Meno profili tecnici e più marketing e digitale. La rivoluzione delle competenze nel terziario

Qualcosa sta cambiando, anche a vista d’occhio, ma è ancora difficile realizzarlo in pieno senza il beneficio dei numeri. Negli ultimi mesi l’ottima affluenza -quasi insolita- ai seminari sulla comunicazione web e social organizzati da Ascom ci dà un segnale. Si stanno iscrivendo i titolari e i familiari -i jolly di ciascun impresa- , perché oltre a dirigerla cercano -per lungimiranza, competenze e dedizione- di ricoprire i ruoli che mancano. Poi quando diventerà possibile, sostenibile e se troveranno la figura giusta assumeranno personale adeguato alla mansione..

La ricerca ‘Focus su lavoro competenze e formazione’ commissionata da Ascom Confcommercio Bergamo a Format Research e presentata in assemblea Ascom 2019, mette a fuoco l’accelerazione nel cambiamento, le esigenze pressanti delle imprese del terziario orobico e il deficit di competenza nel lavoro. Infatti i numeri sono chiari: solo l’8,4% delle imprese del terziario dichiara di aver aumentato l’organico negli ultimi sei mesi, mentre il 47% di chi non l’ha fatto afferma che ne avrebbe avuto bisogno. Quasi un’impresa su due (43,1%) ha espresso che avrebbe volentieri assunto ma non è stato possibile per diversi motivi: il 5,8% per la situazione economica dell’impresa, il 25,7% per la scarsa fiducia data dall’instabilità della situazione economica e politica, il 68,4% per l’assenza di un profilo adeguato. Facendo i conti sono un enormità: numericamente oltre 13.500 su 46.157 imprese del terziario hanno rinunciato, nell’ultimo semestre, ad un nuovo addetto o forse più.

L’importanza delle competenze è confermata dalle modalità di selezione. Le imprese in fase di assunzione assegnano maggiore rilevanza alle competenze professionali (56,3%) più ancora che all’esperienza pregressa, comunque collegata alle competenze (36,9%), o all’età (10,1%) o al titolo di studio (6,8%).

Le imprese del nostro territorio e dei nostri settori stanno puntando sulle competenze. L’89,1% delle imprese del terziario ritiene che un’adeguata formazione giochi un ruolo strategico nell’individuazione di personale qualificato, soprattutto nel settore del turismo (94,7%). E’ finito il tempo del “vanno bene tutti” oppure dell’”imparerà in bottega”.

Ma quali sono i nuovi profili? Le imprese hanno le idee chiare sui fabbisogni formativi: marketing, vendita e relazione con il cliente valgono un terzo delle necessità (28,9%), con prevalenza delle imprese del commercio (32,3%) e del turismo (addirittura un 40,5%); se aggiungiamo le competenze digitali, social e vendite on line si arriva al 66% del fabbisogno complessivo. Le lingue straniere si fermano al 14,8%, dato che indica che è ormai un’emergenza del vecchio secolo ormai superata.

Le imprese hanno già compreso che non esiste solo un problema di deficit tra offerta e domanda di lavoro, ma anche di trasformazione. Il processo di modernizzazione comporterà un profondo mutamento dei profili professionali ricercati dalle aziende. Un’impresa su 20 del terziario (5,2%) ritiene che oltre il 9% – quindi un lavoratore su dieci – nei prossimi due anni ricoprirà una professionalità nuova per l’impresa e addirittura il 4,5% anche per il mercato. Le nuove professionalità ruoteranno intorno al web: web marketing strategist (25,2%) e il web analyst (10,8%).

Paradossalmente le imprese del terziario rilevano che il maggior fabbisogno occupazionale nei prossimi due anni sarà nelle aree della comunicazione (24,7%) e marketing (19,6%), addirittura più dell’area tecnica (+ 16,3%). Fa riflettere pensare che queste erano mansioni ritenute strategiche ma residuali negli altri scorsi. Se non è una rivoluzione culturale questa, poco ci manca!


Le competenze sono la variabile strategica per innovare

L’innovazione non è solo tecnologica e non riguarda solo il settore manifatturiero. Si è fatta molta confusione nella diatriba tra industria 4.0 e impresa 4.0. Non tanto per la contrapposizione tra le rappresentanze nazionali dell’industria e quella degli altri settori, quanto per la traduzione maldestra in italiano che è stata fatta di industry 4.0 in industria invece che in impresa.

Le imprese manifatturiere sono imprese innovative per capacità, quelle dei settori del commercio, turismo e dei servizi, soprattutto quando si tratta di imprese in fase di start up, sono imprese innovative per necessità. L’innovazione perché possa distinguere l’impresa e renderla competitiva non può limitarsi all’insegna o al prodotto venduto. Deve invece essere pervasiva e abbracciare tutte le funzioni aziendali che corrispondono ad organi vitali dell’impresa.

Secondo una ricerca dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Retail del Politecnico di Milano “L’innovazione di significato nel retail: le direzioni emergenti” tenutosi lo scorso 7 marzo, l’innovazione nei servizi avviene attraverso la proposta di un’innovazione di significato (Innovation of meaning – WHY) che si traduce in innovazione di soluzione (Innovation of solution DIGITAL TECHNOLOGY – HOW o SHOPPING EXPERIENCE – WHAT).

Questo nel commercio in senso stretto risponde a tre scenari di innovazione, passare dal visitare il negozio per comprare, ritirare, ecc. a stare nel negozio per vivere un’esperienza; dal cercare di rendere più efficiente il tempo (di solito per ridurlo) a valorizzarlo per imparare, divertirsi, creare idee; dal proporre una finzione in cui il cliente è passivo a rappresentare uno spettacolo reale in cui il consumatore è attore protagonista.

Secondo una ricerca analoga dello stesso osservatorio “L’innovazione digitale nel retail: lo stato dell’arte” dell’8 marzo 2019, i cantieri di innovazione dello store censiti dalla ricerca riguardano “digital, omnichannel, different e useful”, cioè digitale, multicanale, differenti e utili).

Se l’innovazione è la soluzione per competere non tutti però vi possono ricorrere. Un primo vincolo è il suo costo. Gli investimenti in innovazione nel terziario nel nostro Paese sono molto bassi rispetto al fatturato in confronto a quelli degli altri Paesi perché il nostro settore in Italia è – fortunatamente – commercio indipendente e strutturato in piccole e piccolissime imprese che in questa fase non trovano risorse per investire.

Ma non è solo questo. Servono anche visione e competenza.

Secondo la ricerca ‘Highlights Future ability” del CfMT-Centro di Formazione Management del Terziario presentata lo scorso aprile a Milano* a cui ho partecipato, nel ristudiare il proprio business il terziario deve: puntare sui servizi (nell’ottica che si passerà dal possesso di beni al noleggio e all’affitto); privilegiare l’acquisto etico e di prodotti ecologici e made in Italy; orientarsi su servizi per la salute e il benessere. Il futuro del retail saranno nuovi punti consegna dell’e-commerce, categorie merceologiche fluide, maggiori private labels, un turismo più personalizzato e la terziarizzazione dell’industria.

Occorre soprattutto rivedere le tecnologie e, ancor prima, ripensare alle persone che lavorano e alle loro competenze. Si tratta di definire nuovi modelli di organizzazione del lavoro, nuovi stili di leadership e potenziare age management, welfare aziendale e skills. Sono proprio le competenze la variabile strategica dell’innovazione.

Non è casuale che abbiamo deciso di organizzare un convegno sull’innovazione del terziario in Università, sua sede naturale.

* La ricerca sarà oggetto di una pubblicazione nel volume “Futurability: l’Italia del futuro” raccontata da 100 protagonisti dell’economia” di Cosimo Finzi e a cura di Giorgio Del Mare Franco Angeli disponibile da giugno 2019.


Competenze al centro della ricerca di un nuovo modello formativo

Nell’accelerazione del cambiamento occorre domandarsi quanto del nostro lavoro resterà stabile e quanto si modificherà. Per molti il cambiamento sarà radicale tanto nei lavori attuali quanto nelle nuove professioni che nasceranno. L’interrogativo per tutti è quali competenze serviranno per affrontare le novità sia per i già occupati sia per i futuri lavoratori. È questo il senso della ricerca ‘Futurability: l’Italia del futuro raccontata da 100 protagonisti dell’economia’, presentata in anteprima in un evento di CFMT all’hotel Excelsior Gallia di Milano lo scorso 16 aprile.

Gli stakeholders di Cfmt, Confcommercio e Manageritalia, condividono l’ipotesi di partenza che il lavoro delle persone resti centrale nelle imprese e che i processi formativi attuali siano inadeguati per rispondere al necessario innalzamento delle competenze. Da una parte esiste un sistema della formazione datato, autoreferente ed incapace di rispondere ai bisogni delle imprese.

Le imprese vorrebbero assumere ma non trovano candidati in grado di rispondere ai profili richiesti. Dall’altra le imprese italiane, inchiodate da “crescita zero”, pressione fiscale e costo del lavoro non offrono sbocchi immediatamente appetibili per i giovani talenti con la conseguente “fuga di cervelli” all’estero. Il problema si sta acuendo negli ultimi anni e i processi devono essere governati per renderli meno anarchici e dissipativi.Per Confcommercio e Manageritalia la rappresentanza delle imprese deve essere forza attiva per il cambiamento di rotta.

Con senso di responsabilità occorre partire dai limiti del modello formativo e offrire soluzioni alla politica oggi incapace da sola di risolvere il problemi del mondo economico. Il problema – come ha ricordato la vicepresidente di Confcommercio Imprese per l’Italia Donatella Prampolini – non è solo degli ingegneri per la ricerca e sviluppo delle grandi imprese.

Tocca tutte le persone e in tutti i settori, perché gli effetti saranno trasversali. Anche il terziario il commercio il turismo e i servizi. Il problema delle nuove competenze investirà tutti, commessi, camerieri e impiegati, in tutti i ruoli e in tutte le imprese, anche tradizionali, dalla grande alla piccola. Dal seminario sono emerse due tendenze di pensiero: una brutale che propone di cambiare molto e in fretta perché un terzo dei lavoratori è già fuori mercato oggi e nel giro di un triennio non potrà più ricollocarsi.

Questo è un Paese che spende molto in formazione ma disperde risorse. Se molto del futuro sarà basato sulle soft skill che peraltro sono quelle capacità difficili da produrre e da misurare allora il sistema formativo deve essere completamente reinventato. Dall’altra c’è chi sostiene che nel cambiamento epocale non si può buttare tutto ma implementare. La scuola in Italia è buona ma occorre renderla più moderna e funzionale. Nuovi canali, strumenti e modelli formativi rispetto a quelli tradizionali.

Occorre quindi innovare nella tradizione per rimettere un Paese che è tradizionalmente fermo.La proposta del presidente di Manageritialia Guido Carella in questo senso è stata forte. Occorre creare un osservatorio nazionale per studiare i cambiamenti degli scenari e trovare modelli formativi che producono maggiore occupabilità delle persone. Modelli come il sistema complessivo VET francese opera sulla base di competenze condivise tra lo Stato francese (Ministeri dell’Istruzione, Università, Lavoro, Agricoltura e Affari Sociali, ecc), le Regioni, gli enti di formazione e formazione professionale e le parti sociali che sono tutti coinvolti nella progettazione di programmi di formazione.

Sembrerebbe utopia pensare di raggiungere un’unità di intenti tra soggetti disgregati e ottenere un cambio di passo in tempi brevi ma è chiaro che qualsiasi soluzione, perché sia realmente efficace dovrà essere di grande discontinuità rispetto al passato. Difficilmente divisi e a strattoni potremo ottenere risultati tangibili.


Salvaguardiamo le imprese storiche, un valore per le nostre comunità

Il problema del nostro territorio non è favorire il tasso di imprenditorialità. I bergamaschi sono storicamente propensi a creare un’attività d’impresa: è nelle corde storiche di un popolo lavoratore e di emigranti.

È necessaria, invece, la conservazione del tessuto delle imprese del terziario in un momento di difficoltà che incide sulla sopravvivenza dell’azienda stessa.

In questi anni le politiche centrali e regionali hanno incentivato la creazione di impresa e aiutato le nuove imprese senza renderle strutturalmente più forti. A parte le start up innovative che da noi restano poche, per le altre non ci sono stati veri e propri incentivi.

Misure che non chiamerei neppure “tampone” e destinate a non dare frutti. Anzi in alcuni casi gli aiuti hanno richiesto lo sforzo postumo da parte dei nostri imprenditori di restituire gli incentivi, in quanto non sono stati in grado di far fronte alle richieste che l’erogazione del contributo imponeva.

Statistiche alla mano, negli ultimi anni hanno chiuso due nuove imprese su tre. 

Troppo poco invece si è fatto per la sopravvivenza delle imprese, soprattutto di quelle storiche per le quali si sono spesi riconoscimenti e belle parole e poco altro. Non vogliamo essere corporativi.

Un’impresa nuova non ha meno dignità di una che è sul mercato da molto tempo; anzi molto spesso è portatrice di valori imprenditoriali e competenze, soprattutto digitali, superiori a quelle tradizionali. Il problema è la capacità di sopravvivere a lungo termine e di offrire in continuità servizi e lavoro.

Vent’anni fa le imprese passavano per successione famigliare o vendita. In entrambi i casi, con il necessario periodo di affiancamento, veniva garantita una continuità di mercato e un passaggio di competenze. Oggi, salvo poche eccezioni, le imprese chiudono ed aprono in discontinuità assoluta, settoriale e soggettiva.

Il sistema perde quindi le competenze tecniche e imprenditoriali di chi chiude definitivamente.

Non è un caso che per le attività maggiormente in rotazione, come i bar, la successione sia solo nel valore degli arredi. In questi anni notiamo imprese più deboli che sostituiscono quelle che chiudono, con sempre meno risorse disponibili per ammodernare.

Cosa fare? Se in altri settori potrebbe bastare agire sulle condizioni fiscali e il costo del lavoro per evitare delocalizzazioni, nel terziario occorre agire sulle regole di apertura. La deregulation, travestita da liberalizzazione, ha spaccato il settore. Negli altri Paesi europei, come la Germania, non si è liberi di aprire dove e quando si vuole. Il decreto Bersani, a vent’anni dalla sua introduzione, non risponde più alle esigenze dello sviluppo equilibrato del commercio. Bisogna porvi presto rimedio. 

Ma non basta. Occorre riconoscere la funzione di servizio delle piccole attività commerciali e riconoscere sgravi e incentivi tali da metterle in condizioni di equilibrio rispetto ai concorrenti, grande distribuzione e on line.

La “Rete di imprese storiche” non vuole essere il museo da rimpiangere ma un ecosistema vivo di relazione e di servizio per la gente che va conservato. Il nostro progetto di valorizzazione delle imprese storiche è il primo passo per porre l’enfasi sul bisogno e trovare soluzioni.

Le difficoltà dei negozi e dei pubblici esercizi della montagna e dei piccoli comuni vanno evidenziate. Altrimenti le piccole imprese, nuove e storiche, non ce la faranno. La prossimità dei nostri negozi non è solo geografica ma è di relazione. È questo  che vogliamo salvaguardare. 


Vent’anni di euro e di occasioni sprecate

Il 1° gennaio 1999 vedeva la luce l’Euro che sarebbe entrato effettivamente in circolazione tre anni più tardi.

Tra due mesi si andrà a votare per le elezioni europee, in uno scenario molto diverso da quello di vent’anni fa, quando si votava per costruire l’Europa.
Si va a votare, qualcuno per cambiare l’Europa, altri per seppellirla.

Eppure, come si legge nello studio ‘L’euro compie vent’anni’ presentato da Confcommercio al Forum di Cernobbio nei giorni scorsi, “l’Euro è più di un collante per il progetto europeo; sebbene in rallentamento continua il processo di adesione alla moneta unica” in cui sono impegnati ben sette Paesi Europei, i cinque dell’Est, la vicina Croazia e la Svezia”.

Eppure il gradimento verso l’Europa sta venendo meno anche da noi. Secondo la ricerca Parlementer 2018 alla precisa domanda “se domani si tenesse un referendum per restare o uscire dall’Europa, come voteresti?” in Italia ha risposto ‘restare’ il 44% degli intervistati che è la percentuale più bassa in Europa; il 24% ha risposto “uscire”, una percentuale seconda solo a Regno Unito e Cipro e pari a quella espressa in Grecia. Mentre preoccupa il 32% di “non so” che segnala l’alto tasso di indecisi che potrebbe decidere la partita.

Le ragioni di questo disinnamoramento sono presto trovate nei numeri. L’Italia in questi vent’anni di euro è “cresciuta”, giusto per trovare un eufemismo, al tasso medio dello 0,1% annuo sia nel PIL che nei consumi, ben dieci volte meno degli altri Paesi quando va bene. Inoltre è vero che siamo riusciti a recuperare i posti di lavoro persi con la grande crisi, con una crescita dei posti di lavoro del 2,7%, ma il tasso di occupazione resta tra i più bassi in Europa, al 63%, dieci punti in meno della media europea e avanti solo al 60% della Grecia.

Vent’anni quindi di occasioni sprecate che con le previsioni al ribasso dell’ultimo mese stimano una crescita attesa dello 0,3% del PIL e dei consumi. Questo nel caso del disinnesco delle clausole di aumento dell’IVA che per noi costituiscono “la linea del Piave”, oltre la quale la ‘guerra’ sarebbe persa.

Diciamocelo: i numeri sono da “debacle” e non è certamente colpa dell’Europa. Non creiamoci dei facili alibi.

Dobbiamo rafforzare il nostro ruolo propositivo. La proposta di Confcommercio prevede l’esclusione degli investimenti pubblici dal computo del deficit, l’introduzione dell’agenda urbana e la rigenerazione come strumenti di crescita e la messa in campo di un’efficace web tax a livello europeo.

Poi, come ha ben ricordato il presidente Sangalli nella conferenza stampa di apertura del forum, occorre un percorso rigoroso che disinneschi l’aumento dell’IVA, rimettendo in moto i cantieri e il volano connesso, e infine è necessario misurarsi fino in fondo con i nodi della spending review: meno spesa pubblica, meno imposte e più investimenti. Che è esattamente il punto da cui partimmo vent’anni fa.


I paradossi del mercato del lavoro

Adesso che lo dicono anche i numeri non ci sentiamo più confortati. Nella nostra Provincia aumenta il tasso di disoccupazione e restano scoperti i tre grandi problemi del lavoro: la disoccupazione sebbene resti tra i più bassi in Lombardia, secondo i dati CGIL di base Istat, è salita dal 4,23% (2017) al 4,86% (2018), la disoccupazione giovanile sale dal 14,23% al 16,2% (2018) ed infine l’atavico problema del tasso di occupazione femminile al 54,78% che ci vede ultimi in Lombardia e al 57° posto in Italia.

Questi elementi unitamente ad altre rivendicazioni del sindacato sulla precarietà come l’alta percentuale dei contratti a termine (51,6% delle assunzioni).

Le cause sono presto trovate: il decreto Dignità, come avevamo anticipato, sta colpendo il mercato del lavoro in quei settori che ancora oggi stanno crescendo come il turismo e la ristorazione. Negli altri, quello manifatturiero, il freno della produzione e le prospettive sull’export stanno facendo il resto.

Il problema non è solo quantitativo. L’attuale mercato del lavoro, così come è disegnato dai principali osservatori, evidenzia alcuni paradossi. Da un lato le imprese faticano a trovare figure appropriate mentre la disoccupazione sale. Dall’altro mentre aumenta il numero degli occupati contestualmente si riducono il numero di ore di lavoro rispetto al periodo pre-crisi. In buona sostanza mentre aumentano i posti, crollano la quantità e la qualità del lavoro e triplicano le fughe all’estero di giovani talenti.

Diceva a fine febbraio Roberto Monducci, responsabile statistiche di Istat, a La Repubblica “I giovani sono i più penalizzati dalla crisi: in presenza di ampie sacche di sottoutilizzazione e non utilizzazione del lavoro, i giovani sovraistruiti si contrappongono agli adulti sottoistruiti, le cui competenze non sono spesso adeguate all’evoluzione delle tecnologie e delle competenze”. È un’osservazione giusta e che sottoscrivo del tutto, in quanto è ciò che accade in molte nostre realtà lavorative.

Da qui nasce il mio timore che venga minato il sentiero che ha sempre contraddistinto la crescita professionale, basata su: un ottimo percorso scolastico, entry level con successivi passaggi a junior e a senior; un percorso basato su competenza e esperienza che costruisce la struttura portante del management dell’impresa italiana, che ha sempre lavorato sulle motivazioni delle persone, sul loro impegno al fine di raggiungere buoni risultati e l’affermazione professionale e sociale. Oggi purtroppo questa struttura rischia di crollare. Se le nuove generazioni non hanno futuro è il sistema Paese ad essere a rischio. I giovani non hanno la colpa per quello che sta avvenendo, anche perché le chiavi dell’ “ascensore sociale” non è in mano loro.

La politica deve intervenire su questo fronte evitando l’arretramento del nostro Paese, anche in quello delle province come la nostra che hanno sempre costituito un bacino fondamentale per la produzione e il lavoro.

 


Commercio: servono regole nuove e un reale riconoscimento

La fotografia scattata da Confcommercio sulle trasformazioni del commercio degli ultimi dieci anni (2008-2018) nei maggiori centri urbani italiani ha mostrato la tenuta complessiva del terziario nella nostra città, con l’exploit di bar, ristoranti e strutture ricettive e il calo del commercio tradizionale. Il problema del commercio di Bergamo non riguarda i numeri, semmai la qualità e le prospettive.
Bergamo
risulta in posizione di vantaggio rispetto agli altri comuni analizzati in due aspetti: l’exploit del food è stato molto forte (+16,8% in dieci anni), in linea rispetto alla media nazionale fuori dal centro storico e addirittura doppio nel centro storico (+ 36,2%) e, allo stesso tempo, la riduzione dei negozi è stata nettamente inferiore alla media (-3,0% fuori dal centro storico e –13,9% nel centro dove però le attività commerciali hanno lasciato spazio a ristoranti). Questo anche perchè la nostra città ha già pagato dazio alla pressione della grande distribuzione molto prima, nell’ultimo decennio del vecchio secolo, con l’insediamento dei tre grandi poli commerciali extraurbani di Curno, Seriate e Orio al Serio.

L’aspetto critico è la contrazione delle dimensioni medie degli esercizi di vicinato a cui si accompagna una loro minore capacità di azione e di reazione rispetto alla concorrenza. Una piccola impresa per poter sopravvivere a lungo termine deve isolare le risorse finanziarie per investire. La crisi dei consumi che persegue sta fiaccando la resistenza delle nostre imprese. Il forte turnover di aperture e chiusure è un segnale sinistro dello stato del comparto.

La prospettiva non è solo sulla resistenza, ma sulla qualità della proposta. Il nostro è un territorio dove l’offerta in termini di prodotto e servizio è sempre stata al top nazionale, in linea con l’eccellenza che contraddistingue la nostra regione.

La qualità nel commercio non alimentare è fondamentale perché consente di competere con il commercio on line, che per sua natura è perfetto nell’immagine e nel servizio. Nel comparto alimentare la qualità è ancora più importante perché se viene meno si rischia di far arretrare il senso del buono nel cliente, spingendolo verso proposte standardizzate e omologate e quindi verso i concorrenti stessi del commercio tradizionale.

Cosa serve, quindi? Sul piano delle regole serve una rivisitazione del decreto Bersani, che dopo più di vent’anni appare anacronistico e comunque indebolito dal recepimento maldestro delle direttive europee. Quello che sta avvenendo con la liberalizzazione delle medie strutture di vendite dimostra in modo evidente che il decreto è incapace di salvaguardare lo stesso concetto che l’aveva ispirato, ossia l’equilibrio tra piccoli e grandi.

Inoltre, come ha chiesto il presidente Confcommercio Carlo Sangalli, occorre un reale e concreto riconoscimento del servizio e del sistema di relazioni che i negozi assicurano, fatto di incentivi e di sgravi veri, non a chi ‘parte’, ma a chi sul mercato è rimasto finora con grande fatica e passione. Prima che sia troppo tardi.


La crisi non appartiene più al mercato immobiliare bergamasco

Non tanto perché i principali indicatori sono tornati tutti positivi, dopo che le transazioni proseguono il loro recupero e i prezzi cominciano a crescere, ma principalmente per un cambio di atteggiamento del consumatore.

E’ evidente che da tempo siamo dentro ad un ciclo nuovo del quale fatichiamo a coglierne le differenze con il passato. Questo perché sono le caratteristiche del consumatore e il suo atteggiamento d’acquisto a costituire una forte discontinuità rispetto agli anni passati.

Nel mercato immobiliare l’eccesso di offerta rispetto alla domanda esisteva anche prima della crisi del mercato. Eppure il mercato era fluido e si vendeva molto. Oggi, invece, nonostante i tassi dei mutui restino bassi e gli importi finanziabili dalle banche siano in aumento, il mercato è ancora poco dinamico. Non sono quindi le condizioni economiche generali ma l’evoluzione del consumatore. Nel mercato dell’abitazione il discrimine è il bello e il non bello esteticamente, oltre che la qualità, la funzionalità, e il contesto. Gli immobili di qualità, efficienti dal punto di vista energetico o comunque poco costosi nelle spese di gestione, inseriti in un bel contesto stanno riprendendo valore da tempo e rimangono poco sul mercato. Si vendono presto e a buon prezzo. Sono gli altri, quelli di minore qualità, a restare ancora e perennemente invenuti salvo che il venditore sia propenso a stralci di prezzi significativi quasi da vendite di fine stagione.

Il nostro Listino dei prezzi degli immobili riflette questi cambiamenti. Eravamo abituati a medie di valori che sintetizzavano prezzi in aumento, oppure, per periodi brevi con valori tutti in calo e con forbici molto contenute tra prezzi minimi e massimi. Oggi assistiamo ad un divario molto allargato tra valori molto alti e altri molto bassi.

I prezzi sono la risultante di un mercato diverso. I proprietari si mettano il cuore in pace perché gli anni d’oro non torneranno più.

Allo stesso tempo assistiamo ad una piccola ripresa del mercato del non residenziale, dopo il black out di anni. Aumentano le transazioni di negozi, uffici e capannoni anche se a livelli molto bassi rispetto al passato. I prezzi sono in media positivi. Eppure anche qui la situazione è analoga. In questo mercato la discriminante è la funzionalità. Gli immobili che alimentano il mercato sono nuovi con caratteristiche di qualità e servizi. Il vecchio resta invenduto o trova sbocco nella locazione a canoni in continua discesa.

Esiste un dualismo forte tra il nuovo e il vecchio, efficiente e non efficiente. Chi investe vuole il nuovo. Costa meno ed è più rispondente. Qui occorre però che gli enti di governo del territorio Regione e Provincia tornino a pianificare e a dare indirizzi stringenti ai Comuni. Non è possibile favorire continui nuovi insediamenti a fronte della rottamazione di spazi vecchi. Questo vale per tutto il terziario. Altrimenti ci troveremo presto il problema enorme da affrontare che saranno i milioni di metri cubi dismessi.


A volte è necessario fare un passo indietro per fare un grande balzo in avanti

E’ quello che il presidente e l’intero consiglio di Masec hanno fatto con la decisione di sciogliere Masec per partire a Bergamo con Ente Mutuo Regionale. Tutti abbiamo messo da parte nostalgie e interessi personali per aderire, convinti, ad un progetto che darà nuova linfa e vigore ai servizi sanitari della nostra Associazione.

Io stesso mi sono impegnato, nei diversi ruoli che ho ricoperto in associazione e con i miei colleghi negli ultimi vent’anni per Masec ma proprio per questo sono convinto che la direzione presa di unirci nella mutua regionale sia quella giusta.

Gli organi dell’Ascom e di Masec hanno chiesto a me, che ho seguito con il presidente la trattativa con Ente Mutuo regionale, solo la garanzia di continuità e tutela dei nostri associati. Richiesta accolta. Ente Mutuo garantirà, almeno per due anni ma anche di più se i conti lo consentiranno, le stesse formule alle stesse quote 2018. Con in più la detrazione fiscale per la quota del titolare. Molto di più di quello che avremmo potuto offrire noi con Masec, arroccandoci su quanto fatto in questi 60 anni e guardando dall’alto un mondo che è fortemente cambiato.

Ente Mutuo Regionale è il partner ideale di Ascom Confcommercio Bergamo. E’ parte della nostra confederazione, ha la nostra stessa radice associativa e quindi ha lo stesso nostro DNA ed è formata da persone competenti e professionali.

Inoltre per offrire servizi mutualistici al passo con i tempi è necessario avere un contenitore mutualistico moderno (società di mutuo soccorso), possedere una buona massa di associati (i 26.000 dell’Ente Mutuo Regionale la posizionano tra le prime tre mutue a livello nazionale) per spuntare le migliori condizioni per gli associati e dotarsi di una rete di vendita da coordinare.

Ente Mutuo è questo, lo fa bene con dedizione e innovazione. Sarà una grande opportunità per gli associati Ascom in un mondo, quello del welfare, in cui il progressivo disimpegno del pubblico e le conseguenti minori prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale obbligherà molti a dotarsi di coperture sanitarie per assicurarsi cure tempestive e di qualità.

E’ quello che noi auspicavamo da tempo. Un modello di assistenza sanitaria integrativa regionale, più efficace e vicino all’associato rispetto a modelli mutualistici nazionali che non funzionano.

Nel frattempo Masec sceglie la via della autoliquidazione, in maniera assolutamente volontaria senza debiti e con i bilanci in ordine.

In questo momento è doveroso un ringraziamento ai tanti nostri soci che hanno costituito la nostra associazione, ai presidenti, consiglieri, revisori, direttori Ascom prima di me e a funzionari e impiegati che hanno operato in questi lunghi anni per la nostra Mutua. Un ente che è stato amministrato e gestito con grande rigore e grande professionalità. Ci abbiamo messo anche un po’ di passione e questo impegno oggi consente quel grande passo in avanti dando il benvenuto a Ente Mutuo Regionale.

Ad maiora.


Chiusura dei negozi la domenica: Non scontriamoci sulle posizioni, limitiamo le ricadute

La legge di bilancio e lo spread crescente sembrerebbero aver distolto l’attenzione dal tema che ha infiammato il settembre più caldo degli ultimi anni, ossia l’apertura o chiusura dei negozi nelle festività.

Eppure l’iter dei disegni di legge – che nel frattempo sono diventati sei – prosegue con le audizioni alla X Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo.

Il tema è stato fortemente dibattuto anche in Confcommercio Imprese per l’Italia ed è stato oggetto della sessione più partecipata – e forse più accesa – della Conferenza di Sistema 2018 svoltasi a fine settembre in Sardegna, che aveva a tema la pianificazione commerciale. Durante l’incontro si è parlato molto dei disegni di legge sul lavoro festivo e sono emerse posizioni molto diverse sul tema tra le oltre 200 associazioni di categoria e organizzazioni territoriali che compongono la Confcommercio.

La Confederazione ora sta facendo sintesi verso una posizione unitaria e i conti con i diversi progetti di legge allo studio.

Le diverse posizioni

Sui valori di fondo che ispirano i progetti e le diverse posizioni lo scontro è alto. C’è chi contrario sostiene che la domenica deve essere giorno dedicato alla famiglia e al riposo; chi afferma che i piccoli imprenditori, come i lavoratori, non possono reggere turni 7 giorni su 7, in quanto penalizzano le loro relazioni; chi dichiara che l’apertura incondizionata di ogni giorno mette in crisi il ricambio generazionale delle piccole imprese e lo stessa disponibilità dei dipendenti.

Tra i favorevoli che chi afferma che il mondo è cambiato e che le imprese devono rispondere ai bisogni della gente; che il diritto all’acquisto non può essere limitato dalla politica.

Qualcuno altro asserisci che se è un diritto riposare la domenica, allora il diritto dovrebbe essere esteso a tutti, non solo al commercio.

Di questo passo tutti hanno ragione e nessuno ha torto.

Le ricadute

Per questo dobbiamo abbandonare il piano dei valori e scendere su quello più pragmatico del contenere le ricadute.

Fu un grave errore pensare che l’economia si sarebbe ripresa con la liberalizzazione degli orari dei negozi. Forse in un momento di difficoltà si pensò che la liberalizzazione degli orari avrebbe riacceso i consumi.

L’economia purtroppo non la fanno i negozi aperti ma la spesa della gente.

Oggi probabilmente la chiusura generalizzata sarebbe un errore peggiore del precedente.

Secondo le nostre stime le ricadute occupazionali andrebbero dal 15 fino al 25 per cento degli occupati del commercio. Meno addetti, meno redditi, meno spesa in tutti gli esercizi.

In momenti di bilanci magri, inoltre, le vendite accessorie legate al trasporto, alla ristorazione, quelle nelle gallerie dei centri commerciali sarebbero recuperabili in altri giorni? Chi venderà di più, perché aperto in deroga, assumerà altri dipendenti, mentre chi venderà di meno li lascerà a casa?

Noi riteniamo che nel gioco della redistribuzione delle vendite il commercio elettronico guadagnerà a discapito di quello tradizionale.

Infine non voglio dimenticare le perdite che subirebbero i piccoli, e sono molti, che in questi anni hanno investito nell’aperura domenicale e che dovrebbero almeno avere la possibilità di continuare a lavorare la domenica.

Allora cerco di sintetizzare la posizione che limiti le ricadute.

La proposta

Innanzitutto servirebbe una deroga generalizzata all’apertura nei comuni turistici secondo criteri chiari e precisi per la loro selezione; di conseguenza deroga generalizzata per i soli esercizi di vicinato, nel nome di quel riequilibrio di forze che richiede il pluralismo distributivo.

E poi arriviamo al punto. Non credo sia gestibile la rotazione del 25 per cento degli esercizi per ogni festività e domenica. Chi la gestirebbe? Penso invece che si debba stabilire la chiusura totale di 6 su 12 festività civili e religiose a cui aggiungere massimo altre 6 domeniche, escluso dicembre. Pensando così, da un lato di far riposare almeno una volta al mese i piccoli imprenditori e lavoratori e dall’altro, senza mortificare chi sopravvive con il lavoro domenicali, preservare le vendite e i posti di lavoro.

Con questa proposta i piccoli non perderebbero nulla. I grandi, ubicati in località non turistica, potrebbero vedere ridotto il loro volumi d’affari solo del 10/15 per cento, che si riposizionerebbero in parte ancora su di loro. Così le ricadute sul lavoro sarebbero minime.

È solo una proposta, non valutiamola sul piano dei valori, solo dei numeri.

Forse riusciremo a mettere d’accordo molti, certamente non tutti, senza dividerci.