Fretta ed allarmismo: i danni collaterali delle misure antivirus

È ancora presto per fare un bilancio definitivo sull’impatto del Coronavirus sull’economia del nostro territorio, ma le evidenze sono chiare. La tempesta perfetta è arrivata. Siamo travolti. E sono i numeri a dircelo.

Il calo dell’80-90% delle prenotazioni alberghiere con disdette che arrivano fino a maggio, il crollo del 50-60% del lavoro di ristoranti e bar e il probabile calo del 50% del commercio una volta che l’impennata dei giorni scorsi sarà depurata della folle corsa alle scorte alimentari, sono il conteggio della disfatta. Il conto lo pagheranno, nei prossimi mesi, centinaia di imprese e migliaia di lavoratori, perché servirà tempo per recuperare quanto perso.

Se una simile situazione di emergenza fosse avvenuta qualche anno, fa le imprese avrebbero avuto una maggiore capacità di resistenza e di rilancio. Oggi dopo anni di “magra”, che ne hanno fiaccato le forze, il compito sembra improbo.

Eppure la sensazione, almeno mia, è che siano stati commessi degli errori. Sicuramente giustificati dal timore della diffusione di un virus per il quale non c’è vaccino. Ritengo anche che la comunicazione poteva tenere un profilo diverso, meno catastrofico. È stato fatto tutto troppo in fretta. Capisco che l’immobilismo cinese, durato quasi due settimane, sia responsabile del propagarsi dell’epidemia ma quanto stabilito in un giorno, tra sabato 22 e domenica 23 febbraio, ha avuto tempi di riflessione e di confronto praticamente nulli.

Il danno collaterale, non in vite umane, delle decisioni prese dal Ministero della Salute e da Regione Lombardia è enorme e le vittime saranno imprese e lavoratori.

I decreti nazionali e l’ordinanza era appropriata e tempestiva per i paesi interessati dal focolaio, “la zona rossa”. Diverso invece il caso dell’”area gialla” e delle restrizioni che toccano l’intera regione Lombardia e le altre regioni del Nord che sono la locomotiva dell’economia nazionale.
Nella stesura di questa ordinanza ha prevalso l’urgenza del contenimento della diffusione del virus, mentre non si è tenuto conto della portata economica e quindi anche sociale del provvedimento. Il documento è scritto male, con differenze ingiustificate tra ipermercati e mercati all’aperto, bar e attività artigianali ed è stato emanato senza averne preventivamente verificato l’impatto sulle imprese.
Le nuove interpretazioni della Regione stanno di fatto smontando gli errori più evidenti e speriamo che l’ordinanza sia ritirata. Anche perché il rischio di assembramenti è ormai limitato per la paura della gente.

Il messaggio di questi giorni è deflagrante. L’allarmismo ha paralizzato l’economia. Per i nostri cittadini il virus è in mezzo a noi ed occorre stare ritirati per non ammalarsi, in barba alle semplici norme di prevenzione diffuse dal Ministero (pulizia, distanza, cautela ecc.).
Il rimbalzo all’estero è apocalittico: l’Italia è inserito nella black list, Milano come Kabul, la Lombardia come l’Afghanistan. I danni sono incalcolabili per tutti i settori produttivi nazionali, dal primario al turismo.

Ora sembra che dalle stesse autorità che hanno governato la questione tendano a ridimensionare il problema o quanto meno a cambiare registro nella comunicazione. Anche se in modo confuso e contraddittorio. Troppo tardi. Ora bisogna pensare a come ripartire di slancio.


Auto elettrica, tra luci, ombre e disinformazione

E’ un mercato dell’auto elettrica tra luci e ombre quello che emerge dal convegno dello scorso 27 gennaio in Ascom dal titolo: “Auto elettrica: vantaggi da subito. Bergamo si prepara alla nuova mobilità”,  che ha decretato la crescita delle immatricolazioni di auto ibride del 17,7% ed elettriche del 239,20% tra il 2018 e il 2019. Con l’annuncio che non dovrebbero tardare i nuovi contributi regionali,  la crescita potrebbe proseguire. Insomma buone notizie che possono favorire la scelta del mezzo elettrico grazie alla somma dei diversi contributi e bonus stabiliti dai diversi enti pubblici.

C’è grande attenzione sul tema dell’auto elettrica ed anche forte curiosità. D’altronde nell’area padana il periodo è il peggiore per la qualità dell’aria, mentre i blocchi del traffico creano apprensione. Il settore dell’auto pesa sul PIL e le ricadute non sono solo economiche ma ambientali, sulla salute delle persone e sulla qualità della vita.

Eppure sull’auto c’è altrettanta disinformazione per non dire pregiudizio. Dietro le “quattro ruote” c’è da sempre una carica ideologica perché l’auto rappresenta lo status symbol per eccellenza, con il retro-pensiero (vecchio) che il povero possa permettersi solo il mezzo pubblico mentre il ricco mezzi privati e costosi.

In questi anni il settore è stato penalizzato da una pressione fiscale e da campagne contrarie che hanno ridotto sensibilmente i numeri di un comparto che offre lavoro a molti. Il numero dei mezzi acquistati ne ha risentito ed ancora di più i valori delle vendite. L’ultima Legge di bilancio con la penalizzazione delle flotte aziendali e la campagna stampa conseguenti sono stati l’ennesimo esempio negativo.

Negli ultimi anni la battaglia a favore dell’ambiente, almeno da parte di molti, è stata spesso più di slogan che di reale informazione. Il diesel è bandito. Roma è l’esempio recente più eclatante di demagogia al servizio della politica.

Nella nostra Provincia il calo registrato delle vendite delle auto diesel tra il 2018 e il 2019 è del 28,3%. Ben 3.407 auto in meno a gasolio contro 2.996 auto in più a benzina e 122 (da 51 a 173) di auto elettriche. Allora la prima domanda è d’obbligo. Siamo certi che vendere auto a benzina anziché a gasolio sia la soluzione del problema?

Inoltre riteniamo che il profilo degli acquirenti di un auto elettrica sia elitario. Perché i costi di acquisto, al netto degli incentivi sono ancora troppo alti. Da un punto di vista sociale la nuova mobilità abbatte quindi i divari o li acuisce?

Eppure dal circolo non si esce. Le scelte politiche collegate all’auto sono spesso incongruenti con accelerazioni e brusche frenate in una direzione e nell’altra. Non è un caso che in Italia solo il 4,8% delle nuove auto vendute siano elettriche o ibride contro il 60,1% della Norvegia, il 14,5% della Finlandia, il 13,8% della Svezia e l’11,3% dell’Olanda.

Gli incentivi (limitati) da soli non bastano. Occorre agire su iniziative di valore culturale e su proposte semplici che cerchino di cambiare gli stili di vita delle persone, da noi ancora troppo basate solo sulla mobilità con l’auto. Le nostre città sono paralizzate dal traffico di automobili con una sola persona a bordo.

La nostra posizione è per una politica di equilibrio. Il nostro futuro si giocherà molto sulla qualità della vita nei centri urbani. Le città dovranno essere più belle, sicure e pulite. L’aria è determinante. Per il turismo poi il fattore sarà decisivo.

Allo stesso tempo non possiamo buttare la mobilità senza avere oggi una reale e concreta alternativa. Per le imprese non è pensabile sostituire in toto i loro mezzi senza certezza di ritorno dell’investimento. Le merci devono essere consegnate. Le persone devono poter andare a lavorare. Infine un settore così importante per l’economia come quello dell’auto non va abbattuto con l’incertezza e la demonizzazione.

Serve la consapevolezza e la pazienza che sulla mobilità elettrica siamo all’inizio. E’ un passo in avanti in una strada che sarà lunga e in salita. Per cambiare un parco auto, che in Italia è di 36 milioni di mezzi, serviranno molti anni e forti investimenti. Non meno di vent’anni passando probabilmente per l’auto ibrida e forse anche attraverso l’arrivo delle auto a idrogeno.

Sarà comunque importante arrivarci il prima possibile e ciascuno dovrà fare la sua parte.

 

 


Il terziario è a due velocità, vince chi corre e investe

È un terziario a due velocità quello bergamasco fotografato dall’Osservatorio di Format Research e presentato pochi giorni fa in Ascom Confcommercio Bergamo.

Dal quadro economico emerge che i settori del commercio turismo e servizi continuano a crescere e a conquistare quote sempre più significative dell’economia bergamasca pur in un contesto non favorevole. Il clima di fiducia degli imprenditori sta peggiorando soprattutto per lo scenario politico di incertezza.

La ricerca esprime la difficoltà delle nostre imprese e la loro minore propensione all’investimento rispetto ai periodi pre-crisi sia pur con dei distinguo. La nostra provincia, dietro la locomotiva milanese, rappresenta uno dei territori di grande rilevanza economica che continua a crescere perché investe. Questo non depone certamente a favore di un Paese- l’Italia- che sembra stanco e demoralizzato, lontano parente di quello che fu.

È l’osservatorio del credito bergamasco a stupire. I dati riferiscono di una domanda di credito nettamente superiore a quella del quadro nazionale e anche del territorio del nord ovest. Segnale che le imprese stanno reagendo pur nelle difficoltà.

Eppure sono due i dati che confermano questo aspetto. Innanzitutto il ricorso ai finanziamenti, che vede la domanda di credito tra le più alte del nord ovest con una risposta da parte del sistema bancario significativa (solo il 6% delle richieste viene cassata, e oltre il 60 per cento accolta per l’intero ammontare). Il sistema bancario ha liquidità e la mette a disposizione delle imprese per sostenere sia ristrutturazioni che per supportare investimenti. Il credito costa (lo dimostrano i dati sulla percezione dei prezzi del finanziamento, istruttoria, garanzie richieste e durata) però il rapporto tra banche e imprese funziona. Lo studio conferma la tendenza che vede le imprese del turismo e dei servizi più dinamiche di quelle del commercio, che soffre il cambiamento delle abitudini di spesa e la concorrenza dell’on-line.

Esiste un grande gap tra le imprese piccole, che faticano a riorganizzarsi e a investire e le medie e grandi che invece proseguono sulla strada del cambiamento.

Preoccupa in questo senso che il 72% per cento delle imprese del terziario non abbia chiesto credito alle banche, nonostante la difficoltà di far fronte al proprio fabbisogno finanziario. Forse si accetta un po’ svogliatamente di stare fermi.

Ma c’è chi guarda avanti. Il dato in maggiore controtendenza è quello del ricorso alla forza lavoro. L’indice è cresciuto negli ultimi sei mesi dal 49,4 al 50,7. E tra le imprese che rilevano un miglioramento dell’occupazione, il dato più alto di tutti, a quota 54%, è relativo alle imprese più piccole, da 2 a 5 addetti. Quindi le grandi imprese sono fiduciose perché tagliano il personale, mentre le piccole sono pessimiste ma reagiscono assumendo. Segnale quindi che, in questo quadro economico molto fluido, esistono percezioni e reazioni completamente opposte.

Tornando agli investimenti, il 28% delle imprese del terziario bergamasco ha chiesto credito anche negli ultimi sei mesi. Di queste il 39,9% per necessità di investimento. Da una parte ci sono quindi imprenditori che sono convinti di poter fronteggiare questo mercato, che investono, ricorrono a strategie nuove e a canali di comunicazione e di vendita innovativi. Facendo due calcoli approssimativi, potrebbero essere una o due su dieci a seconda del settore.

Non potremmo essere lontani dalla realtà nel sostenere che potrebbero corrispondere a quel 27% di imprenditori che il Focus sulla digitalizzazione ha individuato come investitori in innovazione tecnologica, che comprendono anche coloro che usano capitali propri e al netto di coloro e faranno investimenti in altri ambiti non tecnologici. In questa doppia velocità che sembra caratterizzare le imprese del terziario è invece il gruppo che è in ritardo. Sette-otto imprese su dieci sono ancora disorientate e ferme nell’attesa di buone nuove. Stanno cercando di sopravvivere in attesa di tempi migliori, aspettando cioè che siano il quadro politico e commerciale a far riprendere quota al commercio. Noi ci crediamo poco e li invitiamo a reagire.


La città del futuro si ridisegna con il commercio

Non esiste rigenerazione urbana senza commercio. Il concetto emerge chiaramente dall’edizione 2019 di Urbanpromo progetti per il paese  -, la tre giorni di lavori conclusasi venerdì 15 novembre a Torino, nello splendido recupero edilizio dell’ex fabbrica dismessa del centro Nuvola Lavazza. 

Il commercio è servizio, integrazione tra funzioni, e congiunzione di relazione sociale tra le diverse componenti che compongono il mix equilibrato del processo di recupero di un area in difficoltà.

Che il commercio sia vitale noi lo sosteniamo da decenni, solo che  prima eravamo i soli. Oggi questo pensiero è condiviso con ANCI, l’associazione dei Comuni e INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica che hanno incentrato l’edizione torinese di Urban Promo su rigenerazione e social housing.

La programmazione commerciale e urbanistica sono sempre stati complementari eppure fino a qualche anno fa erano mantenute separate, forse perché l’urbanistica produceva gettito mentre il commercio impiegava risorse.

Oggi commercio e urbanistica devono viaggiare a braccetto. D’altronde il tema della rivitalizzazione è centrale nelle politiche sociali, ambientali e di sostenibilità che oggi riempiono le agende delle pubbliche amministrazioni. Il commercio è determinante per queste scelte e per raggiungere questi obiettivi.

Le normative di Regione Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, oggetto di comparazione nella sessione della Rigenerazione urbana della manifestazione, confermano alcune direttrici comuni a cui si allineerà a breve anche la Regione Piemonte. Il primo passo comune è la riduzione del consumo di suolo, con l’esempio più pregnante di azzerarlo, con il “tasso zero” nel 2050 di Regione Emilia Romagna. Se la tendenza generale è lo spostamento degli attrattori nei centri urbani con l’appesantimento degli oneri per le medie e grandi superfici esterni, ad essere più rigida tra le Regioni è il Veneto. 

Aldilà delle pieghe delle norme, quello che appare a tutti evidente è che la rigenerazione sarà in futuro più difficile di prima. Perché l’assioma secondo cui la rigenerazione coincide con l’apertura di nuovo grande ipermercato non esiste fortunatamente più. Forse anche per le normative più rigide, come quella di Regione Lombardia per le grandi superfici di vendita, ma soprattutto per il venir meno degli investitori. Il commercio elettronico è  ora lo spauracchio per nuovi grandi progetti basati solo sul commercio.

Mancano quindi nuovi modelli di coinvolgimento degli imprenditori privati.

Regione e Comuni non potranno più limitarsi a dare le opportune autorizzazioni e delegare all’investitore privato la regia dell’intera operazione. Dovranno invece essere attivi nella costruzione e nella gestione di nuovi partenariati.

Quale sarà il ruolo dei piccoli e medi imprenditori del terziario? Anche per lo loro la sfida sarà cruciale Serviranno visione, capacità di investimento, innovazione per partecipare da protagonisti. Serviranno maggiore collaborazione tra operatori e quindi un deciso cambio culturale.  


Per cambiare le competenze dobbiamo cambiare la scuola

Non importa arrivare pronti ma preparati.

È questo il messaggio forte che esce dal XII° forum dei Giovani imprenditori Confcommercio, tenuto nella splendida cornice del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze.

Il titolo del resto già richiama il tema: pensiero in azione con sottotitolo formazione, competenza, crescita. A condurlo in postazione podcast Raffaele Tovazzi, primo “filosofo esecutivo”, che ha incalzato presidenti, politici e professori prima che diverse esperienze confermassero la necessità di cambiare

L’Italia, secondo una ricerca di Unioncamere sta perdendo imprese giovanili. Ben oltre il calo demografico dei giovani che ha caratterizzato gli ultimi otto anni.

Sta scemando la propensione al mettersi in proprio. Eppure la stessa ricerca evidenzia che in linea teorica per i giovani l’attività in proprio rappresenta per la stragrande maggioranza un ideale di grande soddisfazione.

Cosa sta avvenendo? I giovani vogliono fare altro oppure la paura di non farcela sta prevalendo. È vero che secondo la stessa ricerca le imprese giovanili riescono ad esprimere maggiore longevità solo dopo un periodo di otto anni. Troppi nel mondo di oggi e i giovani lo sanno. Pensare di andare a regime dopo un così lungo tempo è un’impresa titanica in un mondo che in tre o cinque anni cambia totalmente.

Questo seleziona i potenziali imprenditori lasciando campo solo a coloro che non hanno una reale alternativa, riducendo il potenziale d’impresa.

Il problema non è solo un fatto quantitativo, ma di sopravvivenza e sviluppo delle imprese, soprattutto delle più piccole. Perché se non si trova la chiave per competere difficilmente si invertirà la tendenza al disimpegno e abbandono, anche nel ricambio generazionale.

Serve competenza. Alzare il livello medio e puntare a nuove skill.

La scuola non risponde appieno a questa esigenza. È vecchia di impostazione, pesante e costosa.

Il messaggio non vuole essere uno schiaffo alla cultura, anzi. Senza cultura non si può nemmeno competere, impensabile anche progredire. Il colpo è alla teoria. La cultura deve farsi umile e porsi al servizio del saper fare. Un sano pragmatismo può aiutare tutti all’affermarsi nel lavoro. Nel mettersi in proprio innanzitutto come nel lavorare “sotto padrone”.

Deve cambiare il sistema dell’educazione.  Veniamo da un’era in cui si studiava a scuola, si lavorava e si andava in pensione. Preistoria. Si impara tutta la vita, se si vuole sopravvivere.

La formazione deve rispondere più e meglio alle mutate esigenze. Deve spingere in avanti e non rincorrere. Nessuna presunzione di conoscenza. Le nozioni diventano vecchie in un battibaleno. Serve metodo.

La macchina scuola non può essere funzionale solo a sé stessa ma deve esserlo rispetto al sistema. Altrimenti va smontata fin dalle fondamenta. Non è possibile che i giovani scontino al primo impiego l’assenza di competenze per lavorare. Quindi la non preparazione. I costi di apprendimento li deve sostenere l’imprenditore e in una fase come quella attuale questo è troppo costoso.

Se l’alternanza non funzionava non è con la riduzione delle ore che abbiamo migliorato la situazione. Se lo stage è un sistema rigido e non adatto alle piccole e medie imprese, allora va cambiato. Serve reale flessibilità in ingresso nel lavoro trovando le soluzioni che aiutino a crescere le professionalità. L’apprendistato è valido ma non basta perché costa ancora troppo per l’impresa.

Concentriamoci sulla formazione lavorando sull’autoimprenditorialità, insegnando le competenze e l’utilizzo delle nuove tecnologie a scopo professionale. Creando le premesse per una nuova generazione di aspiranti imprenditori in grado di competere.

Per farsi trovare preparati ancora prima che pronti.

 


Le spese obbligate mortificano i consumi di beni. Disinneschiamo la bomba dell’IVA

I consumi di beni e servizi delle famiglie italiane tornano a crescere sia pur in un quadro di grande debolezza. È questa la sintesi della nota di aggiornamento sui consumi delle famiglie e le spese obbligate, diffusa qualche giorno fa dall’Ufficio Studi di Confcommercio, che evidenzia un recupero della quota di spesa nei beni e nei servizi.
Ogni italiano spende in media 18.089 euro all’anno, per i quali, però, non ha potere di scelta per circa 7.377 euro, quasi la metà!

Questo punto è basilare. Le spese obbligate, quelle costituite dall’abitazione, sanità, assicurazioni, carburanti, ecc. hanno di fatto preso il sopravvento nel bilancio delle famiglie. Rappresentano il 40,8% del totale della spesa e sono diminuite di circa un punto percentuale (–1,1%9 dal 2013 ad oggi, grazie soprattutto al contenimento del costo dei carburanti, ma cresciute del 4,3% dal 1995. Si tratta per lo più di oneri per beni e servizi a cui i consumatori rinuncerebbero volentieri, ma che devono sopportare senza possibilità di scelta. Per giunta, quindi, sono spese poco democratiche.

Queste uscite incidono sulla difficoltà delle famiglie di ritornare ai livelli di consumo precedenti la recessione.

Nel 2019, nonostante la modesta ripresa degli ultimi anni, la spesa per abitante, ai prezzi dell’anno in corso, dovrebbe risultare inferiore di oltre 830 euro rispetto al 2007. Solo in tre ambiti – il tempo libero, i viaggi e le vacanze comprese uscite per alberghi, bar e ristoranti – i consumi sono in crescita. Al di là di questioni demografiche e sociali, si consuma più fuori casa e meno in casa per una diversa allocazione del tempo tra lavoro domestico, lavoro retribuito e svago.

L’altro elemento importante è la terziarizzazione dei consumi: si spende più per servizi che per beni. I servizi incidono sulla qualità della vita (alberghi ristorante benessere ecc.) e mostrano una costante e significativa espansione, dal 17,4% della spesa nel 1995 al 21,5% del 2019 con + 4,1%.

Comunque, anche il consumo di beni torna a crescere, soprattutto per il peso dell’acquisto dei beni durevoli, in particolare autovetture. L’acquisto di prodotti incide per il 37,7% del bilancio familiare e mette a segno + 0,4% rispetto al 2013, ma una contrazione decisa (- 8,3%) rispetto al 1995. La perdita di peso in quasi 25 anni è soprattutto sui prodotti non alimentari, segnale del cambiamento epocale negli stili di consumo (meno abbigliamento e calzature per capirci), contro la riduzione -2,9% per i beni alimentari (per i maggiori consumi fuori casa). Il moderato recupero dei beni realizzato negli ultimi anni è stato sostenuto principalmente dai durevoli, soprattutto autovetture, i cui acquisti erano stati fortemente compressi nei periodi precedenti.

Tornando alle spese obbligate, almeno per molte di esse, i relativi prezzi si formano in regimi regolamentati e, comunque, in mercati scarsamente liberalizzati. Nel ventennio si è molto detto e fatto (male!) in tema di liberalizzazione del commercio, mentre si sono fatti pochi passi in avanti per rendere taluni mercati dei servizi realmente concorrenziali. Lì la spesa degli italiani è letteralmente esplosa.

Cosa dire. In un quadro come l’attuale l’aumento dell’IVA potrebbe essere il “colpo di grazia” al commercio. L’aumento dell’IVA sulle spese obbligate, del resto in un territorio dove le case sono per lo più di proprietà, sottrarrebbe risorse pesanti, ben oltre la sua incidenza percentuale con un reale collasso dei consumi. L’appello è quindi al nuovo Governo: fermiamo la bomba, disinneschiamo l’aumento dell’IVA.


Rigenerazione urbana, i presupposti per la revisione delle regole ci sono

La rigenerazione urbana non è un tema del futuro ma un’esigenza attuale. Negli ultimi vent’anni la maggior parte delle città in Italia hanno guadagnato in abitanti e in metri cubi di cemento ma hanno anche perso qualità della vita. Gli indici concordano sull’arretramento.
Esistono delle dimensioni come quella sociale e ambientale che mostrano un netto peggioramento coinciso peraltro con la riduzione dei trasferimenti dallo Stato agli enti locali.
Il tema non è cruciale solo per l’Italia ma per l’intera Europa. Perché il 72 per cento della popolazione dell’Unione europea vive nelle città e nei loro sobborghi. Quindi è un’esigenza diffusa.

In Confcommercio è stato presentato il nuovo accordo per la rigenerazione urbana tra la confederazione del terziario e ANCI, sottoscritto qualche settimana fa. Per noi costituisce una grande opportunità. La presentazione del protocollo è coincisa con l’illustrazione delle buone pratiche in molte città: i Sindaci e le associazioni si sono organizzati per produrre una progettualità di contrasto alla desertificazione commerciale e al degrado. Bergamo, più volte citata, è un esempio di grande rilievo insieme a Parma ed a Ancona.

Il Governo, secondo le parole del viceministro Massimo Garavaglia intervenuto alla riunione, è concentrato sulla riforma fiscale che dovrebbe dare fiato alle imprese. Se per noi la questione fiscale con in primis il disinnesco dell’aumento dell’IVA è prioritario, non dobbiamo dimenticare che il nostro settore ha bisogno di grandi interventi.

Il primo è la revisione del piano delle regole sulla distribuzione commerciale. Il decreto Bersani a più di vent’anni dalla sua introduzione è ormai vecchio di impostazione e incapace di garantire l’obiettivo per il quale era nato, ossia garantire lo sviluppo equilibrato della distribuzione commerciale in ogni sua forma. Basta pensare che quando è stato emanato il commercio elettronico non c’era ancora e non è un caso che manchi qualsivoglia regolazione per l’apertura di poli logistici che movimentano milioni di fatturato e di mezzo commerciali. Inoltre la Bolkestein ha reso inefficaci i piani di Governo dei Comuni, aprendo alla Babele delle medie superfici di vendita.

Bergamo città ed altri comuni della nostra Provincia, in collaborazione con le associazioni, stanno facendo spesso i salti mortali per mantenere la qualità e l’attrattività dei centri storici ma da soli non ce la possono fare.

I presupposti per la revisione delle regole ci sono. Se nel 1997 Confcommercio e ANCI stavano su posizioni diametralmente opposte, oggi l’indebolimento delle città e la rigenerazione attraverso la funzione del commercio è un interesse comune. Questa unitarietà di intenti potrebbe favorire visioni coincidenti. Centri logistici, medie e grandi strutture di vendita sono da rimettere sotto controllo mentre il consumo di suolo va bloccato.

Il secondo passo è la valorizzazione del partenariato. Non si può sempre lasciare all’iniziativa di pochi illuminati amministratori e delle Associazioni il contrasto di ciò che non funziona. Le esperienze di collaborazione tra pubblico e associazione hanno dato risultati positivi. Il metodo deve essere valorizzato, devono essere favoriti nell’accesso ai fondi.

Occorre tornare a parlare insieme di pianificazione del commercio. Vent’anni fa serviva liberalizzare oggi invece occorre proteggere gli esercizi che svolgono un servizio alla comunità. I Comuni devono tornare a poter stabilire le regole per l’insediamento di nuove attività, mettendo l’interesse della comunità al di sopra di quello del privato cittadino. Non le chiameremo più tabelle merceologiche ma dobbiamo prevedere cosa serve e come favorirlo. Ritorno al passato? Forse. Anche però un grande salto nel futuro perché le città green e Smart hanno bisogno di recuperare il commercio e la qualità della vita.


“Per non mangiarsi il futuro” prima che sia troppo tardi

Il manifesto “Per non mangiarsi il futuro” lanciato dalla nostra Federazione Italiana Pubblici Esercizi e sostenuto da Ascom Confcommercio Bergamo non è una trovata pubblicitaria.

Il grido di allarme della Federazione è un appello a tutte le forze politiche perché tutelino le imprese del settore, schiacciate tra la liberalizzazione selvaggia e la concorrenza sleale di altre categorie. E’ un problema serio che attanaglia bar e ristoranti in un settore che cresce nei consumi fuori casa ma che sta impoverendo tutti.

L’agenda politica deve mettere al centro il ripristino di condizioni di uguaglianza tra coloro che fanno lo stesso lavoro e si rivolgono allo stesso mercato. Settore agricolo, circoli privati, terzo settore, home restaurant, street food ecc. ecc. Non si migliora l’economia italiana concedendo scorciatoie in assenza di regole. O meglio, non si possono concedere vantaggi a qualcuno e mantenere una caterva di adempimenti a carico di altri.

Le nostre imprese, bar ristoranti, pizzerie, trattorie, locande ma anche alberghi non vogliono privilegi. Non ne hanno mai avuti e i loro successi se li sono conquistati con la fatica e la passione. Fanno fatica a sopravvivere eppure si sentono abbandonati a loro stessi.

Vogliono però che le regole valgano per tutte. Stesso mercato stesse regole perché ci sia competizione. Con la concorrenza le imprese possono migliorare. Chi è più bravo può crescere e la qualità migliora.

Ciò che sta avvenendo mortifica chi fa qualità e il servizio la cliente.

Sono decine di migliaia i lavoratori dipendenti e i collaboratori familiari delle imprese della ristorazione e dei pubblici esercizi della nostra provincia. Persone che lavorano con professionalità e la cui tutela passa attraverso il riconoscimento del ruolo e del contratto Collettivo per essi sottoscritto. Svilire il servizio significa mettere a rischio la stabilità del loro posto di lavoro, la loro dignità e il futuro delle loro famiglie.

“Per non mangiarsi il futuro” prima che sia troppo tardi.

Si può firmare la petizione qui


Non è questione di innovazione ma di semplice riduzione dei costi

Quello che sosteniamo da anni è confermato dai numeri. Non è questione di essere avanti o indietro, di essere innovatori o retrogradi, gli imprenditori del terziario non amano i pagamenti elettronici per un solo motivo: i costi eccessivi.

E’ vero che la moneta virtuale ha una serie di vantaggi, a partire dalla sicurezza rispetto alla gestione del contante e del miglior servizio al cliente, ma è altrettanto vero che tali vantaggi non producono risparmi di costi o maggiori ricavi.

Sicuramente alcune responsabilità ce l’hanno anche i commercianti, un terzo dei quali ancora oggi fatica a distinguere le carte di credito da quelle di debito (ma conosce esattamente la differenza dei costi delle commissioni tra carta di credito e Pagobancomat!).

Eppure, nonostante questo, il numero delle operazioni di pagamento elettronico aumentano rispetto a quelle con il contante, i volumi dei ricavi con il POS crescono mentre la soglia per l’utilizzo della tesserina magnetica si abbassa.

Il mondo del commercio si divide tra due grandi parti. Coloro che si limitano ad un’accettazione minima dei pagamenti elettronici e coloro che invece cercano di utilizzare anche lo strumento di incasso come servizio e opportunità al consumatore. Nei primi sono molti coloro che non hanno margini o volumi d’affari che consentano di sopportarne i costi alti dello strumento.

Resta alta e quasi totalitaria la percezione che le commissioni non siano realmente scese dopo l’introduzione del Regolamento europeo sulle commissioni interbancarie. E’ significativo, per esempio, che solo un imprenditore su due (il 49,1%) si sia rivolto alla sua banca per chiedere una riduzione delle commissioni o per poca informazione o per negligenza; ma è preoccupante che il 45% di questi, quindi un imprenditore su quattro del totale del terziario, abbia ricevuto risposta negativa dalla banca.

La ricerca mette in luce quello che più incide sulla scelta dei commercianti: costi non sono solo per le commissioni ma anche per l’acquisto, il noleggio del POS, l’installazione, per il canone mensile e altri accessori (linea telefonica, addebito con RID, estratto conto e accredito giornaliero). Tutto ciò rende il quadro della spesa molto più pesante di quanto indicano le semplici commissioni, soprattutto per chi il POS lo utilizza poco. La sensazione di essere spremuti resta quindi alta negli imprenditori.

Non è un caso che la proposta degli imprenditori intervistati per la crescita finale della moneta elettronica sia univoca: contenere le spese delle commissioni, di installazione e per gli accessori come richiesto dal 91,4% degli intervistati.


Soffrono il commercio e le micro e piccole imprese che cercano di reagire

Non è un momento facile per la nostra economia. L’Osservatorio del terziario commissionato da Ascom Confcommercio a Format Research evidenzia che il clima di fiducia delle imprese del terziario orobico sta peggiorando.

Nella nostra provincia le aspettative restano comunque alte, addirittura migliori rispetto alla media nazionale: solo, si fa per dire, il 27% degli imprenditori ravvisa un peggioramento dell’economia italiana, meno che a livello nazionale (45,6%), mentre il 15% sono ottimisti. Il clima di fiducia è pari al 44% contro il 30,7% a livello nazionale. il dato non è omogeneo: pessimista resta il commercio la cui fiducia è precipitata al 29,8%, il turismo si attesta al 46% e i servizi al 47,2%. 

Anche le dimensioni di impresa influiscono sulle aspettative per il futuro, con una forte differenza: le imprese con un addetto fiduciosi sono il 28,2%, quelle con due-cinque addetti il 28,5% e quelle sopra i 49 fino al 50%. 

In altri termini i più pessimisti restano i commercianti, rispetto agli operatori del turismo e dei servizi, e i piccoli imprenditori che avvertono maggiormente le difficoltà.

Il fattore chiave del peggioramento sta nella previsione sull’andamento dei propri ricavi: il 53,5% degli imprenditori dichiara di attendersi ricavi almeno pari o superiori. Una fiducia superiore a quella nazionale (40%) ma comunque in discesa: 43% per le imprese con un addetto, 46% per quelle con due-cinque addetti, 66% per le attività con più di 49 addetti. 

Se spaventa che un imprenditore su due tema un peggioramento dei suoi ricavi è la forbice tra le categorie ad essere significativa. Venti punti di differenza sulle previsioni dei ricavi evidenziano l’abisso nella fiducia nel futuro tra le imprese piccole e quelle grandi. Anche qui è il commercio il settore più in difficoltà e quindi pessimista: 43,3% contro il 52,6% del turismo e il 59% dei servizi. 
Mentre la dinamica dei prezzi di materie prime e merce e i tempi di pagamento seguono la stessa linea delle previsioni dei ricavi, con le difficoltà dei piccoli e del commercio, quello che si rileva nell’occupazione costituisce l’aspetto più significativo della ricerca. 

La curva dell’occupazione va esattamente al contrario rispetto alle previsioni dei ricavi e quindi alle dimensioni: le piccole imprese, che sono quelle che avvertono maggiormente la difficoltà, stanno producendo lo sforzo massimo sulle assunzioni per risalire la china, mentre le imprese più grandi, che sono più ottimiste, stanno razionalizzando prevedendo la diminuzione degli occupati. 
In conclusione, le imprese del terziario bergamasco sono pessimiste ma non demordono e anche le più piccole restano reattive.