Tellurit, la sfida in cantina di “mister Innowatio”

Fabio Leoncini
Fabio Leoncini

Ha 50 anni, origini argentine e si dichiara innamorato della nostra terra. A Bergamo è approdato nel 1998, direttamente dal Sudamerica, con un ruolo alla TenarisDalmine. Da allora ne ha percorsa di strada Fabio Leoncini. Dagli uffici al Kilometro Rosso, oggi amministra ed è azionista di riferimento di Innowatio, un gruppo energetico paneuropeo di nuova generazione che vanta un fatturato di 1,5 miliardi di euro e più di 230 dipendenti dopo la recente acquisizione della tedesca Clens. È un economista, Leoncini, che a Bergamo ha scoperto anche il potenziale enogastronomico del territorio. E così, da cultore del mondo del vino, ha deciso di fare il grande salto: è diventato anche produttore. La svolta tre anni fa, quando gli è capitata l’occasione di rilevare, a Pontida, in Valmora, i vigneti del farmacista Losa. Quattro ettari e mezzo in tutto dove dimorano Merlot, Chardonnay e Riesling della Bergamasca, reimpiantati all’80%.

La cantina l’ha chiamata “Tellurit” (come il minerale) e oggi – con la collaborazione dell’enologo Angelo Divittini – produce circa 6mila bottiglie: 4.500 di Bergamasca Igt Merlot e 1.500 di Bergamasca Igt Riesling. Quest’ultimo, tra l’altro, ha ricevuto l’attestato di eccellenza all’ultima edizione di Gourmarte. «La sfida è solo alle fasi iniziali – spiega Leoncini -. C’è tanto lavoro ancora da fare, considerato che la produzione potenziale del vigneto è di 20mila bottiglie l’anno». TelluritNei programmi c’è la ristrutturazione della cascina annessa al vigneto per poter vinificare in proprio (oggi Tellurit si appoggia alla vicina Cantina sociale) e il consolidamento del canale commerciale affidato a un uomo d’esperienza come Emilio Baldoni.

“Passione per natura” c’è scritto s ulle etichette. E non è un caso. «Da sempre – ammette Leoncini – ho avuto un marcato interesse per il mondo del vino, per la sua storia. Nel tempo, l’interesse è cresciuto ed è infine sfociato nella decisione di scendere in campo. Mi affascina la nuova sfida, in questo caso con la natura, che ha i suoi ritmi e ti costringe ad affrontare un nuovo modo di misurarti con il tempo».

Passione, in Leoncini, fa rima anche con visione. “Mister Innowatio” è convinto che nella Bergamasca andrebbero create le condizioni per una valorizzazione decisa dei prodotti della terra. «Viviamo in una realtà che può offrire molte opportunità – afferma – con ricadute positive anche sul turismo enogastronomico. È essenziale, però, che si punti alla qualità senza compromessi». Convinzioni che hanno reso naturale l’adesione di Tellurit a Sette Terre. «La condivisione dei valori promossi dall’Associazione dei Viticoltori Indipendenti di Bergamo è totale – afferma Leoncini -. Credo nella scelta di esaltare il terroir. Perché solo così si può raggiungere l’eccellenza e fare la differenza».

www.tellurit.com – f.leoncini@yahoo.com


Dal castello ai grattacieli, la scalata di Christian ai fornelli

La favola di Christian Fantoni iniziò in un castello. Suo padre era giardiniere e guardiano del Palazzo Fogaccia di Clusone mentre sua madre era la cuoca personale del principe Giovanelli. È in quel luogo dall’atmosfera magica, spesso meta ambita di grandi cuochi e professionisti dei fornelli, che questo chef bergamasco maturò una crescente passione per le arti culinarie. Ma, dopo gli studi all’istituto alberghiero e la gavetta in alcuni ristoranti del nord Italia, dovette suo malgrado lasciare la sua Valle Seriana alla volta della Somalia dove lo attendeva il servizio militare nei paracadutisti. Fu un periodo duro che cambiò radicalmente la sua vita. «Tornato in Italia – racconta Cristian – lasciai la mia ragazza dell’epoca e non avevo più vincoli che mi legassero a Bergamo. Così, con l’aiuto del bergamasco Pierangelo Cornaro, decisi di andare a lavorare in America».

Sono trascorsi più di trent’anni da allora. Oggi di esperienza Fantoni ne ha maturata moltissima e non solo come cuoco. A 43 anni ha giù aperto diverse trattorie a Milwaukee, Philadelphia, Washington, Mexico City, Miami, Boston, New Jersey e un grand hotel nell’Aqua building di Chicago. Ha lavorato anche per locali rinomati tra cui il “Bella Blu” di Enrico Proietti, chef trentino molto conosciuto a New York. Da qualche tempo Christian Fantoni è il cuoco di punta di RPM Italian, un raffinato ristorante che promuove con classe e qualità la cucina mediterranea.

Il menù è ricco di specialità, dalle fresche burrate ai toast con pan ciabatta, dalle insalate con il pecorino toscano alle focacce fatte in casa. Per non parlare delle numerose paste fatte a mano, ripiene e non: a piatti più classici come pappardelle alla bolognese, spaghetti alla carbonara, tortelloni in brodo e gnocchi di patate si alternano più sofisticati ravioli di spinaci con astice o caramelle ripiene di salsiccia con impasto bicolore al tartufo nero e salsa di taleggio. C’è poi una sezione dedicata ai piatti senza glutine che, in America, pare siano diventati un vero must sia per gli intolleranti che per i maniaci della linea. E per accontentare tutti gli stranieri e i loro bizzarri stereotipi sulla cucina tricolore, Fantoni è pronto a cucinare anche quelle pietanze che gli americani definiscono, chissà perché, “Italian classics” ovvero spaghetti con le polpette e pollo con il formaggio.

Sebbene gli statunitensi abbiano una visione distorta delle vere specialità italiane, non ci si può permettere di prendere questo mestiere sottogamba, soprattutto in una metropoli interattiva come Chicago dove il passaparola si trasmette a colpi di click: «La ristorazione è diventata molto competitiva – conferma Fantoni – devi essere sempre al 100% perché se sbagli qualcosa ti mettono in croce». Per il momento RPM Italian si difende bene piazzandosi su Tripadvisor al 43esimo posto su 7.359 ristoranti a Chicago.

L’INTERVISTA

«Internet è essenziale, ormai la maggioranza delle prenotazioni arriva da qui»

Quando è arrivata la svolta americana?

«Dopo il servizio militare nei paracadutisti in Somalia e nell’operazione Vespri siciliani, ho voluto partire per nuovi orizzonti. Con l’aiuto del bergamasco Pierangelo Cornaro, mi sono trovato a Los Angeles, nel famosissimo ristorante Rex, frequentato quotidianamente da attori famosi. In quel locale sono stati girati anche parecchi film. Ho cominciato a lavorare con una compagnia americana per la quale ho aperto molte trattorie in giro per gli Usa e anche un grand hotel nell’Aqua building di Chicago, il Radisson Blu, con la supervisione del Food & beverage. Giunto a New York ho lavorato per San Domenico NYC, Le Bernardin (il miglior ristorante di pesce a NY), Le Cirque. Ho aperto locali a Mexico City, Miami, Boston, New Jersey e poi, in società con altri colleghi Italiani, ho aperto il Barbaluc. Ho guidato la cucina al “Fiamma” con il grande Michael White, ho lavorato per il mitico Enrico Proietti al “Bella Blu” e i suoi ristoranti. Poi dopo 13 anni di lavoro nella Grande mela, mi sono trasferito a Chicago dove ora vivo. Ho lavorato al ristorante italiano “Filini” e sono stato l’executive chef per tre anni al 437 Rush di Chicago, un ristorante italiano con influenza di steak house. Ora sono il cuoco di RPM Italian».

RPM Italian - Chicago - chef Christian FantoniIn tutti questi anni è riuscito a far conoscere la cucina bergamasca nel mondo?

«I piatti che piacciono agli americano sono moltissimi. Tra i più conosciuti ci sono i Casoncelli, la polenta, il risotto ai porcini, il brasato, i salumi come la pancetta e il salame».

Quali sono gli aspetti positivi di lavorare all’estero nel settore della ristorazione?

«Gli americani mangiano fuori casa parecchio, quindi per noi cuochi c’è sempre molto lavoro. Inoltre non sei legato alle solite cose, puoi affrontare diversi aspetti della cucina, ti puoi anche permettere di esagerare…».

E quelli negativi?

«La lontananza dei familiari, soprattutto durante le feste, quando non si sta bene, o in certi momenti più particolari».

Caramelle RPMA quali chef si ispira?

«A Pierangelo Cornaro. È sempre stato un idolo per me perché ha fatto cose stupende per la Bergamasca».

Quanto è importante Internet per un ristoratore?

«Internet è diventato essenziale per la ristorazione, abbiamo un sito dove vengono messe foto, eventi e tutto ciò che riguarda il ristorante. Puntiamo soprattutto su Facebook, Instagram e Twitter. Ormai la maggioranza delle prenotazioni arriva da Internet».

Qual è il suo rapporto con le recensioni di Tripadvisor?

«È un sito molto importante. A volte ci sono clienti che non riescono a dirti le cose in faccia e quindi si sfogano su sui siti. Noi cerchiamo di usare tutto ciò per migliorare».

Come sono cambiati la ristorazione e il rapporto con i clienti grazie ai nuovi media?

«È diventato un settore molto competitivo, devi essere sempre al 100% perché se sbagli qualcosa sei crocifisso. Lo stress della cucina è anche dovuto a tutti gli show culinari che trasmettono in tv. Ora tutti pensano di essere chef e vogliono inventare i propri piatti».

Cosa le manca di Bergamo?

«Mi mancano la mia famiglia, la bella cenetta preparata dalla mia mamma, le mie montagne, le escursioni nei boschi in cerca di funghi e le gite al lago».


Formaggi, a Cogne l’affinatore “stellato” è bergamasco

Il sapere e la bravura degli affinatori bergamaschi si fanno strada anche al di fuori dei confini provinciali. E forse non c’è da stupirsi visto che i migliori prodotti orobici rimangono quelli legati al mondo caseario. Capita così, girando dalle parti di Cogne, in Val d’Aosta, di incontrare nello stellato Petit Restaurant, ospitato all’interno dell’Hotel Bellevue, un orobico Doc, trasferitosi ai piedi del Gran Paradiso. Si tratta di Roberto Novali, quarantottenne originario di Leffe che ormai da circa tre lustri cura la selezione di prodotti caseari che finiscono sul carrello dei formaggi. Avvicinatosi alla professione quasi per caso, visto che prima lavorava nel settore del tessile, Novali è diventato un punto di riferimento del ristorante e i clienti si affidino a lui per selezionare i formaggi da degustare al tavolo e per avere delucidazioni sulla provenienza.

D’altro canto il suo è un lavoro meticoloso, che parte dalla selezione dei prodotti freschi da portare a maturazione e passa attraverso le strategie di affinatura, fino ad individuare momento ideale per presentare il formaggio in sala. Con scelte spesso originali. Per fare un esempio, il Parmigiano Reggiano qui viene cosparso di olio di oliva per sopperire alla mancanza di umidità essendo Cogne a 1.500 metri di altezza. E poi c’è stata la decisione, che ormai risale a più di dieci anni fa, di affidarsi solo a formaggi rigorosamente italiani, tra i quali non possono certo mancare quelli bergamaschi. Dal Roccolo alla Formaggella della Val Gandino, dal Taleggio fino ai caprini della Via Lattea, che Novali conta di inserire a breve nel carrello.

Carrello formaggi - Petit Restaurant Cogne - affinatore Roberto Novali

Anche se i rapporti più stretti e proficui sono quelli raggiunti con Alvaro Ravasio di CasArrigoni di Peghera, in Val Taleggio. «Poi – rivela candidamente l’affinatore -, è chiaro che il formaggio più utilizzato qui in Val d’Aosta rimane la Fontina, della quale si fa un utilizzo davvero massiccio. Basti pensare che all’anno ne vengono consumate ben 200 forme, distribuite tra il ristorante, il Bar à Fromage e la Brasserie du Bon Bec in centro al paese. Tutte e tre sono locali della famiglia Roullet che è proprietaria dell’albergo e che possiede anche un alpeggio».

I riconoscimenti per il lavoro svolto, tra l’altro, non sono mai mancati, visto che negli anni, e in un paio di occasioni, il carrello di formaggi curato da Roberto Novali è arrivato alle finali nazionali giungendo sempre tra i migliori d’Italia. Ma non è tutto. Novali si occupa anche dell’orto che si trova vicino all’albergo e dal quale arrivano verdure e erbe per il ristorante, oltre a svolgere, nei due mesi circa durante i quali l’albergo rimane chiuso, opere di piccola manovalanza. Insomma, è un bergamasco tuttofare, che si rimbocca le maniche e che sfodera con nonchalance un dialetto orobico di tutto rispetto. Che forse non è più così complicato da capire per i valligiani e per i clienti dell’albergo i quali ormai conoscono bene l’affinatore bergamasco.

 


Anche la carne ha la sua pasticceria

Giò Fenili - macellaia Pontirolo NuovoUna macellaia con l’estrosità di una maitre patissier. Giovanna (Giò) Fenili ha ideato la pasticceria della carne, dolci dal colore rosso vivo con guarnizioni di frutta, verdura fresca e perfino fiorellini. La macellaia è titolare del negozio in via Gavazzi, a Pontirolo Nuovo, e chef di macelleria nel risto market Matè a Treviglio. Il suo ingrediente principale è la fantasia, quel tocco femminile che manca in una professione maschile e che l’ha portata a creare “Gli sfizi di Giò”, una linea dove spiccano torte con macinato, come quello di maiale, più dolce, che si abbina a albicocche, prugne, castagne, fichi e datteri secchi, o di vitello arricchito da ribes, uva, mirtilli o formaggi che non siano troppo forti da coprirne il sapore.

Ci sono i bicchieri da cocktail traboccanti di alchechengi e ribes, torte di compleanno con fragole e ciliegie, il pianoforte con patate e spinaci, le zucchine ripiene a forma di tegame, i ghiaccioli, le capesante di tartare con una perla di formaggio, la zuppa inglese di carne dalla quale si tagliano tanti twister.

«Mi è sempre piaciuto inventare – spiega Giò -. Non ha senso cucinare la solita scaloppina o l’arrosto, bisogna sperimentare, abbinando i sapori e usando tutte le parti dell’animale. È inutile acquistare il filetto da 40 euro al chilo per la battuta quando puoi fare un’ottima figura con la punta di petto che costa un terzo».

Non solo. La Fenili cucina il diaframma, per la tartare lavora il fusello di petto, sempre sotto gli occhi del cliente. Per hamburger, costate, polpette, sfilacci e bistecche usa il sottospalla, per la tagliata la bavetta o una copertina di spalla aperta a libro e lasciata marinare per un giorno e poi grigliata. Il suo regno è dietro al bancone, dove dispensa segreti sulla cottura e rivela ricette sui suoi preparati.

piatti di carne - Giò Fenili - Pontirolo Nuovopiatti di carne - Giò Fenili - Pontirolo Nuovo (2)

Qualche esempio? Le tortillas spalmate con diversi strati: prima la carne macinata scottata, sopra le sfoglie alternate a una mousse di spinaci e patate, un’altra di patate e zucca e una di castagne. O la colomba pasquale: un impasto delicato di vitello, pollo e maiale con uvetta lasciata a bagno nel Brandy più pinoli, noci e castagne stufate. Anche gli arrosti sono ricercati nel gusto e nel colore: l’arista può essere esaltata da un carpaccio di carciofi aggiunto a crudo nel piatto e una crema di mirtilli frullati con la panna.

piatti di carne - Giò Fenili - Pontirolo Nuovo (1)«La macelleria non è un mestiere, è l’arte di assemblare i sapori, una passione. Se i giovani non ne sono convinti, è meglio che lascino perdere», spiega Giò. La sua storia è cominciata nella bottega di famiglia, avviata nel 1965 dal padre Cesare, che non c’è più ma le ha lasciato un’eredità di empatia e amore per il proprio lavoro. «A tredici anni mio papà mi ha portato al macello per la prima volta perché diceva che un buon macellaio deve essere prima di tutto un buon operatore – ricorda -. Lì ho imparato a riconoscere i vari tagli dell’animale, a sezionare, ho rubato la tecnica». Il suo è un mondo lontano anni luce da quello dei vegani. «Li rispetto. Ci attaccano, ma noi dietro al bancone abbiamo una filosofia: mettere a proprio agio e cercare di capire tutti, anche loro».


Da Alzano a Copenhagen, «così ho conquistato i palati danesi»

Francesca ParazziTra una ripresa economica che stenta a decollare e i proclami che, più o meno a giorni alterni e da più parti politiche, raccontano di un’economia ora in crescita, ora ferma al palo, la tentazione di uscire dai confini nazionali per farsi una nuova vita e trovare un lavoro è sempre molto forte, soprattutto tra i giovani.

I quali non a caso lamentano in Italia una percentuale di disoccupazione piuttosto alta, che non lascia intravedere almeno nel breve periodo grandi opportunità, se non quelle, nella migliore delle ipotesi, del precariato o del lavoro a tempo determinato. Così vale, ovviamente, anche per il complesso mercato della ristorazione, dove però l’italiano ai fornelli o in sala, può giocare su più fronti, essendo ancora oggi queste due tra le professioni più facilmente esportabili, non a caso presenti in forze in molti Paesi europei e non solo.

ristorante Marchal CopenhagenOltretutto con risultati che spesso sfiorano l’eccellenza, perché quando c’è un riconosciuto talento, spesso, all’estero, finisce per essere premiato, mentre all’interno dei confini italiani non sempre questo accade. Un bell’esempio ci viene fornito dall’avventura un po’ speciale capitata in sorte a Francesca Parazzi, ventottenne bergamasca originaria di Alzano Lombardo che fino a qualche anno fa serviva piattoni di stinco in una birreria bergamasca ed ora si trova a svolgere l’impegnativo ruolo di sous chef nella brigata del ristorante Marchal di Copenhagen, uno degli indirizzi emergenti della cucina nordica, ospitato all’interno dello storico e magnifico Hotel D’Angleterre.

Un percorso a dire il vero non nato dal caso, ma che sembra essere un po’ la bella favola capace di far sgranare gli occhi, un po’ figlia della caparbietà e un po’ del pizzico di fantasia messo in campo da parte della protagonista.

Francesca Parazzi vanta trascorsi professionali piuttosto classici come lei stessa racconta: «Ho frequentato l’istituto alberghiero professionale di Clusone, e all’ultimo anno di specializzazione seguivo gli insegnamenti di Mauro Elli (lo stellato de Il Cantuccio ad Albavilla, in Brianza), che mi ha introdotto al mondo del lavoro. La prima vera esperienza l’ho fatta in un piccolo albergo ad Onore, in provincia, durante le vacanze estive del penultimo anno scolastico. Poi, una volta finiti gli studi, ha lavorato come capo partita in pasticceria presso un ristorante italiano di un golf club a Glasgow in Scozia. In seguito, sempre in pasticceria come commis, sono finita durante l’estate al Castello di Velona, in Toscana e poi all’Hotel Milano di Bratto come commis di cucina, terminando dopo quattro anni come capo partita agli antipasti. La gestione di una cucina in prima persona però è stata quella della birreria Ein Mass a Montello».

E proprio qui scatta la “sliding door” che la convince, per crescere professionalmente, a cercare tramite il web un’opportunità a Copenhagen, dove il compagno Matteo sta effettuando un dottorato in fisiologia dell’esercizio fisico presso l’Università. «Devo dire – ricorda oggi Francesca – che trovare un lavoro in Danimarca è stato piuttosto semplice. E tra i tanti ristoranti che cercavano personale mi sono proposta al Kanalen, un bistrò situato non troppo distante dal famoso Noma che per anni è stato il miglior ristorante al mondo. Ho mandato un curriculum e dopo un breve periodo di prova ho subito iniziato a lavorare come capopartita e successivamente come secondo chef. Il tutto in un periodo che va dal settembre del 2013 al giugno 2014».

Questi dieci mesi trascorsi a stretto contatto con la realtà emergente della cucina nordica si sono subito rivelati fondamentali, per conoscere una nuova materia prima, assimilare nuove metodologie di lavoro e mettersi in mostra grazie a una versatilità e a un rigore che è stato notato immediatamente anche da altri cuochi. Così due anni fa, nel momento di riapertura dello storico Hotel D’Angleterre, completamente rinnovato, si presenta l’opportunità di lavorare con Ronny Emborg, talentuoso cuoco danese che si prende in carico la cucina del Marchal, il nuovo ristorante dell’albergo. Per Francesca è l’approdo verso una cucina e un ambiente più professionali e di maggior spessore, che, tra l’altro, prevedono il confronto con la difficile e più complessa ristorazione d’albergo. Il Marchal è un urban restaurant elegante e raffinato con una cucina che sfiora la classicità francese e la mescola alla geometria e all’essenzialità che è facile trovare a queste latitudini.

ristorante Marchal Copenhagen - piatto 1Così il Baccalà viene cotto in tempura con midollo affumicato, spinaci e ribes nero, la Tartare di carne si presenta con rafano, pomodori, cipolle e nasturzio, e le Animelle sono fritte per poi incontrare una salsa al rabarbaro fermentato e un brodo di vitello. Ma allo stesso tempo qui si può vivere l’esperienza di un piatto grandioso e storico come la Chateaubriand, rigorosamente per due, così come la Rana pescatrice cotta all’osso con lardo, pepe nero, patate reidratate e salsa alle cozze. Il Marchal al suo primo anno di apertura riceve una meritata stella Michelin (guida 2015) con Ronny Emborg in cucina. Poi il danese si trasferisce negli Stati Uniti per aprire il ristorante Atera a New Yorke il suo secondo, l’austriaco Christian Gadient, diventa l’executive chef.

A scalare, i due junior sous chef, Francesca Parazzi e Alex Schonning Petersen vengono promossi a sous chef proprio dall’inizio di quest’anno. «I miei compiti sono ben precisi – racconta Francesca -. Gestisco il servizio sia a pranzo che a cena, ma anche gli ordini e la mise en place di ogni partita. Il lavoro mi sta dando grandi soddisfazioni perché ogni giorno scopro nuove tecniche di lavorazione o materie prime con cui progettare ricette o anche solo piccoli elementi che possono fare la differenza in un piatto. E poi vedo le grandi differenze sotto l’aspetto gerarchico tra quello che succede in Italia e quello che invece succede in Danimarca. In Italia la cucina è sempre più inquadrata, mentre quella danese è più elastica e si basa molto sul lavoro di squadra».

ristorante Marchal Copenhagen - piatto 2

Ma non ti manca un po’ Bergamo, viene da chiedere? «Certo, mi manca ammirare le montagne e quando torno cerco sempre di trovare una serata libera per trascorrere qualche ora a Città Alta, ma qui a Copenhagen devo dire che mi trovo benissimo. La città è vivibile e organizzata, poi tra la primavera e l’estate è ricca di eventi e la scelta dei locali è quasi infinita. Puoi trovare un kebab, vicino a un bistrò o a un ristorante stellato. Insomma, un po’ per tutti i gusti». Un bell’esempio di volontà, intraprendenza e talento.


Quella volta che Caravaggio quasi accoppò un garzone d’osteria

CARAVAGGIO-AUTORITRATTO“Faccio un salto al bar”. È nozione comune che tale pronunciamento di intenti, oggidì del tutto innocente, non manchi di essere accolto dalle più arcigne tra madri e consorti con almeno un’occhiataccia di riprovazione. Ciò di cui coniugi e genitrici non sono forse al corrente è che le ragioni dell’anacronistico biasimo sono ormai vecchie di un paio di millenni. Ancor ai nostri giorni i locali dove prendere un cicchetto o un caffè pagano infatti lo scotto della pessima fama che, invero non senza fondamento, all’epoca della Roma imperiale bollava le tabernae.

A quei tempi, a dar retta a Giovenale, le frequentazioni delle bettole di cui traboccavano i bassifondi della Città Eterna erano tutto fuorché raccomandabili: malfattori, marinai, schiavi fuggitivi, boia e – sic – fabbricanti di catafalchi. Una siffatta ghenga di avventori finiva inevitabilmente per attirare anche qualche entraîneuse, spesso appartenente alla più stretta cerchia familiare del titolare della mescita. Alle lucciole della casa il diritto latino accordava peraltro singolari liberatorie professionali: ancora nel VII secolo, secondo i disposti della Lex Romana Curiensis, appartarsi con la moglie del tabernario non costituiva infatti adulterio. Non sorprende dunque che ai membri della casta senatoriale fosse elevato divieto di convolare a nozze con le figlie degli osti.

Se nelle bottiglierie più malfamate libagioni smodate e meretricio la facevano da padrone, non mancavano altresì locali di profilo meno ambiguo nei quali il vino era accompagnato da una più ortodossa offerta di cibo ed alloggio. Questa bipartizione tra taverne di equivoca nomea e più rispettabili hostarie venne di fatto mantenuta anche nel corso del medioevo, nel quadro di un generale impulso a regolamentare e moralizzare l’attività dei pubblici esercizi. Risale ad esempio al 1270 il bando con il quale la Repubblica di Venezia vietava ai locandieri di fornire ospitalità a donne di malaffare, inibendo inoltre la vendita di bevande che non fossero distribuite dai grossisti incaricati dall’amministrazione.

Le frodi alla mescita erano in effetti tutt’altro che inusuali, perpetrate soprattutto somministrando intrugli ottenuti dalla rifermentazione di vinacce esauste, o brode in via di acetificazione. A copertura dei raggiri, i gestori solevano confondere la bocca della clientela addolcendola con spicchi di finocchio offerti a guisa di amuse-guele. Da tale malvezzo è derivata la singolare voce “infinocchiare”, ancor oggi in uso per designare l’adozione di condotte levantine. Un ulteriore filone di imbroglio atteneva inevitabilmente ai quantitativi serviti. Ecco dunque che lo scarno corpo degli statuti cinquecenteschi della valle di Scalve, nel disciplinare il complesso dominio delle vettovaglie, aveva come unica previsione l’assoggettamento delle vinerie all’obbligo di avvalersi esclusivamente dei boccali bollati dalle autorità, per evitare che, nello spillare dalle botti, gli osti finissero per essere di mano troppo parca.

Che le libagioni propinate nelle bettole non potessero certo essere ascritte alla categoria dei grandi cru risulta evidente da innumerevoli testimonianze. Spicca in particolare il celebre sonetto di Cecco Angiolieri – amico di Dante Alighieri ed impenitente cantore degli ozi da taverna – nel quale il poeta giungeva ad affermare che persino la sua consorte in preda all’ira gli facesse meno uggia del vino servito nelle fiaschetterie. Emblematica è poi la sentenza di Alvise da Cà da Mosto, esploratore veneziano che verso la metà del quattrocento guidò un paio di spedizioni lungo le coste atlantiche dell’Africa: al succo delle patrie uve il pioniere della Serenissima dichiarava di preferire addirittura la linfa fermentata stillata dalle palme dai selvaggi del Senegal.

Se truffe e sofisticazioni erano all’ordine del giorno, non mancano comunque le attestazioni d’esistenza di locali condotti con perizia e probità. Colpisce in special modo quella di Jacques La Saige, mercante di seta della Fiandra francese che il 12 aprile del 1518, sulla via verso la Terrasanta, si trovava alle porte di Torino. Fermatosi per rifocillarsi all’Osteria della Croce Bianca di Rivoli, nei suoi appunti di viaggio il pellegrino riporta con stupore che, in abbinamento all’ottimo pasto, gli venne proposta una selezione di ben dieci diversi vini alla mescita, tutti di eccellente livello.

Un altro paio di aneddoti, stavolta di più chiaro marchio bergamasco, contribuisce infine a far luce sulle condizioni di lavoro nelle locande del XVI secolo. Del primo, invero a tinte piuttosto fosche, siamo debitori alla penna dell’infaticabile zibaldonista Donato Calvi. Nell’Effemeride si narra infatti di un cruento incidente consumatosi il 14 ottobre 1583 presso l’Osteria delle Due Ganasse, ubicata lungo l’attuale via XX Settembre. Nell’esercizio prestava opera un giovane garzone meneghino – all’epoca il nostro capoluogo era in assai più floride condizioni di Milano –  di nome Gasparo Gariboldi. L’inserviente, giunto prima dell’alba a riassettare i locali dal servizio della sera precedente, dopo aver compiuto le proprie incombenze si era appisolato su una sedia accanto al focolare. Per colmo della sventura, proprio sopra il suo capo erano appesi degli spiedi utilizzati per arrostire carni ed uccelletti. D’improvviso la fibbia che reggeva una delle acuminate aste si allentò, e quest’ultima nel cadere trafisse il collo del malcapitato trapassandolo da lato a lato. Richiamati dalle urla del poveretto – appunta laconicamente il cronista – i maldestri soccorritori, “volendoli strappare il ferro dalla gola, li strapparono in vero l’anima dal corpo”.

Il secondo episodio, ancorché di ambientazione romana, ha come protagonista nientemeno che Michelangelo Merisi da Caravaggio. Lo stizzoso artista, già nelle peste con la giustizia papalina per innumerevoli precedenti, si ficcò vieppiù nei guai malmenando e tentando addirittura di uccidere un povero cameriere dell’Osteria del Moro, reo di non aver saputo rispondere se i carciofi che stava servendo al pittore fossero stati cucinati nell’olio anziché nel burro. Tra arnesi di cucina che si trasformavano in armi letali ed avventori pronti a sguainare la sciabola per delle quisquilie, è dunque arduo definire quanto dura potesse essere la vita di uno sguattero di cinque secoli fa.


Musica, massaggi, docce: la dolce vita delle mucche della cascina Guardiola

Azienda agricola Ciocca - Treviglio - Antonio Ciocca e la moglie Antonella ViolaNella Bassa bergamasca un’azienda agricola ha scoperto il “segreto” per produrre formaggio, burro e yogurt eccellenti: il latte di mucche coccolate da spazzolatrici, allevate con un’alimentazione naturale ascolta
ndo musica in sottofondo e senza stress da super mungitura. Il caseificio è nella cascina Guardiola alla Geromina, frazione di Treviglio, dove c’è anche uno spaccio con i prodotti di altri agricoltori a chilometro zero, gestito da marito e moglie, Antonio Ciocca e Antonella Viola.

Ma non si può considerare l’attività casearia senza aver prima visitato l’azienda agricola in via del Bosco, in aperta campagna, avviata nel 1965 dal padre di Luigi, Antonio. Fin da allora l’allevamento rispettava i cicli della natura e i bovini erano solo 25. Nel 1992 è avvenuto il passaggio al figlio. Oggi i capi sono 110 e continuano a vivere in una condizione di cura invidiabile con tanto spazio e comfort a loro disposizione. Le mucche hanno un loro nome e sono parte preziosa di un’attività a carattere familiare, come dimostra il loro trattamento: si pretende che producano “solo” 25 litri di latte in media al giorno, sono nutrite con erba e fieno, partoriscono fino a otto volte e quando invecchiano sono messe in un’area più tranquilla. Nella stalla c’è anche una grossa spazzolatrice verde elettrica: gli animali autonomamente ci mettono sotto la testa e si fanno massaggiare collo e orecchie. Se il macchinario non si aziona, richiamano l’attenzione dell’addetto. Le mucche si coricano su morbidi materassini in gomma. E, d’estate, sopra le mangiatoie, ci sono docce nebulizzatrici che grazie ai ventilatori rinfrescando l’aria e le invogliano a mangiare.

azienda ciocca mucca che si spazzola da sola«Vuole sapere quale sarà il mio prossimo passo? Vorrei creare il pascolo, lasciarle libere, ci ho già provato ma non è facile, sono animali intelligenti – è il afferma Ciocca -. Un giorno, mentre stavo rifacendo il pavimento della stalla, avevo messo le bovine in un’area recintata, ma due vacche hanno spinto contro una loro compagna, riuscendo così a scavalcare l’ostacolo».

Ci sono anche stati alti e bassi, superati con costanza e dedizione al lavoro. «Avevo 400 capi, di cui 180 da mungitura, ho investito, assunto dipendenti e iniziato a vendere latte alle industrie, entrando in un circolo vizioso – spiega Ciocca – perché poi sei costretto a produrre sempre di più dal momento che il prezzo viene abbassato e non riesci più a far fronte alle spese. Gli animali, negli allevamenti intensivi, sono portati a fornire fino a sessanta litri di latte al giorno e così sfiancati, dopo un paio di parti, finiscono al macello».

Nel 2001 una malattia contagiosa gli ha imposto l’abbattimento di tutti i capi. Ma il trevigliese si è rimboccato le maniche e ha ricomposto la mandria, aprendo nel 2008 i distributori di latte crudo a Cavenago, Capriate, Suisio e Bellusco. Tuttavia, dopo il successo iniziale, il progetto non ha suscitato più il forte interesse iniziale. «Se non fai altro, non campi», si è detto l’allevatore che ha cambiato rotta, decidendo di dedicarsi alla trasformazione del suo latte. Chi si reca in cascina è attratto dal gusto unico di due formaggi speciali che, già nel nome delle due frazioni, sono un omaggio al territorio: Cerreto, compatto e dolce, realizzato da latte intero, stagionato da un mese e mezzo a tre mesi, che può somigliare alla fontina, e Geromina, a pasta morbida, con almeno otto mesi di stagionatura, prodotto da latte spannato in forme che raggiungono i nove chili.

I prodotti sono finiti anche in vetrina per tutta la durata di Expo nel padiglione allestito vicino all’albero della vita. Le varietà casearie sono tante: c’è il mucchino, che piace ai bambini, simile al caprino, ma prodotto con latte vaccino, e i freschissimi come mozzarella, ricotta, crescenza e primo sale. Nelle formagelle, stagionate per due mesi, si spazia con i sapori: possono essere al peperoncino, al pistacchio, alla cannella, alle olive, all’erba cipollina, al finocchio e ai capperi. Il latte è conferito all’Associazione produttori latte della Pianura Padana e a Copagri per il progetto “Buono e onesto”, che consiste nel confezionamento diretto dagli allevatori. Il suo simbolo, presente sulle confezioni in tutta Europa, è la mucca Onestina colorata con la bandiera del Paese di origine. Con questo latte, i soci producono il Sovrano, un formaggio a pasta dura stagionato 25 mesi, con latte vaccino all’80% e di bufala al 20, Fattorie Bresciane con caglio vegetale e meno sale, stagionato 12 mesi, il Supremo, a 15 mesi, con solo latte vaccino. Ci sono anche la Guardiola, spalmabile, e il Pronto pentola, una miscela macinata perfetta per mantecare risotti o pasta. Lo yogurt è, oggi, solo bianco. «Non utilizzo nient’altro che prodotti di stagione, pertanto non essendoci fragole, more o mirtilli che mi rifornisce la Cascina Pelesa, preferisco non aggiungere frutta che non conosco», conclude Ciocca.

formagelle azienda ciocca


Claudia, la regina delle formaggelle col computer in stalla

C’è la tradizione e c’è l’innovazione: non sempre queste due componenti fondamentali riescono ad andare d’accordo, specie in agricoltura: Claudia Riccardi di Gromo non solo è riuscita in questa quadratura del cerchio, ma l’aiuto della tecnologia ha contribuito ad elevare la qualità dei suoi formaggi.

Ormai nel paese seriano dove è nata e dove ha sede l’azienda agricola che porta avanti con i fratelli Angelo e Giovanni, Claudia tutti la riconoscono come colei che “ha portato il computer in stalla”. In effetti, pur non amando questa etichetta-tecno, Claudia mostra di saper stare al passo con i tempi e non si sposta mai senza il suo pc, anche quando produce le sue quattro tipologie di formaggio molto richieste («Meglio farne poche, ma bene, mi ha insegnato un vecchio casaro»): la formaggella che l’ha resa famosa per i premi vinti (con pasta semicotta da latte crudo di due mungiture); lo stracchino a pasta cruda d’alpeggio tipico della Bergamasca; il formaggio di monte a pasta semicotta e il primosale, fresco, leggerissimo, all’occorrenza anche erborinato.

Claudia, quando è nata la sua passione per il formaggio?

Claudia Riccardi - casara - Gromo«Essendo nata in una famiglia di agricoltori di montagna, dove l’amore, la dedizione e lo spirito disacrificio per il proprio lavoro sono i valori fondamentali, fare il formaggio è stato uno sbocco naturale. Produrlo in montagna e venderlo direttamente al consumatore è l’unico modo per mantenere in vita micro-imprese come la mia in un contesto avverso, sia per la globalizzazione dei mercati sia per le condizioni molto svantaggiate rispetto a chi lavora in pianura».

La vita di una casara è diversa da quella dei suoi coetanei? Trova il tempo per divertirsi, andare in giro con amici, in vacanza?

«Prima di essere casara sono un’imprenditrice agricola: essere titolare di una piccola impresa comporta tanti impegni e responsabilità. Essere bravi casari non basta in una azienda come la mia, bisogna saper far quadrare i conti, essere dei buoni venditori del proprio prodotto e avere competenze su materie burocratiche e fiscali. Ciò non toglie che si possa avere una vita sociale simile a quella dei propri coetanei».

La definiscono un po’ casara hi-tech, perché si fa aiutare dalla tecnologia. Come questa può incidere nel suo lavoro?

«Essere definita così è un po’ strano, perché il mio lavoro richiede soprattutto manualità ed esperienza: è un’arte antica e cerco di farlo rispettandone le tradizioni. Certo, poi c’è la tecnologia moderna e io utilizzo sempre il Pc, per la gestione economica ed amministrativa della mia azienda. La rete offre opportunità di conoscenze ed informazioni indispensabili per qualsiasi realtà; inoltre consente di aprire nuovi orizzonti, conoscere realtà diverse e potersi confrontare».

Ci racconta la sua giornata tipo?

«Sveglia alle 6,30, alle 7 sono in caseificio dove arriva il latte appena munto direttamente dalla stalla (gli animali sono seguiti da due miei fratelli, contitolari dell’azienda). Il latte viene messo nella caldaia e incomincia la caseificazione. Finita la lavorazione del latte, pulizia delle attrezzature e dei locali; prosegue poi con il locale di stagionatura, salatura, con rivoltamento delle forme. Cambio i teli di asciugatura, spazzolatura dei formaggi già stagionati, pulizia locale e bucato. Alle 8 apro lo spaccio attiguo al caseificio per la vendita diretta al consumatore dei miei prodotti. Settimanalmente trascorro una buona parte del mio tempo negli uffici Coldiretti, Asl, posta, banca, per pratiche burocratiche. Quando produco lo stracchino, la caseificazione avviene anche la sera, perché è un formaggio fatto con il latte appena munto. Questo impiega almeno due ore, dalle 18 alle 20. Poi finalmente posso rilassarmi».

Lei è ritenuta soprattutto la “regina delle formaggelle”, peraltro un prodotto molto inflazionato, presente quasi in ogni valle: cos’è che può distinguerla e farle veramente fare il salto di qualità?

«La differenza la fanno la capacità del produttore e la volontà del consumatore di non fermarsi al primo prodotto che trova. Se quest’ultimo non si accontenta e vuole conoscere la provenienza del prodotto, chi lo produce, come lo produce, come vengono nutriti e trattati gli animali, avrà tutti gli elementi necessari a valutarne le qualità. Il produttore, da parte sua, deve garantire la salubrità e la genuinità del prodotto venduto».

Di quali premi vinti lei va più orgogliosa?

«Un po’ tutti. Nel paese in cui vivo, a inizio estate viene organizzata la sagra “Gromo sempre in forma” con il concorso per la miglior formaggella. Diciamo che una grande emozione l’ho provata nella prima edizione del 2011 quando ho vinto il secondo e terzo premio con due formaggelle di diversa stagionatura. Nel 2012 ho migliorato ancora, vincendo il primo e il secondo premio sempre con due formaggelle, una di 30 giorni e una di 90. Nel 2014 ho vinto il primo premio con una formaggella di 30 giorni. Nel 2015 ho vinto il secondo premio per la formaggella e il secondo per lo stracchino».

Quando i produttori uomini si vedono superare nei concorsi da una giovane casara donna, cosa nutrono: invidia o ammirazione?

«Spero ammirazione. Personalmente non ho mai nutrito invidia verso bravi casari: anzi, ho sempre cercato di imparare soprattutto dagli anziani con tanta esperienza e tradizione. Peraltro, quando frequentavo il corso di casaro, il mio insegnante mi consigliò di imparare a fare pochi prodotti, ma di farli bene, soprattutto prodotti locali. Ho sempre seguito questo consiglio e mi sono resa conto che aveva perfettamente ragione: oggi in tanti richiedono i miei prodotto e questo mi riempie di soddisfazione».


Il signor Carrara e il supplizio del polpettino

Il polpettino realizzato secondo la ricetta pubblicata nel “Libro de arte coquinaria” di Martino da Como

Seppur spogliato della pensione d’anzianità dai giacobini, la cui ferrea propensione ai tagli – al tempo non schiva di quelli di teste – pare essere tornata in auge ai nostri giorni, fa sfoggio di inossidabili estro e sagacia l’ottuagenario Carlo Goldoni che nel 1787 dà alle stampe a Parigi le proprie memorie. Nell’autobiografia l’impareggiabile commediografo fornisce prova di non comune lucidità ripercorrendo nei più minuti dettagli un florilegio di ormai remote rimembranze. Tra queste spicca il resoconto di una scampagnata di oltre cinquant’anni prima nell’agro circostante Milano, effettuata in compagnia di un amico bergamasco dal tutt’altro che imprevedibile cognome di Carrara.

È un giorno d’estate del 1733, e la coppia di bighelloni, varcata quella Porta Tosa che oggi si troverebbe all’altezza di piazza Cinque Giornate, si incammina in aperta campagna alla volta delll’Osteria della Cazzuola per una frugale merenda. Già all’epoca la metropoli – nota il drammaturgo veneziano – ha fama di ville gourmande, tant’è che i suoi abitanti sono soprannominati lupi lombardi dai più sobri fiorentini. “Non si fanno in Milano passeggiate, ne’ si mette insieme divertimento di qualunque sorte sia, in cui non si discorra di mangiare: agli spettacoli, alle conversazioni di giuoco, a quelle di famiglia, siano esse di cerimonia o di complimento, alle corse, alle processioni, alle conferenze spirituali inclusive, sempre si mangia.”

Giunti a destinazione, i due gitanti comandano uno spuntino a base di gamberi, uccelletti e polpettino. Dalle vivande settecentesche della storica osteria, in contrapposizione alle più tarde e moderniste lusinghe del risotto allo zafferano e della costoletta impanata, promana un nostrale sentore d’arcaico. I crostacei sono quelli d’acqua dolce dei quali già nel tredicesimo secolo, a dar retta a Bonvesin de la Riva, in riva ai Navigli si divoravano più di sette moggi al giorno. La cacciagione minuta, che in abbinamento alla polenta rappresenta un’irrefutabile icona gastronomica del circondario di Bergamo, tra XVII e XVIII secolo pare altresì una voce regolarmente impressa anche sui menù delle taverne milanesi – quella dei Trì Merla aveva particolare rinomanza per i suoi passaritt.

Quanto al polpettino, è del tutto ingannevole lo scontato rimando ad una pallottola di carne trita che la denominazione parrebbe sottendere. Si tratta invece di un involtino la cui ricetta, di sicure origini padane, è riportata per la prima volta nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Martino da Como: una fettina di vitello, cosparsa di semi di finocchio e velata di un battuto di lardo ed erbe, viene arrotolata su sé stessa e quindi arrostita allo spiedo. Ad una pietanza affine doveva forse alludere un paio di secoli prima lo stesso Bonvesin de la Riva, quando menzionava un ripieno a base di noci, uova, cacio e pepe con cui i suoi concittadini solevano farcire le carni nel periodo invernale.

Metropoli delle polpette – definiva Milano il medico-poeta Giovanni Raiberti. Ed all’ombra della Madonnina morfologia e terminologia del morsello di carne hanno inevitabilmente finito per distinguersi da quelle della consuetudine. Se polpettino sta per saltimbocca, è con la voce mondeghili che vengono invece designate quelle che altrove si chiamano polpette. Il dualismo, di marchio squisitamente lombardo, è attestato anche dal ricettario del Cocho Bergamasco, che a fine seicento distingue rispettivamente tra polpette di carne cruda – simili a quelle di Martino da Como – e quelle di carne trita cotta, a propria volta affini ai mondeghili.

Questi ultimi, il cui appellativo deriva dalla storpiatura meneghina dell’ispanico albondeguillas, rappresentano in apparenza uno dei plurimi imprestiti iberici alla cucina milanese. In realtà l’apparentamento è d’ordine più lessicale che gastronomico. Non si è certo dovuto attendere l’arrivo in Italia degli aragonesi per apprendere a cucinar polpette: già nel ricettario latino di Apicio fanno infatti comparsa numerose preparazioni (isicia) in guisa di trito appallottolato di carne o di pesce, variamente aromatizzate. Una delle basi predilette dagli antichi romani per la preparazione della pietanza era peraltro rappresentata dal fegato di porco. E non è certo casuale che, tra gli ingredienti dei mondeghili, baleni l’arcaicizzante richiamo della mortadella di fegato.

Ma torniamo alla scampagnata di Carlo Goldoni e dell’ineffabile Carrara. Il loro spuntino all’Osteria della Cazzuola viene troncato sul nascere dall’estemporanea apparizione di un’avvenente giovinetta in lacrime. Il veneziano, incorreggibile donnaiolo, appura che la fanciulla – per singolare combinazione sua concittadina – è fresca reduce da una disavventura di seduzione ed abbandono, e si fa in quattro per rincuorarla. Il compare, da buon bergamasco, pare invece persuaso che le lusinghe della galanteria non debbano in alcun modo venir anteposte a quelle della tavola – o che comunque non sia opportuno indulgervi a stomaco vuoto -, e scalpita perché si dia senza indugi inizio alla merenda. Ma Goldoni, del tutto incurante delle rimostranze dell’amico, seguita imperterrito a blandire la giovane. Alla fine si addiviene ad un compromesso, e l’agognato pasto è servito negli alloggi della donna ponendo termine al tantalico supplizio cui è sottoposto il povero Carrara.

L’epilogo della vicenda è, assai prevedibilmente, del tutto teatrale. Il commediografo lascia discretamente intendere di essere riuscito ad intessere con l’affascinante concittadina una tenera amicizia, che si protrae per qualche mese. L’idillio è tuttavia falciato dai cannoni dei Savoiardi agli ordini di Carlo Emanuele III, che nel dicembre del 1733 cingono d’assedio il capoluogo lombardo. Goldoni, che in quel mentre svolge le funzioni di attaché del Console della Serenissima presso il Granducato di Milano, è costretto a riparare a Crema al seguito del diplomatico. La giovane amante resta invece in città, ed i due finiscono perdersi di vista – apparentemente senza eccessivi struggimenti. Ed il vorace Carrara? Rimedia un posto da corrispondente della Repubblica di Venezia su raccomandazione dello stesso Goldoni. Anche tra i marosi del burrascoso secolo dei lumi, è dunque e comunque bene tutto quel che finisce bene.


Sommelier Ais, il tesserato numero uno si racconta

jean valenti - ritA Jean Valenti sono servite 76 pagine di un elegante libretto per scrivere l’autobiografia. Difficile quindi condensare la fitta serie di aneddoti, episodi, avventure persino, oltre che l’intensa storia professionale. Ma ci si può provare, cominciando dalla presentazione, che può sembrare ad effetto e invece altro non è che la semplice realtà: Jean Valenti è il numero uno dei sommelier. Sua infatti è la tessera numero uno dell’Ais, l’Associazione Italiana Sommelier, di cui è stato cofondatore a Milano insieme a Giancarlo Botti, al commercialista Leonardo Gerra ed al sommelier Ernesto Rossi. «Era il 7 luglio del 1965 – racconta Valenti con estrema lucidità dall’alto dei suoi 93 anni compiuti – ed avevamo lavorato più di un anno per dare il nome all’associazione. C’era stato chi aveva suggerito coppieri, chi aveva proposto cantinieri e poi il vocabolo sommelier ha finito per convincere di più, per la sua valenza internazionale. Il primo congresso dell’Ais si svolse nel 1967 e fu l’evento che segnò l’affermazione definitiva dell’associazione».

tessera Ais - n.1Ma a livello istituzionale l’attività di Jean Valenti non si è fermata qui. Nel 1969 infatti, raccogliendo l’invito del marchese d’Aulan, rampollo di una nobile famiglia proprietaria dello Champagne Piper-Heidsieck, è stato tra i cofondatori de l’Association de la Sommellerie International (Asi) nata a Reims il 4 giugno. «In quanto segretario generale dell’Ais ero anche delegato ai rapporti internazionali – ricorda – ed ebbi modo di incontrare sommelier francesi, inglesi, portoghesi e belgi. L’Asi si proponeva di consigliare ed aiutare gli altri Paesi di entrare a far parte della sommellerie internazionale fornendo adeguati supporti, soprattutto ai giovani».

La vita e la professione l’hanno portato in giro per il mondo, ma questo pioniere dell’associazionismo enoico, che oggi risiede in Brianza, ha anche un legame speciale con Bergamo. «Sono nato a Casazza per caso, il 25 aprile del 1922, ma la stirpe è bergamasca», precisa. Il papà Francesco, originario di Casazza appunto, era emigrato nell’hinterland parigino e per un lungo periodo aveva avuto un’azienda di coltivazione di funghi champignon che funzionava bene ed aveva una ventina di dipendenti, quasi tutti bergamaschi. La mamma, Josephine Zinetti, anch’ella di origini italo-francesi, quando era in attesa del piccolo Jean era stata consigliata di recarsi a Casazza, dove risiedevano ancora dei parenti, per riposarsi. Ma Jean aveva fretta e nacque prima del previsto.

Un socio acquisito da poco fece poi fallire l’attività paterna e questo cambiò, in senso professionale, il destino di Jean che i genitori vedevano già nelle vesti di avvocato. All’età di 17 anni la necessità di mettersi al lavoro gli offre il primo contatto con il vino. In realtà non si trattava di un lavoro molto qualificato: cavista o cantiniere si potrebbe tradurre. Il ristorante era il Grand Veneur a Barbizon nei pressi della foresta di Fontainebleau, luogo di caccia dei reali francesi. Il compito di Jean era quello di lavare, etichettare di nuovo e tappare le bottiglie che venivano riempite con vino prelevato dalle barrique che provenivano da quasi tutte le regioni francesi. Solo i grandi Borgogna, Bordeaux e Champagne venivano venduti già imbottigliati. Per quanto umile fosse la professione, Jean impara a conservare le bottiglie, a distinguere pregi e difetti del vino e a scegliere i tappi di sughero giusti.

Ed è a questo punto che le vicende della seconda guerra mondiale si intersecano con la sua vita, con elementi di grande drammaticità: la campagna di Russia negli Alpini, il ferimento, la prigionia in un campo di concentramento a Tambov, vicino a monti Urali. Alla fine della guerra Jean ritorna in famiglia e riprende da dove aveva lasciato. Al Grand Veneur viene promosso aiuto sommelier in sala. L’avventura nel mondo del vino stavolta comincia davvero, ma per questioni politiche gli italiani non erano molto ben visti in Francia nel ’47 e quindi, di fatto, è costretto ad emigrare. La meta questa volta è l’Inghilterra: un posto al Savoy Hotel di Londra dove Whiston Churchill aveva il suo angolo per fumare il sigaro, seguono poi Baden Baden (la capitale termale europea per eccellenza) e Saint Moritz, nel ’56, con un posto di sommelier al Palace Hotel e poi ancora in un paio di ristoranti in Europa sempre della medesima proprietà.

Il Savini, in galleria a Milano, rimane il centro nel quale si concretizzano tutta la sua esperienza e meticolosità nel conoscere i vini e sul modo in cui servirli e abbinarli. «Sono arrivato al Savini nel ’56, su richiesta specifica del patron, il commendator Angelo Pozzi, e ci sono rimasto per dodici anni. All’inizio erano i tempi in cui il cliente chiedeva bianco o rosso oppure domandava che cosa era quel posacenere che portavamo appeso al collo (il tastevin, ndr.). Le richieste prevalenti riguardavano vini francesi ma siamo riusciti nel tempo a far apprezzare anche i prodotti italiani. C’era sempre un po’ di magia quando si versava il vino nel decanter e si aspettava riprendesse vita. Clienti famosi? Il Savini aveva una clientela anche internazionale di alto livello. Ho servito da bere a cinque presidenti della Repubblica: Segni, Leone, Saragat, Pertini e Cossiga, al commendator Bialetti, l’inventore della moka, a Edoardo De Filippo, a John Waine, che però beveva solo whisky, a Jacqueline Kennedy, a Maria Callas e all’armatore Onassis del quale ricordo un curioso aneddoto. Una banconota di 100 dollari fatta scivolare discretamente nelle mie mani in occasione del saluto e la raccomandazione che anche agli uomini della sua scorta non mancasse da bere». E chissà quanto è lungo ancora questo elenco.

L’avventura al Savini finisce nel 1972 quando Alberto Alemagna gli propone un’offerta economicamente rilevante per passare al ristorante Gourmet in piazza Duomo. Qui vi rimane fino al ’76 poi il ristorante chiude e si riapre una parentesi internazionale. Quattordici mesi in a Tokio e nel sud Corea per far conoscere e spiegare i vini piemontesi in quella parte di mondo per conto di un consorzio di vini coordinato dalle cantine Bersano e poi, nell’84, tre mesi a Los Angeles in occasione delle Olimpiadi. E proprio in California il figlio Duilio ha aperto un ristorante, vicino a San Francisco, che si chiama Valenti and Co.

Fino all’età di 85 anni ha continuato la sua attività di consulenza in Italia e in Francia cercando di trasmettere nel miglior modo possibile la sua grande esperienza. Ora, con il traguardo dei 94 anni poco distante, segue ancora con attenzione i movimenti delle diverse associazioni di sommelier, poi proliferate, con il cuore chiaramente legato alla sua creatura e cioè l’Ais. Accento francese, grande presenza ed eleganza, occhio vigile e massima attenzione, non ha di certo perso la sua professionalità, al punto di esprimere un giudizio tecnico calibrato quando in occasione del nostro incontro avvenuto all’Enoteca al Ponte di Ponte San Pietro il patron Luca Castelletti ha voluto aprire in suo onore una bottiglia di Rioja del 1922, l’anno appunto di nascita di Jean Valenti.