La Regione riforma la sanità, ma intanto prenotare un esame resta un’odissea

Bright lights at the end the hospital corridor. The concept of lA furia di sentirsi ripetere che “La Sanità lombarda è la migliore d’Europa” e che quello di cui noi bergamaschi disponiamo è “un modello di efficienza” finisce quasi che ci credi. Pensare bene, in fondo, aiuta a vivere meglio. Solo che poi, ottimismo della volontà a prescindere, ci sono le variabili indipendenti che si chiamano malattie e acciacchi vari. Quelle che nessuno vorrebbe (“l’importante l’è la salute” ti dicono fin da ragazzino, e solo in età adulta capisci che non è solo un luogo comune) ma che inevitabilmente funzionano da “crash test” nei confronti dei tanti venditori di fumo che magnificano un sistema tutt’altro che impeccabile.

Mettiamo il caso di aver bisogno di una risonanza magnetica. Il problema fisico che ti affligge è doloroso, vorresti cercare di capirne al più presto le cause. Se vai per vie tradizionali l’esame ti viene fissato “tranquillamente” a distanza di 3-4 mesi. “Se vuole può andare in privato – rassicura al telefono l’addetta di un ospedale -. In due giorni fa tutto. Ecco, però, deve mettere in conto che l’esame le costa 600 euro…”. Quando star male è un privilegio, vien da dire. Allora, siccome il dolore persiste e non c’è troppo tempo da perdere, si torna dal medico curante che ha la possibilità di avviare l’esame su una corsia preferenziale grazie al cosiddetto “bollino verde”. (Il camice bianco sbotta: “son stanco di dover mettere ‘sti bollini, tutti hanno fretta di fare i controlli prima di andare in ferie…”, il che lascia intravedere quanta e quale discrezionalità, oltre che responsabilità, si lascia al povero tapino). Con il “bollino verde” sulla ricetta (prestazione da erogare entro 72 ore, dice la normativa) si parte per un nuovo giro di giostra. Si parte dal call center regionale che dovrebbe, sì dovrebbe, avere sotto controllo tutto. Prima di parlare con una operatrice si trascorre un quarto d’ora a digitare numeri per stabilire se si è di Milano o della Lombardia, se di Pavia o di Bergamo, se della città o della provincia (quasi una lezione di geografia a scalare). Poi ecco la vocina della “sventurata” (suo malgrado). “Noi possiamo verificare solo la disponibilità del Bolognini di Seriate” dice. E tutte le altre aziende? “Non ci fanno avere i dati… Mi spiace”. E a Seriate quando si può fare l’esame? “Adesso verifico. Prima mi dia i suoi dati, il codice fiscale, il codice a barre, la patologia, la diagnosi… Ecco, no, guardi, non c’è posto. Mi dispiace…”. E cosa posso fare? “Deve andare a verificare di persona nelle singole strutture”. La rabbia monta a picchi himalayani, ma non serve prendersela con chi sta all’altro capo del telefono. Resta la sostanza: una persona che fatica a camminare e che proprio per questo ha bisogno di un esame urgente non è in condizione, nell’Anno Domini 2015 quando con un tablet si ordina il caffè al bar dell’angolo, di sapere dove, fosse anche lontano 20 km, ha la possibilità di usufruire della prestazione di cui ha necessità e che, ca va sans dire, è pagata con le tanto amate tasse. No, deve andare a fare il giro delle sette chiese, senza peraltro avere alcuna certezza di fare l’esame entro le famigerate 72 ore. Nemmeno un tentativo disperato di evitare la trafila sortisce risultati. Anzi, va anche peggio. Al telefono di una clinica la risposta è: “O viene di persona allo sportello oppure ci manda un fax”. Un fax? Un fax!!!! La posta elettronica pare non sia ancora stata inventata…

E allora? Si parte per la “caccia all’esame”, nuova disciplina olimpica inventata dagli stessi (o dai loro padri) che in questi giorni in Regione stanno discutendo la Riforma della Sanità. Il modello d’efficienza va ricalibrato, dicono, per renderlo ancora migliore. Come? Semplice, con il solito giochetto all’italiana del cambiare le parole. Spariscono le Asl (quelle che prima si chiamavano Mutua, poi Saub, poi Ussl, poi Usl, quindi Asl) e diventano Ats (Agenzia di tutela della salute, ciumbia!). Via le Aziende ospedaliere ed ecco le Asst (aziende socio sanitarie). Tutto cambia ma nulla cambia. Grande operazione di ingegneria parolaia che casca miseramente, agli occhi del modesto cittadino malato o acciaccato, di fronte all’impossibilità di prenotare un semplice esame come si converrebbe in un paese civile. E allora torna in mente quella frase (“l’importante l’è la salute”) come unica speranza perché continuare ad affidarsi agli apprendisti stregoni che ci governano significa avviarsi sulla strada dell’inferno.


Ballottaggi, ora Renzi provi a scendere dal piedistallo

Che legnata per Matteo Renzi. Inutile girarci intorno e rifugiarsi dietro l’alibi stantio “erano elezioni locali”. Chi per un anno ci ha riempito le orecchie, per tacer del resto, con il ritornello “ho preso il 40%, devo cambiare l’Italia” ora, dopo la botta della Liguria e le sonanti sconfitte di Venezia e Arezzo (ma su sette capoluoghi al ballottaggio il centrosinistra ne ha conquistati solo due…), sarà bene prenda atto che gli italiani sono tanti bravi ad innamorarsi follemente del fenomeno, vero o presunto, del momento, salvo scaricarlo non appena avuto il modo di verificare se ai proclami sa far seguire i fatti. Altro che sparare a salve contro gufi e civette, altro che piagnucolare per i dispetti dell’opposizione interna (masochista di suo ma obbligata in qualche modo a reagire alle frequenti smargiassate del Giovin signore di Firenze).

Le dinamiche locali hanno un peso, negarlo sarebbe ingiusto oltre che disonesto. E tuttavia il chiaro segnale dell’edizione 2015 delle amministrative (antipasto di un menù che di qui ad un anno metterà nel piatto città del calibro di Milano, Torino e Napoli) e’ duplice. Da un lato, indica che il metodo da one man show di Renzi mostra la corda. La sua corsa forsennata da battistrada isolato, auto investito del ruolo di salvatore della Patria, attira sempre meno sostenitori. Pensare di risollevare un Paese mettendosi sistematicamente contro tutto e tutti (ora i partiti, ora i sindacati, ora i giornali) può forse vellicare l’istinto solipsistico di chi, ricordate l’unto del Signore?, ha una visione della società da marchese del Grillo (“io so’ io, voi non siete un c…”), ma non aiuta a mettere in circolo tutte le energie di cui ci sarebbe bisogno. Tanto più in un momento di così gravi difficoltà.

E qui si passa all’altro segnale. Se dal metodo si passa al merito, beh il leader del Pd ha evidenziato parecchi limiti. Sulla gestione dell’ondata immigratoria, che tocca nella carne viva gli italiani e chiama in prima linea proprio i sindaci e i presidenti delle regioni, Renzi ha passato giorni a lanciare messaggi buonisti (mentre francesi e tedeschi, senza parlare degli inglesi, chiudevano le frontiere) senza prendere alcuna iniziativa. Pensava forse che gli elettori lo avrebbero premiato? Che nel centrodestra ci sia chi soffia beceramente sul fuoco e’ innegabile, e purtuttavia alle desolanti scene che arrivano dalle stazioni di Milano e Roma, oltre che dalle spiagge di Ventimiglia, non si può replicare con fervorini da boy scout. Anche l’accoglienza ha dei limiti e, soprattutto, delle regole. Ma Renzi ha di che rimproverarsi anche sul piano delle scelte dei candidati per le Regionali e le Comunali. Lo si è visto chiaramente: non è in grado di controllare il partito in sede locale. Di più: come dimostrano i casi Emiliano in Puglia e Rossi in Toscana, vincenti sono solo le figure provenienti dalle aree che il segretario Pd avversa. Si capisce che tutto votato com’è alla dimensione planetaria faccia fatica ad occuparsi dei cortili, ma non era lui che fino a poco fa si vantava di essere il “sindaco d’Italia”?

E infine, che dire dell’atteggiamento vagamente ondivago sulle tante inchieste che coinvolgono uomini del Pd, da Mafia Capitale in giù, o di altri partiti di governo? A seconda dei casi e delle convenienze Renzi fa il garantista o il giustizialista. Nella singola circostanza magari riesce anche ad arrivare dove vuole (per esempio, far fuori Lupi che pure non ha mai ricevuto un avviso di garanzia), ma alla lunga non riesca a gabbare gli italiani stanchi di vedersi investiti, ogni giorno che passa, da sempre nuove inchieste sul malaffare di chi campa su e attorno alla politica. Ci pensi bene, il premier, la vera sfida per lui inizia forse adesso. Metta da parte le ribalderie, si apra al confronto vero, si scelga collaboratori in grado di dargli un supporto più consistente della mera fedeltà sempre e comunque. Proprio dalle elezioni amministrative rimbalzano tante storie di italiani, spesso giovani, che hanno voglia di impegnarsi per cambiare le loro città e, quindi, il Paese. Le energie ci sono. Se Renzi scende dal piedistallo magari se ne accorge pure lui.


Caro Renzi, non faccia lo spiritoso ad oltranza

Di cosa abbiamo bisogno, noi Italiani? Cosa ci serve davvero, per trasformarci in un popolo normale? La risposta è semplice, anche se non risolve un bel nulla, come gli slogan sugli striscioni degli studenti. Ci servirebbero, partendo, come si dice, ab ovo, dei servizi e delle facilitazioni per le famiglie: tanto per quelle in prospettiva che per quelle che si sono già formate. Aiuti concreti per trovare una casa, per gli asili nido, per le maternità: in questo modo, magari, alla gente verrebbe voglia di sposarsi e di fare dei figli, e non ci toccherebbe gioire per una crescita demografica d’impulso esclusivamente extranazionale. Poi, bisognerebbe trasformare il mondo della scuola: evitare che si limiti a sfornare diplomi purchessia e ad assumere disoccupati, pure purchessia, ma far sì che prepari buoni cittadini, lavoratori capaci, uomini perbene. Lo stesso dicasi per l’università: servirebbero dottori preparati, a prescindere da corso, latitudine e parentele. Una classe dirigente che diriga: una classe subalterna che esegua con coscienza e merito. Avremmo tanto bisogno di leggi semplici e giuste e di magistrati che le applicassero senza filtri ideologici: senza rabbia né volontà di rivoluzionare la società, ma da bravi servitori dello Stato e del diritto. Ci occorrerebbe più ordine: che non vuol dire meno libertà, ma semplicemente meno casino. Ci servirebbe più sicurezza: per le strade, nelle case, sul lavoro. Avremmo bisogno di un mondo meno complicato, meno inquietante, più umano. E ci vorrebbe una politica che lavori per i cittadini e non per gli interessi di una categoria, di un gruppo familiare, di una congrega: gente normale che si adoperi per altra gente normale. Ecco, di normalità, soprattutto, avremmo bisogno: siamo stufi di sentirci ripetere che siamo dei fenomeni. Giorgio Armani, magari, sarà pure un fenomeno: la Juventus, la Ferrari, il Parmigiano Reggiano saranno anche strabilianti realtà che il mondo ci invidia: però, lo stipendio del ragionier Rossi, la pensione della sora Lella, le code agli sportelli, la sanità, la corruzioncella quotidiana, la vita normale di un cittadino italiano qualunque, state pur sicuri che non ce le invidia nessuno. E non ci consola sapere che Giorgio Armani veste le star del cinema, se non arriviamo a fine mese o se non troviamo da parcheggiare. Non abbiamo bisogno di ‘circenses’: ci accontenteremmo del pane.

Insomma, le cose che ci servirebbero per diventare grandi, per maturare come comunità e come cittadini d’Europa, non sono mica tanto difficili da indicare: sono lì, da vedere. Basta confrontarci con gli altri: con quelli che camminano spediti sulla strada della civiltà. Difficile immaginare Mafia Capitale a Stoccolma o gli esami passati per telefono alla Sorbonne. Certo, cose facili da individuare, ma difficilissime da realizzare. Però, ce n’è almeno una di cosa, di cui davvero non sentiamo la minima necessità e che, con un po’ di buona volontà e di impegno individuale, si potrebbe risolvere: le intollerabili pagliacciate di Matteo Renzi. Basterebbe che qualcuno gli spiegasse che, se dà il “cinque” ad un premier straniero in un incontro ufficiale, se sorride a vanvera facendo le smorfie sotto gli obiettivi della stampa internazionale, se fa la marionetta o il bambino svampito per posa e per fare lo spiritoso, gli altri lo prendono per un pirla. E lui non è soltanto lui: rappresenta anche noi. Siamo noi che passiamo tutti per dei pirla che non sanno l’inglese, che bofonchiano scemenze, che giocano col telefonino mentre gli altri parlano.

Così, tra le molte cose che il mondo non si sogna di invidiarci c’è anche questo farceur maleducato, che scambia la diplomazia per una festa di paese: prima, si limitavano a paragonarci a Pulcinella, mentre adesso c’è anche Stenterello a farci pubblicità. E vedere questo boy scout, esentato dalla leva, che parla ai miei alpini con addosso la mimetica personalizzata, la camicina bianca d’ordinanza e i bluejeans: vederlo fare il saluto militare con la sinistra, mentre fa più smorfie di Mr. Bean, quando sfilano le bandiere di guerra dei nostri reggimenti, mi fa capire quanto sia precipitato il senso della serietà, della semplice serietà, in questo benedetto Paese. A quando l’accoglienza della bara di un caduto in bermuda ed infradito, con Bob Marley nelle cuffiette?

Insomma, Renzi, lo faccia per noi, visto che, senza che nessuno l’abbia mai votata, bene o male rappresenta noi: si sforzi, stia composto, si faccia consigliare. Le parlo come parlerei ad uno scolaro un po’ discolo, ma non cattivo: solo, che debba ancora maturare un tantino. Non si fa. Lo so che non è un delitto scherzare su tutto, fare lo spiritoso ad oltranza: però, mi creda, non si fa. Siamo già abbastanza malvisti, bastonati e derisi per la mafia, la corruzione e i malcostumi nazionali, senza che ci si metta pure lei. Davvero: abbiamo bisogno di tante cose pressoché irrealizzabili. Però, almeno un presidente del Consiglio che si comporti ammodino è un obiettivo che possiamo raggiungere facilmente. Basta che lei ci metta un po’ di buona volontà.


Marketing territoriale, perché quello di Gori rischia di non decollare

Giorgio GoriProprio mentre il sindaco di Bergamo Giorgio Gori era in tour per la Lombardia a presentare il suo pacchetto di offerte “ruba imprese”, un articolo sul “Sole 24 Ore” titolava: “Carinzia, il flop delle delocalizzazioni”. Negli ultimi anni c’è stata un’intesa campagna da parte di amministrazioni svizzere e austriache per cercare di strappare aziende al Nord Italia facendole trasferire oltre le Alpi, attirate da apposite agenzie con il richiamo allettante di meno tasse, meno burocrazie, servizi efficienti e perfino qualche bonus.

L’impressione è che di questi trasferimenti si sia parlato più di quanto si sia concretamente fatto, ventilandoli in maniera strumentale come una minaccia per chiedere attenzione.

Allo stesso modo diventa in ogni caso un simbolo l’evento, non smentito e non confermato, di un’azienda padovana che avrebbe rinunciato allo spostamento al di là del confine annunciato dopo che le è stato ripetutamente bloccato un ampliamento nel Triveneto. L’agenzia austriaca Aba Invest che si occupa della ricerca di nuovi imprenditori esteri a fronte di questa possibile defezione ribatte che l’anno scorso ha realizzato 31 progetti di insediamento aziendale (su 484 coordinati) e di questi 25 arrivano dall’Italia per un totale di 155 posti di lavoro. Nel totale, considerate le dimensioni, non ci sono solo industrie, ma anche attività di ristorazione, con il sospetto, considerate le dimensioni, che ci siano anche diverse operazioni legate a filiali commerciali e di distribuzione che sarebbero state realizzate comunque. E da Unioncamere veneto arriva anche l’indicazione che a prendere la strada dell’estero siano prima di tutto le sedi legali per cogliere le agevolazioni, continuando a parlare italiano.

Lo scenario austriaco dimostra che il marketing territoriale non è necessariamente di successo, nemmeno quando si offrono condizioni effettivamente allettanti, come contributi a fondo perduto o imposte al 25% tutto compreso. Nel pendolo dell’economia, dalla delocalizzazione prima verso l’Est Europa e poi verso l’Estremo oriente adesso si è piuttosto al ritorno delle industrie. E’ il fenomeno del reshoring, perno della politica industriale degli Stati Uniti, che però inizia a vedere qualche caso anche in Europa, di fronte a bassi costi di produzione non più così bassi, valute non più così convenienti e anche la scoperta che all’estero non si incontrano certi problemi, ma se ne trovano di altri, a volte anche più gravi. Il risultato è che nell’annuale Fdi Confidence Index di A.T.Kearney, l’indice che misura quanto un Paese è nelle priorità dichiarate dagli investitori internazionali nel corso dell’anno, l’Italia, che, tra il 2007 e il 2013, era fuori dalla classifica dei primi 25, è rientrata al 20° posto nel 2014 ed è salita al 12° quest’anno, davanti, tra l’altro, anche a Svizzera e Austria.

Il piano di Bergamo comunque non ha obiettivamente ambizioni internazionali. La portata è modesta. Gli interventi del Comune si tradurranno essenzialmente in un’Imu agevolata allo 0,76% anziché all’1,06%, uno sconto fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per la riqualificazione di vecchi stabilimenti inutilizzati, piani attuati per stralci, semplificazione amministrativa e digitalizzazione delle pratiche. Meglio che niente si può dire, anche se alla fine per un’azienda dove il peso della proprietà immobiliare è marginale l’interesse è ridotto, se non nullo. Si può escludere che una multinazionale possa decidere di insediarsi a Bergamo solo per cogliere queste offerte. Ma probabilmente sarà difficile che qualcuno si sposti anche solo da fuori provincia. Perché l’idea pur essendo valida – ma forse sarebbe bene pensare non solo a chi arriva, ma anche a chi c’è già – sconta il limitato raggio d’azione che un’amministrazione comunale, seppure di buona volontà, può avere nel fare marketing territoriale sul piano economico. Lo sconto sulle tasse da una parte viene compensato dall’aumento di altri costi, non fosse altro che quello del trasporto. Ma poi c’è anche la concorrenza di altre amministrazioni. Basti vedere, ad esempio, il ginepraio delle addizionali regionali, solo un caso tra i tanti. In Veneto è prevista un’aliquota unica all’1,23%, in Lombardia arriva a un massimo dell’1,74% sull’aliquota superiore, in Emilia sale fino al 2,33% e in Piemonte arriva al 3,33%. Un divario di oltre due punti che può vanificare, quando un’azienda fa i conti generali, le offerte promozionali di un Comune di buona volontà.


Siamo al ridicolo! Ora si encomia anche la normalità

La notizia dovrebbe essere quella che Beppe Parazzini ha ricevuto dalle Forze Armate un encomio, per il suo valoroso comportamento, in occasione della manifestazione in cui i Black Bloc hanno messo a ferro e fuoco un paio di strade, nel centro di Milano. Dico dovrebbe, perché si tratta di una non-notizia: che Parazzini, già presidente nazionale dell’Ana, fosse persona di valore si sapeva, senza bisogno di attestati da fuori. Che le nostre Forze Armate fossero diventate tanto molli da encomiare un comportamento semplicemente dignitoso è ancor meno stupefacente: un capo di stato maggiore ha appena approvato una legge che equipara i disertori fucilati nella Grande Guerra ai caduti combattendo per la Patria, per cui non mi stupisco più di niente. Dunque, in questo Paese, basta compiere un gesto eroico come esibire al balcone la bandiera nazionale per essere encomiati ufficialmente: se resisti impavido a quattro uova marce lanciate da dei teppistelli, ti guadagni la stessa ricompensa che, cento anni fa, dovevi meritarti con azioni di coraggio leggendario, sul Piave come in Adamello. Direi che, sul versante della considerazione per le qualità morali degli Italiani, siamo scesi di qualche gradino. Se proviamo a domandarci come siamo arrivati a questo punto, noteremo che, un poco alla volta, la corrosione dei più elementari valori patriottici, ha provocato una serie di crolli progressivi della tenuta civile, fino ad arrivare al ridicolo della notizia odierna: l’encomio alla normalità.

D’altronde, non siamo i soli che stanno attraversando questa fase di rammollimento collettivo: i nostri avversari del 1915 sono passati dal “Gott erhalte” a Conchita Wurst, per cui non è che se la passino tanto meglio. Gli è che, a parer mio, abbiamo vissuto qualche decennio di confusione: confusione morale, militare, giudiziaria, religiosa e, naturalmente, sessuale. Si è cominciato a fare confusione fra ordine e repressione: nella guerra delle parole hanno vinto quelli che vedevano nel mantenimento, anche a costo di qualche manganellata, dell’ordine pubblico un fenomeno bassamente reazionario. Oggi, polizia e carabinieri hanno letteralmente paura di sedare i disordini di piazza o anche solo di fermare gli zingari che ti impongono il pizzo alle biglietterie automatiche: temono di venire censurati come torturatori ed aguzzini. Confusione veicolata scientemente da chi preferisce il casino all’ordine, ovviamente: ma messaggio vincente, a quanto pare. Poi, la confusione è passata al piano militare: l’esercito non serve a nulla, mettete dei fiori nei vostri cannoni, un anno buttato via eccetera eccetera. Ignoravano, gli ignoranti, che, spesso, un anno di naja era l’unico strumento per raddrizzare le pianticelle un po’ sbilenche: insomma, che la naja era più un anno educativo che addestrativo. Alla fine, con la scusa che era costosa, l’hanno eliminata: e i risultati si vedono. Adesso si parla di servizio civile obbligatorio: per paura di un Paese di potenziali golpisti, lo si vuole trasformare in un Kibbutz.

Confusione: idee pasticciate, tipiche di una classe politica impreparata e facilona, che, tra l’altro, la naja si è guardata bene dal farla. La maledetta confusione, poi, si è estesa a tutto il nostro vocabolario etico e civile: ecco che il delinquente viene percepito come un peccatore e il delitto come un peccato. Stante la maledizione di avere il Vaticano in casa, la confusione tra carità cristiana e giustizia civile e penale è via via aumentata: oggi, appena uno ammazza la moglie, accorrono mille prefiche ad impetrarne il perdono. E il risultato si chiama incertezza della pena, perché è, prima di tutto, incerta la colpa. E delle vittime non si parla mai: ci si preoccupa con encomiabile solerzia di Caino, ma Abele non se lo fila nessuno. Vedove e orfani, di mafia, del terrorismo, dei pirati della strada, dell’uranio impoverito, sono una zavorra scomoda, perché sono la prova vivente della vigliaccheria dei politici, della miseria etica di uno stato che si dimentica dei migliori per dedicarsi, evangelicamente, solo al figliuol prodigo. Che, se non fossimo cattolici, dovremmo giudicare un bel furbacchione, nell’Italia del terzo millennio.

Di scalino in scalino, siamo scesi nelle classifiche della civiltà, oltre che in quelle dell’economia: solo che di questa graduatoria non si parla mai. I veri problemi dell’Italia sono effimeri, teorici, filosofici: non hanno a che vedere con la vita quotidiana della gente. Semplicemente perché l’Italia delle leggi, dei telegiornali, delle omelie, non è più l’Italia della gente: stiamo parlando di due paesi diversi, che la pensano all’opposto e vanno in direzioni opposte. Per questo, ci si guarda bene dal domandare al popolo cosa pensi di certe cose. Così, nella guerra del Golfo vengono decorati gli unici piloti che si fanno abbattere: non quelli che portano a termine brillantemente la propria missione. E si concede un encomio a Parazzini, come se essere una persona perbene fosse un eccezionale atto di abnegazione, anziché trattare quelli che lo insultavano e gli lanciavano le uova come meritano di essere trattati i delinquenti. Ci sono dei momenti della storia in cui la confusione diventa crimine e si deve ribaltare di nuovo tutto quanto. Attenzione perché in latino ribaltamento si dice “revolutio”.


“Buonascuola”? No, grazie. Non mi fido più di nessuno

InsegnanteIo non sono un grosso esperto di politica: ogni volta che ho dato retta ad un politico, anche se era un amico di vecchia data, ho preso sonore fregature. Però, con il mestiere che faccio, sono diventato un discreto esperto di ciarlatani. E vi posso garantire che quel progettone di rinnovamento e di miglioria della scuola italiana che passa sotto il nome di “Buonascuola” è l’evidente prodotto di una ciarlataneria assurta a dimensione ideologica. Perché, purtroppo, la cosa che manca di più a questo Paese, e massime in materia di pubblica istruzione, è il semplice buon senso. Quel buon senso che ci porterebbe a preferire una serena gestione della normalità a proposte da jimmy il fenomeno, in una materia in cui mancano perfino i soldi per comprare i pennarelli. Non entro nello specifico delle proposte, più o meno rimaneggiate a forza di emendamenti, di questa sedicente riforma della scuola: parlerò della sostanza, se me lo permettete, perché di chiacchiere e di teorie la scuola italiana ne ha messe in cascina già a sufficienza. E la sostanza sono le persone: la qualità delle persone, intendo. Perché il mondo della scuola ha una sua prerogativa essenziale: gli entusiasti sono quasi sempre i cialtroni, le mezze calzette, i miracolati da qualche infornata sanatoria. Invece, quelli bravi, quelli seri, quelli anche solo normali, a forza di piattume, di calci nel preterito, di palesi soprusi, hanno perso la voglia: vorrei vedere voi, se vi pagassero allo stesso modo del vostro collega assenteista, fancazzista o del tutto incapace.

Dunque, mi direte, la “Buonascuola” va nella direzione giusta: valutazione dei docenti, meritocrazia e alè hop! Adesso vi spiego come funzionerà, ammesso e non concesso che la leggina entri mai in vigore: funzionerà come la recente legge sui vitalizi. All’apparenza, si tagliano i vitalizi ai condannati: nella realtà, tali e tante sono le eccezioni, che, di fatto, il provvedimento colpirà soltanto i casi più eclatanti o i poveri fessi che non contano nulla. Così andrà per la valutazione: a chi pensate che sarà affidato l’arduo compito di valutare gli insegnanti? Nella migliore delle ipotesi, si valuteranno dei titoli scolastici risibili: una certificazione di uso del computer, un corso di inglese per principianti, tutti organizzati dai soliti sindacati e di nessun reale valore culturale o professionale. Nella peggiore, invece, a valutare saranno gli uomini: gli uomini del ministero, per intenderci.

Avete mai sentito parlare un ispettore del MIUR? Un dirigente, un funzionario di un CSA? La prima impressione, di solito, è di essere al cospetto di creature che appartengano ad un’isoglossa aliena: il primo scoglio, normalmente, è di tipo banalmente denotativo. Qualunque argomento, sia pure il più generale, in bocca a questi signori si trasforma in un’inestricabile accumulazione di tecnicismi insensati, di forme idiomatiche in italian-english e di fumosi concetti didattici. Poi, subentra la sensazione imbarazzante di trovarsi al cospetto di una persona culturalmente svantaggiata: un po’ come quando ti arrivano in casa i Testimoni di Geova ed iniziano a spiegarti la Bibbia, non sapendo che sei laureato in teologia a Tubinga. Insomma, queste figure di riferimento del comparto educativo, il più delle volte sembrano appartenere alla commedia all’italiana e non ad una burocrazia moderna. E, presumibilmente, i dinamici ed acuti esaminatori delle qualità culturali e didattiche del corpo docente nazionale saranno selezionati in questa brillantissima compagine: a meno che si voglia istituire una “task force” di insegnanti d’élite, delle “Stosstruppen” che si dedichino a questa lodevole operazione di selezione dei propri colleghi. Quod deus avertat. Già me le vedo, le truppe cammellate del ministero, coi loro completini di cattivo taglio, con le loro giacchettine striminzite, tutte orgogliose delle proprie vantardigie, che esaminano con sussiego curricula e candidati e poi scrivono sul verbale “innoquo” e “disdicievole”.

Me li vedo, perché li vedo, tutti i giorni, questi aspiranti superprofessori: dei poveracci sottopagati, cui rimane, ormai, soltanto l’alterigia del nobile decaduto, con la sua marsina rattoppata. E sono gli uomini che devono giudicare gli uomini, alla fine. E io di questi uomini, scusate tanto, non mi fido. Come non mi fido di Renzi con la sua lavagnetta e gli errori in streaming. Come non mi fido dei sindacati, che mantengono uno stuolo di distacchi inutili, che ci costano un capitale. Come non mi fido di questa scuola, né buona né cattiva, perché è proprio dalla scuola che parte il nostro disastro educativo e sociale. Dalla scuola degli uomini: non da quella delle parole, che da cinquant’anni è sempre bella e buona e brava, ad ogni farsesca riforma che Dio o chi per lui manda in terra. Sono gli uomini il problema dell’Italia: gli uomini sbagliati nei posti sbagliati. Gli imbroglioni a fare i politici, i cioccolatai a fare i professori. Non è che ci manchi il materiale migliore, è che da noi vige semplicemente la peggiocrazia: e che te ne fai di una buona scuola pensata da pessime persone?


Il trionfo del “Tengo famiglia” in un Paese senza etica

tengofamiglia“La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Tengo famiglia”. La celebre battuta di Leo Longanesi ha più di 60 anni ma non perde mai d’attualità. Con un aforisma ha tradotto in immagine quello che la sociologia ha ribattezzato “familismo amorale”. Quello che si ritrova, così ci capiamo, nelle vicende che nei giorni scorsi hanno travolto il presidente delle Ferrovie Nord Milano, Norberto Achille, e il direttore generale dell’azienda ospedaliera Bolognini di Seriate, Amedeo Amadeo. Due storie che non si possono sovrapporre, ma che in comune hanno molto. A partire dall’accusa, da dimostrare in sede penale, di peculato. Cioè l’uso a fini privati di mezzi e soldi pubblici.

Le responsabilità eventuali le accerterà la magistratura. Limitiamoci a ricordare che ad Achille vengono contestate spese pazze per decine di migliaia di euro (dalle cene in ristoranti di lusso all’abbonamento Sky con acquisto di film porno per sollazzare le serate tristi fino a 125 mila euro di multe collezionate dai figli con l’auto blu aziendale) e ad Amadeo di essersi fatto prelevare in Croazia dall’autista (due volte) mentre era in ferie, di aver consentito che la figlia avesse forniture di latte in polvere dalla farmacia dell’ospedale, di aver fatto pagare dall’azienda una collaboratrice usata per la campagna elettorale delle Comunali 2014.

Ciò che rileva, ancor prima degli aspetti penali, è l’etica, specie per chi è un amministratore pubblico. I comportamenti che emergono dalle indagini e dalle intercettazioni mostrano una disinvoltura che fa strame di un valore cardine della società civile. Quel che più sconcerta (ma non stupisce), per tornare al motto “Tengo famiglia”, è vedere come non ci si accontenti di garantire a sé i privilegi connessi ad una carica pubblica già lautamente retribuita. Nella grande mangiatoia ci devono essere briciole anche per i figli, “pezz ‘e core” da pascere finché si può.

E’ un risvolto secondario, se volete. Dice molto, però, di quanto il nostro Paese non riesca a cambiare, a diventare grande. Sono le stesse inchieste di cui stiamo parlando che dimostrano come, a più di vent’anni da Mani Pulite, e dopo le tante clamorose vicende di corruzione e malaffare emerse praticamente in ogni angolo d’Italia, siamo sempre al punto di partenza.

C’è ancora tanta, troppa, gente che considera le regole un orpello inutile, che non s’accontenta di gestire posizioni di potere e guadagnare uno sfracco di soldi, che ritiene che tutto gli sia dovuto, che pensa che sull’altare di buone performance aziendali si possano chiudere gli occhi sui vizietti privati. E purtroppo, sconforta constatarlo, tocca sempre alla magistratura sollevare il velo sui comportamenti disinvolti.

Anche nei casi citati, nessuno si è mai accorto di nulla, nessuno ha visto o sentito niente. I preposti ai controlli non c’erano e se c’erano dormivano. Anche quando, com’è successo con Achille, i giornali hanno dato evidenza alle spese pazze. Fino all’assurdità, per voler essere generosi, del presidente della Regione Roberto Maroni, che è riuscito a dire di non poter fare nulla rispetto agli amministratori di una società controllata al 57 per cento dal Pirellone. Salvo nominare, appena il presidente indagato si è fatto da parte, personaggi con la targa di partito (il suo) sul sedere. Siamo sempre là: il “Tengo famiglia”, politica in questo caso, ha trionfato un’altra volta.


I quattro poli che possono ridare slancio a Bergamo

CarraraLa calda accoglienza che Bergamo ha riservato alla Carrara ritrovata, per certi versi è simile all’onda d’urto che provocò nel 2010 l’adunata nazionale degli Alpini. Quello è stato un momento di svolta. Tre giorni vissuti in strada, pur con qualche eccesso, mostrarono il volto inedito di una città fino ad allora incapace di apprezzare una dimensione collettiva. Da lì è nata la movida estiva, via via arricchita e affinata nei contenuti. Da lì sono spuntati e si sono moltiplicati i dehors dei locali pubblici. Da lì alcuni quartieri hanno scoperto una nuova vocazione pubblica, non priva naturalmente di conseguenze anche negative. Il successo della riapertura dell’Accademia Carrara si inserisce in quel solco e anzi, se si saprà essere conseguenti, potrebbe rappresentare un salto di qualità.
Ventimila persone che si mettono in coda per entrare in un museo sono ben altro spettacolo degli assalti ai centri commerciali cui ci siamo assuefatti da troppo tempo. Sarà stato per il biglietto gratuito, per un effetto emulazione, per mera curiosità, quello che volete. Ma vivaddio, chi ha varcato la soglia della Carrara, fosse pure per la prima e unica volta nella sua vita, ha potuto immergersi in uno scenario che non lascia indifferenti. Bastava guardare lo stupore dei volti di fronte a tanta inaspettata bellezza. Tanti si sono detti sorpresi, moltissimi hanno promesso a se stessi che quella visita non sarà un evento isolato.

Bene, è da qui che bisogna ripartire per dare continuità all’eccezionalità. Il terreno, si è visto, è fertile. Sia dal punto di vista dei cittadini che dei tanti che a vario titolo (Comune, istituzioni, commercianti) possono e debbono raccogliere i frutti. Con la cultura si può mangiare, ma nulla cala dall’alto. Serve una strategia ad ampio raggio. E Bergamo, oggi più che mai, ha tutto per garantire un’offerta con pochi eguali. Provate a fare mente locale. I punti di forza su cui far leva sono diversi. C’è l’Accademia Carrara, anzitutto. A giorni sarà restituito alla città il complesso di Astino, uno scrigno incastonato in uno scenario incantevole che esce dall’oblio dopo decenni di abbandono. C’è poi Città Alta con i suoi musei. E infine c’è quel teatro Donizetti che, per il combinato disposto dell’intervento di ristrutturazione (reso possibile dalla raccolta fondi voluta e tenacemente perseguita dall’ex assessore Valerio Marabini) e dell’investimento su un direttore artistico della lirica che sta già portando una ventata di novità cariche di entusiasmo, potrà finalmente spalancare le sue porte a tutti i cittadini, a partire dai tantissimi che non per loro colpa ritengono la musica classica una noia mortale.

Sono quattro poli su cui va immaginato un investimento collettivo. L’iniziativa, cioè, non va lasciata o, peggio, delegata alla mano pubblica. Tocca spendersi anche alle associazioni di categoria, alle associazioni, alle istituzioni culturali e non. Al Comune spetta un ruolo di coordinamento e di pianificazione. Ma anche di vigilanza e di contemperamento dei tanti interessi che a volte possono confliggere.
Quella che Bergamo ha di fronte da oggi non si può nemmeno definire una scommessa. Ci sono tutte le condizioni per giocare una partita sul velluto. Davvero stavolta non è retorica: basta crederci.


Fra poco ci tasseranno anche le scale e la morte

Impianti di risalitaE’ sufficiente dire che proporre di mettere l’Imu sugli impianti di risalita è una colossale idiozia? Io credo di no: penso, anzi, che proprio partendo da questa idea balzana si debba riconsiderare il senso del prelievo fiscale in questo Paese e, più ancora, della politica fiscale di chi ci governa. Tassare una seggiovia come se fosse un immobile (e anche tassare un immobile, che, quando l’hai acquistato, è già stato gravato di un simpatico balzello mica da ridere, mi sembra una patrimoniale mascherata) è follia pura: follia in senso generale, visto che un impianto di risalita necessita costantemente di lavori, di revisioni, di collaudi, cosa che un immobile non si sogna di fare; a ciò si aggiunga che un impianto di risalita produce posti di lavoro, indotto, piacere fisico e morale nell’utente, cosa che un immobile non si sogna di fare; per di più, un impianto di risalita paga già fior di tasse sull’energia elettrica, sugli stipendi degli addetti e, soprattutto, sui ricavi stagionali, cosa che, lasciatemelo rivelare ai signori ministri, un immobile non si sogna di fare. Insomma, una funivia non è una casa: bisognerebbe che qualcuno lo spiegasse a quei cervelloni del governo. Oltre a ciò, vi è una follia, per così dire, settoriale, anzi, climatico-ciclica: sono anni che nevica poco, che fa caldo, che la stagione sciistica è ridotta ai minimi termini. Anziché aiutare il settore, che periclita notevolmente, questi furbacchioni gli danno il colpo di grazia: quasi che perseguano scientemente non la salvezza ma la distruzione del nostro povero Paese. Guadagni meno? Gli alberghi sono mezzi vuoti per la crisi? Sempre meno gente pratica lo sci? E io ti aggiungo una bella tassa, così vai a remengo più in fretta e senza troppo agonizzare! Però, a questo punto, bisogna che facciamo mente locale, su tutte queste gabelle che ci piovono in testa: va bene essere obbedienti e rispettosi, va bene la pazienza tradizionale delle genti alpine e subalpine, però qui c’è davvero puzza di bruciato. Intanto, viene da chiedere se questi provvedimenti siano veramente partoriti da un’équipe di deficienti, come parrebbe, oppure se vi sia, in queste scelte scellerate, una sorta di “cupio dissolvi”: insomma, se il fine ultimo di tutta la faccenda non sia affossare per sempre la nostra economia. Oppure, se non siamo molto più sull’orlo del baratro di quanto ci vengano a raccontare, e si tratti semplicemente del grattare il fondo del barile, tassando le ombre, l’acqua, la terra e le seggiovie. Delle due l’una et tertium non datur: non posso credere che si tassino i terreni di montagna, gli impianti di risalita e non si tassino gli immobili religiosi o sindacali. Non voglio credere che, sulla tolda del vascello, che naviga in acque di per loro burrascose, ci sia una ciurma di ubriachi. I rifugi chiudono, perché d’estate piove e d’inverno fa caldo e questi tassano la montagna: o ci odiano, o sono pazzi, oppure c’è sotto qualcosa. Siccome pazzi non mi paiono, e non capisco che motivi avrebbero d’odiarci, concludo che sotto vi sia qualche segreto inconfessabile. Per esempio, il fatto che non ci stiamo per nulla risollevando da una crisi strutturale che è stata solo accentuata dalla contingenza internazionale, ma che sarebbe stata inevitabile comunque, prima o poi, in uno Stato gestito da malavitosi, papponi e cialtroname assortito. Un’Italia che si regge sul malaffare, che emargina i capaci e gli onesti, in cui tutti rubano più che possono e se ne fregano lietamente del domani, non poteva durare a lungo. E, infatti, casca a pezzi: non ci sono soldi per niente e per nessuno, tranne che per i ladri e gli imbroglioni. Dunque, le scelte scriteriate del governo, in materia fiscale, mi sembra possano ricondursi a due semplici strategie: la prima è quella di individuare i pochissimi settori che non siano già stati tassati, per rimediare qualche spicciolo, in modo da tirare avanti la baracca ancora un po’. L’altra è quella di non toccare mai, a nessuno costo, gli interessi dei veri potenti, le prebende, i benefici, le immunità dei soliti noti. Quelle sono intangibili: piuttosto, vengono tassate la sabbia delle spiagge e l’aria che respiriamo. E, allora, in una società che si regga sull’ingiustizia e che faccia della diseguaglianza di fronte alla legge la propria misura e il proprio sigillo, che speranze volete che abbiamo? Altro che tassare gli impianti di risalita: una squadra di pensatori romani lavora notte e giorno ad inventarsi nuovi balzelli. Tasseranno i neonati e l’erba dei giardini: metteranno gabelle sulla produzione di escrementi e sull’uso delle scale. Alla fine, quando non ci sarà più nulla da tassare, tasseranno perfino la morte: si pagherà per morire. E gli inadempienti resteranno in vita per decreto: saremo immortali per colpa dell’agenzia delle entrate. Tanto, l’inferno sarà già qui, sulla terra: che bisogno ci sarà di crepare?


Trent’anni di Lega, più promesse che risultati

Formidabili quegli anni. Trenta tondi tondi, dalle riunioni semiclandestine nei sottoscala del 1985 alle adunate “oceaniche” nelle piazze salviniane. Ma davvero, al di là della pur legittima autocelebrazione andata in scena nei giorni scorsi alla Fiera, la Lega di Bergamo può andar orgogliosa di questa sua ormai non più breve storia?

L’anniversario può essere utile occasione per provare a tracciare un bilancio dell’operato di un movimento che in tre decenni ha lasciato un solco profondo nella terra bergamasca. E non sempre in bene. Ma addentriamoci nell’analisi e proviamo a partire dagli aspetti positivi, limitandoci naturalmente al contesto locale. Il primo, innegabile, è la ventata di aria fresca che la Lega ha portato nella politica bergamasca. Nelle amministrazioni locali soprattutto, dopo decenni di sostanziale autocooptazione tra i soliti noti per via dell’egemonia democristiana, sono comparse figure nuove, spesso un po’ naif ma con il pregio di odorare di bucato. Hanno rotto i vecchi equilibri, tagliato le unghie agli amici degli amici, innovato nell’approccio con i cittadini. Questo in generale, naturalmente, perché accanto ad amministratori stimati ed apprezzati sono anche spuntati personaggi che hanno fatto prevalere il folklore, con trovate legate a simboli e bandiere fini a se stesse.

Quando hanno fatto prevalere l’ideologia sul pragmatismo, infatti, i leghisti bergamaschi hanno fatto flop. Emblematiche le due esperienze alla guida della Provincia. Prima Giovanni Cappelluzzo con il suo progetto della “Provincia autonoma”, poi Ettore Pirovano con la sua furia iconoclasta contro qualsiasi cosa provenisse dalle Giunte che l’avevano preceduto. Risultato? Tante energie e risorse buttate via senza portare a casa nulla, alla faccia del rinomato pragmatismo della ditta padana. Due occasioni sprecate, nella migliore delle ipotesi, per mostrare innovative capacità di governo così come decantate nella propaganda elettorale.

E nemmeno sul piano dell’esperienza romana si può dire che la rappresentanza bergamasca abbia lasciato segni tangibili. I tanti che si sono alternati in Parlamento si sono consegnati, senza colpo ferire, al ruolo ininfluente e frustrante dei peones, utili solo a pigiar bottoni, sia che si trattasse di sostenere governi sia di opporsi. Al pari in questo dei colleghi degli altri partiti, va riconosciuto, i leghisti hanno fallito nell’opera di lobbysti del territorio. Sono scivolati via senza portare a casa alcunchè di significativo. D’altra parte, chi ha avuto l’onore di entrare nella stanza dei bottoni, Roberto Calderoli, passerà alla storia come il padre di una indecente legge elettorale, oltre che come instancabile produttore di battute di dubbio gusto. Anni e anni di sostegno ai governi Berlusconi non hanno portato in Bergamasca nemmeno le briciole. Bisognerà avere il coraggio di fare un’analisi seria del lavoro svolto e tracciare un bilancio che non sia autoassolutorio.

lega fiera

Certo, tanto più oggi che Matteo Salvini pare aver individuato una nuova forza di penetrazione nell’elettorato non solo nordista, celebrare il raggiungimento del trentesimo compleanno è doveroso. Non è stato facile essere leghisti in certi anni lontani e nemmeno in quelli più recenti (traversìe di Bossi e delle varie trote in circolazione). Portare avanti con coerenza un credo, qualunque esso sia, è di per sé meritevole. Ma perché tutto non si riduca ad una allegra rimpatriata, ancorché colorata da una raffica di vaffa nei confronti di Matteo Renzi, sarebbe utile che chi oggi guida la Lega bergamasca, quel Daniele Belotti che forse non casualmente è tornato quasi alla casella di partenza in mancanza di alternative valide, avesse la lungimiranza di promuovere un momento di confronto senza rete e senza sconti, per ragionare sui punti di forza ma anche sui limiti di un’esperienza politica che ad oggi, lo riconoscono anche i sostenitori leghisti più fedeli, ha sicuramente promesso più di quanto abbia raccolto.