo (contro il -59% nazionale).

Sono dati eloquenti e soprattutto non recuperabili nei prossimi mesi. Il nostro timore poi va sulle chiusure delle attività entro fine anno, con una coda che potrebbe amplificare un fenomeno che è già in atto da mesi.

Eppure a Bergamo dove le “macerie” economiche del Covid sono molte, stiamo reagendo. L’Osservatorio di Format Research registra a settembre la risalita del clima di fiducia nella propria impresa che va al 19%, con una proiezione che arriva fino al 28%, contro il 20% (+8%) del terziario italiano. Stiamo recuperando in fretta e corriamo più della media italiana. Il clima di fiducia non sarà forse un fondamentale economico ma è basilare per la tenuta del sistema delle imprese e per la propensione all’attività di investimento delle PMI.

I nostri piccoli imprenditori ci credono ancora. La resilienza e il gran cuore faranno anche stavolta la differenza.


Il lavoro che non c’è metterà alla prova le politiche attive. Siamo pronti?

Quello che stiamo registrando nel lavoro sono le prime avvisaglie delle nuvoloni neri che da tempo si addensavano all’orizzonte. Il presidente di Confcommercio Imprese per l’Italia, Carluccio Sangalli, ha definito l’effetto economico della pandemia come “la tempesta perfetta”. Il nostro osservatorio sulle imprese del terziario realizzato ad aprile con Format Research metta a rischio la sopravvivenza tra le 8.000 e le 15.000 imprese del terziario orobico.

Il lavoro che non c’è è il “palo misuratore” dello sprofondo dell’economia. L’acqua è già molto alta. La pubblicazione del “primo impatto del Covid-19 sul lavoro dipendente in provincia di Bergamo” evidenzia che nel mese di aprile, quello focale per il lockdown si è raggiunto il valore più basso mai registrato del saldo tra assunti e cessati. In due mesi, marzo e aprile, si sono persi nella nostra provincia oltre 6.500 posti di lavoro, quasi tutti riferibili al crollo di tirocini e apprendistati e al termine dei contratti a tempo determinato.

Sta quindi terminando drasticamente un ciclo virtuoso che, iniziato nella seconda metà del 2015, aveva portato il numero degli occupati della Bergamasca ai livelli pre-crisi del 2009, con punte di crescita molto sostenute nel 2017 e nel 2018.

Quanto sta avvenendo è infatti l’arrivo dello tsunami. Il Decreto Rilancio ha esteso il divieto dei licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo per un totale di 5 mesi, prorogando quindi al 17 agosto la scadenza inizialmente prevista dal Dl “Cura Italia” al 17 maggio. Dopo l’estate o al più tardi quando termineranno i fondi per gli ammortizzatori sociali arriverà l’ora della verità. Le previsioni sono nere: il nostro Osservatorio stima la perdita di 49.000 posti di lavoro nel terziario.

Dobbiamo interrogarci se siamo pronti a gestire anche questa emergenza.

Partiamo dagli errori che abbiamo fatto. Eravamo impreparati al lockdown. L’urto della pandemia ha evidenziato a pieno le deficienze strutturali del sistema. Gli ammortizzatori sociali in campo in questi mesi Fis, Cid, Cio non hanno funzionato e la burocrazia ha prodotto costi per le aziende, un lavoro immane per i professionisti e ritardi odiosi nel pagamento dei lavoratori.

Siamo scivolati su quello che doveva essere un semplice atto amministrativo di liquidazione di un assegno ai dipendenti. Senza contare che gli ammortizzatori così come sono concepiti e che abbiamo ereditato dalla crisi partita nel 2009 sono più adatti a un fermo della produzione che a una gestione flessibile della ripartenza da lockdown. Non c’è flessibilità di utilizzo sul personale e questo mette in grave difficoltà, bar ristoranti e negozi. Chiediamo a gran voce una revisione della cassa integrazione, magari con un unico accordo nazionale e un unisco strumento che la renda più moderna. Se la cassa è un sostegno al reddito del lavoratore, allora deve essere (quasi) immediata e non quando il lavoratore è allo stremo; mentre se deve salvare posti di lavoro deve offrire risposte certe di flessibilità agli imprenditori. Infine, deve essere semplice da gestire evitando crisi di nervi tra i professionisti e le associazioni.

Ora la piena prosegue. La partita si sposterà tra qualche mese sulle politiche attive del lavoro che hanno già malfunzionato in periodi di bassa disoccupazione. Tra qualche mese gli enti pubblici e i centri privati si troveranno sott’acqua. Io non credo infatti che i successi occupazionali di questi anni siano il frutto dell’efficienza dei servizi per l’impiego, soprattutto di quelli erogati dai Centri per l’impiego.

Anche qui dobbiamo capire se gli strumenti vecchi saranno adeguati all’emergenza Covid. Non penso.

Per le imprese dovremo lavorare sulla crescita delle competenze, l’innovazione per generare nuovi business a sostegno dei rami d’azienda tradizionali delle Pmi. Questo sarà compito delle associazioni datoriali e del sistema delle Camere di Commercio. Interroghiamoci però già da ora, prima che l’onda arrivi e le tensioni sociali crescano, se il sistema sarà in grado di dare risposte soddisfacenti con formazione, riconversione e collocamento alle tante persone che saranno in seria difficoltà. Forse potremmo fare un po’ meglio.           


Lockdown, economia in caduta libera. Ma Bergamo si rialzerà

Mentre l’emergenza sanitaria sta rientrando si cominciano a delineare i danni economici del lockdown. Bergamo resta suo malgrado al centro del mondo anche per le pesanti conseguenze economiche della pandemia. La ricerca commissionata da Ascom Confcommercio Bergamo a Format Reserch, Istituto di ricerca di Roma, dal titolo “L’Impatto dell’emergenza Covid– 19 sull’andamento delle imprese del terziario mette in luce l’impatto attuale e futuro sul territorio orobico, evidenziando scenari futuri incerti e foschi.  

Secondo lo studio i danni economici del Covid sono gravissimi. Inoltre sono superiori all’impatto subito dalle altre zone d’Italia, pur colpite dalle misure restrittive dei decreti nazionali. Il black out produttivo e dei consumi è stato da noi più lungo per durata ed anche più intenso per restrizioni regionali ed ha picchiato forte sul tessuto economico di PMI già provato da anni di stasi e di crisi.

I numeri evidenziano la realtà. ll calo degli indici della fiducia, dei ricavi, del fabbisogno finanziario rispetto agli stessi dati della ricerca di ottobre 2019 sono talmente impattanti da richiedere nuove scale di riferimento per la presentazione.

Nel terziario, dato per assodato il crollo dei ricavi, lenito dal settore alimentare, tiene per ora il numero di addetti grazie al blocco dei licenziamenti stabilito per decreto. Ma l’emergenza è legata al fabbisogno di liquidità il cui problema prevale oggi sullo stesso crollo della produzione. Nove imprese su dieci registrano un impatto negativo sulla liquidità aziendale e pensiamo che almeno una su tre possa risultare insolvente.        

Sono forti le preoccupazioni sul fronte occupazionale: sette imprese su dieci dichiarano la prossima riduzione del numero degli addetti, più o meno le stesse che oggi stanno utilizzando il paracadute della cassa integrazione. Anche il taglio drastico degli investimenti previsti nei prossimi due anni, che riduce i potenziali investitori a una impresa ogni quattro, rischia di compromettere le posizioni economiche conquistate dal dopoguerra ad oggi.

La ricerca evidenzia il rischio per Bergamo di perdere entro fine anno dalle 8.000 alle 13.000 imprese del terziario e oltre 49.000 addetti.            

Cosa ci salverà? Dire la proverbiale capacità di reazione dei bergamaschi sarebbe banale. Aggiungerei invece la forza morale ed economica delle famiglie che reggono le sorti delle piccole medie imprese bergamasche. Con i loro risparmi, messi via con grande parsimonia negli anni buoni, potrebbero farcela a reggere l’urto per risalire la china.

Resto ottimista e dico che ce la faremo perché il tessuto delle PMI è in generale il più vulnerabile dalle crisi, ma anche il primo a riprendersi e a rigenerarsi ove si ricreino le condizioni di esercizio. Si riparte sempre  dalle persone. Gli imprenditori dovranno continuare a credere nelle loro capacità, mettersi in gioco e a buttare il cuore oltre l’ostacolo. Bergamo ce la farà.  


Crisi di liquidità senza precedenti, rischio usura e infiltrazioni

Dopo circa un mese dalla pubblicazione del decreto liquidità, non esiste una stima precisa delle imprese bergamasche che abbiano richiesto ed ottenuto i tanto agognati 25 mila euro promessi. Al netto dei ritardi causati dal fermo e poi dal rientro scaglionato dei dipendenti degli istituti di credito,  in base ai numeri diffusi dai media, si può dire che siamo di fronte ad uno strumento non gradito dalle imprese oppure poco efficace. Alcune banche stanno interpretando meglio di altre il rapporto con il cliente, comprendendone l’urgenza delle richieste. In generale, tuttavia gli istituti vanno in ordine sparso e questo ha rafforzato difficoltà e confusione. I giornali evidenziano quotidianamente il grido di aiuto degli imprenditori circa le complicazioni dei documenti o il rifiuto della garanzia ma questo distoglie lo sguardo dal centro della questione. Il problema non sono le banche, che restano al centro dell’attenzione, ma l’inadeguatezza della misura e le condizioni delle imprese che sono giunte a questo snodo cruciale per la sopravvivenza, già indebolite da anni di crisi dei consumi e di liberalizzazioni selvagge. 

La modifica della misura è già al vaglio del Governo che sta pensando estenderla a chi ne è rimato escluso, come start up e terzo settore. Nei soli settori del commercio e del turismo, con il turnover in corso,  possiamo stimare che il 10% delle imprese siano quelle che ad oggi non possono accedere alla misura. Se a questo sommiamo un grande numero di PMI, circa il 20%, con situazioni pregresse che non consentono di ricevere il credito, stimiamo che almeno un terzo del totale, circa 7mila imprese tra commercio e turismo del nostro territorio, siano in questo momento abbandonate a loro stesse. 

Troppe e con molti posti di lavoro a rischio per pensare di lasciarle indietro a morire.       

Mai come oggi il rischio vero è che molte di queste imprese siano vulnerabili all’usura, cioè siano facilmente adescabili dal racket per esigenze di liquidità. Il nostro territorio che già vive questo fenomeno, pur circoscritto e sempre ben contrastato dalle Forze dell’ordine, oggi potrebbe subire l’affondo decisivo della malavita. Un tessuto così denso di attività di impresa e con un numero così alto di imprenditori in difficoltà è territorio di caccia per l’illegalità. Senza dimenticare che chi fa usura predilige chi può pagare gli interessi e poi, forse, restituirli. Anche con la propria impresa quando questa ha prospettive di ripresa e rappresenta una possibile fonte di guadagno futura.   

Il problema è noto, è il momento a renderlo fortemente attuale. Confcommercio partecipa alla cabina di regia nazionale nata per contrastare questi fenomeni.  Il Ministero dell’interno ha diramato diverse note ai Prefetti ed ai Questori per sollecitare un attento monitoraggio della situazione. Le forze dell’ordine, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza con le quali ci stiamo già confrontando, sono al lavoro ed in contatto con le nostra Associazione.

L’appello a tutti gli imprenditori è di denunciare ogni eventuale contatto e di rivolgersi alla nostra Associazione. L’omertà non ha mai aiutato nessuno e soprattutto in questa fase non è certamente una vergogna denunciare di avere difficoltà finanziarie. La richiesta che ci sentiamo di rivolgere al nuovo Prefetto di Bergamo è di ripristinare l’Osservatorio territoriale che era lo strumento di monitoraggio dei fenomeni criminosi, attivo fino a dieci anni fa.

Infine occorre trovare soluzioni nuove. I progetti passati con i Fondi antiusura e di prevenzione- almeno nel nostro territorio – non hanno mai funzionato. Occorre che a livello centrale si trovino i fondi e i progetti in grado di dare risposte realmente efficaci a chi è in difficoltà

 


L’impatto del Coronavirus sul terziario bergamasco: una crisi senza uguali dal dopoguerra ad oggi

Non è la crisi del 2009. Quella, che sembrava essere la più grave crisi mai vista, “ci fece il solletico” in confronto a ciò che sta accadendo ora. La situazione di oggi è molto più grave. Non solo per il coinvolgimento emotivo, anche il mio.

I media sono ancora concentrati sull’emergenza sanitaria e non focalizzano ancora del tutto il trauma economico che stiamo subendo.

Gli imprenditori bergamaschi stanno reagendo con compostezza alle loro reali difficoltà per rispetto dei tanti morti, anche dei loro. I circa 600 questionari recapitati on line alla nostra Associazione in poco più di 30 ore segnalano la percezione di gravità del problema. Le riposte degli imprenditori, lucide e precise, delineano con chiarezza i timori e l’incertezza per il futuro. Siamo di fronte ad un impatto sull’economia reale senza uguali dal dopoguerra ad oggi e non siamo in grado di prevederne l’esito e la ripartenza. Non sappiamo quanto passerà prima di poter parlare di una reale ripresa. 

I dati che emergono dal questionario promosso dalla nostra Associazione in collaborazione con Bergamo TV sono allarmanti.

Siamo stati diretti nelle domande perché il momento non si presta a inutili giri di parole.  Abbiamo chiesto alle imprese del commercio, turismo e servizi nostri associati cosa intendono fare dopo questa batosta. Le risposte sono state altrettanto sincere ed eloquenti.

Il 12,1% non riaprirà più, l’ha già deciso. Il 31% non è ancora in grado di rispondere.
Per un tessuto come il nostro bergamasco, fondato sul lavoro “in proprio”, il rischio è un’ecatombe di imprese, soprattutto tra i pubblici esercizi, già indeboliti dalla liberalizzazione selvaggia dell’ultimo decennio, e tra i negozi di abbigliamento e calzature, minati dal cambiamento delle abitudini d’acquisto, dal commercio elettronico e soggiogati da vincoli contrattuali con le aziende manifatturiere assolutamente anacronistici visto quanto sta avvenendo.   

Il blackout di liquidità che perdura da ormai quasi due mesi sta mettendo in difficoltà gli imprenditori nella sfera aziendale e anche familiare. Il 51% degli imprenditori del terziario dichiara che la sua liquidità è insufficiente mentre solo il 36,1% stima la sua perdita di guadagno nella percentuale di sopportabilità del 30%. Addirittura, uno su quattro, il 26% degli imprenditori intervistati, dichiara perdite di guadagno fino al 100%.

Le ricadute saranno presto evidenti, a partire dalle spese più immediate, come il canone di affitto. Solo il 42,8% del campione è proprietario dei muri del negozio, mentre il 57,2% è in affitto: di questi il 43% ha dichiarato che non pagherà regolarmente il canone; il 33% cercherà di rinegoziarlo mentre il 32% individuerà un’altra modalità per far fronte alle difficoltà del pagamento. Per la diligenza e l’onorabilità dei bergamaschi questa è un’ulteriore “mazzata”.

Gli strascichi avranno però respiro più lungo. Le imprese usciranno da questo momento più deboli e più indebolite. Oggi gli ammortizzatori stanno congelando le posizioni, ma a breve i riflessi si vedranno anche sull’occupazione.

Il 21,7% ha già deciso di rinunciare a parte del personale, mentre il 35,7% lo sta valutando. Se questi incerti si trasformassero in aziende che licenziano, i numeri dei disoccupati andranno presto ad ingrossarsi.

Gli intervistati delineano le loro richieste. Solo il 17,8% sostiene che l’iniezione di liquidità sia condizione per riaprire l’attività. Sanno che i debiti devono essere comunque pagati. La maggior parte, il 45,2%, chiede un contributo a fondo perduto, il 34,7% la detassazione e il 28,9% gli sgravi. Sinceri e concreti.

Chiedersi se in una simile situazione ci siano facili soluzioni penso sia difficile. Io non ne ho, sono sincero. Penso che dobbiamo insieme provare a ricominciare, ascoltandoci, bandendo tutte le divisioni e i pregiudizi e ricostruendo mattone dopo mattone con grande pazienza, umiltà e attenzione.