Il polpettino realizzato secondo la ricetta pubblicata nel “Libro de arte coquinaria” di Martino da Como
Seppur spogliato della pensione d’anzianità dai giacobini, la cui ferrea propensione ai tagli – al tempo non schiva di quelli di teste – pare essere tornata in auge ai nostri giorni, fa sfoggio di inossidabili estro e sagacia l’ottuagenario Carlo Goldoni che nel 1787 dà alle stampe a Parigi le proprie memorie. Nell’autobiografia l’impareggiabile commediografo fornisce prova di non comune lucidità ripercorrendo nei più minuti dettagli un florilegio di ormai remote rimembranze. Tra queste spicca il resoconto di una scampagnata di oltre cinquant’anni prima nell’agro circostante Milano, effettuata in compagnia di un amico bergamasco dal tutt’altro che imprevedibile cognome di Carrara.
È un giorno d’estate del 1733, e la coppia di bighelloni, varcata quella Porta Tosa che oggi si troverebbe all’altezza di piazza Cinque Giornate, si incammina in aperta campagna alla volta delll’Osteria della Cazzuola per una frugale merenda. Già all’epoca la metropoli – nota il drammaturgo veneziano – ha fama di ville gourmande, tant’è che i suoi abitanti sono soprannominati lupi lombardi dai più sobri fiorentini. “Non si fanno in Milano passeggiate, ne’ si mette insieme divertimento di qualunque sorte sia, in cui non si discorra di mangiare: agli spettacoli, alle conversazioni di giuoco, a quelle di famiglia, siano esse di cerimonia o di complimento, alle corse, alle processioni, alle conferenze spirituali inclusive, sempre si mangia.”
Giunti a destinazione, i due gitanti comandano uno spuntino a base di gamberi, uccelletti e polpettino. Dalle vivande settecentesche della storica osteria, in contrapposizione alle più tarde e moderniste lusinghe del risotto allo zafferano e della costoletta impanata, promana un nostrale sentore d’arcaico. I crostacei sono quelli d’acqua dolce dei quali già nel tredicesimo secolo, a dar retta a Bonvesin de la Riva, in riva ai Navigli si divoravano più di sette moggi al giorno. La cacciagione minuta, che in abbinamento alla polenta rappresenta un’irrefutabile icona gastronomica del circondario di Bergamo, tra XVII e XVIII secolo pare altresì una voce regolarmente impressa anche sui menù delle taverne milanesi – quella dei Trì Merla aveva particolare rinomanza per i suoi passaritt.
Quanto al polpettino, è del tutto ingannevole lo scontato rimando ad una pallottola di carne trita che la denominazione parrebbe sottendere. Si tratta invece di un involtino la cui ricetta, di sicure origini padane, è riportata per la prima volta nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Martino da Como: una fettina di vitello, cosparsa di semi di finocchio e velata di un battuto di lardo ed erbe, viene arrotolata su sé stessa e quindi arrostita allo spiedo. Ad una pietanza affine doveva forse alludere un paio di secoli prima lo stesso Bonvesin de la Riva, quando menzionava un ripieno a base di noci, uova, cacio e pepe con cui i suoi concittadini solevano farcire le carni nel periodo invernale.
Metropoli delle polpette – definiva Milano il medico-poeta Giovanni Raiberti. Ed all’ombra della Madonnina morfologia e terminologia del morsello di carne hanno inevitabilmente finito per distinguersi da quelle della consuetudine. Se polpettino sta per saltimbocca, è con la voce mondeghili che vengono invece designate quelle che altrove si chiamano polpette. Il dualismo, di marchio squisitamente lombardo, è attestato anche dal ricettario del Cocho Bergamasco, che a fine seicento distingue rispettivamente tra polpette di carne cruda – simili a quelle di Martino da Como – e quelle di carne trita cotta, a propria volta affini ai mondeghili.
Questi ultimi, il cui appellativo deriva dalla storpiatura meneghina dell’ispanico albondeguillas, rappresentano in apparenza uno dei plurimi imprestiti iberici alla cucina milanese. In realtà l’apparentamento è d’ordine più lessicale che gastronomico. Non si è certo dovuto attendere l’arrivo in Italia degli aragonesi per apprendere a cucinar polpette: già nel ricettario latino di Apicio fanno infatti comparsa numerose preparazioni (isicia) in guisa di trito appallottolato di carne o di pesce, variamente aromatizzate. Una delle basi predilette dagli antichi romani per la preparazione della pietanza era peraltro rappresentata dal fegato di porco. E non è certo casuale che, tra gli ingredienti dei mondeghili, baleni l’arcaicizzante richiamo della mortadella di fegato.
Ma torniamo alla scampagnata di Carlo Goldoni e dell’ineffabile Carrara. Il loro spuntino all’Osteria della Cazzuola viene troncato sul nascere dall’estemporanea apparizione di un’avvenente giovinetta in lacrime. Il veneziano, incorreggibile donnaiolo, appura che la fanciulla – per singolare combinazione sua concittadina – è fresca reduce da una disavventura di seduzione ed abbandono, e si fa in quattro per rincuorarla. Il compare, da buon bergamasco, pare invece persuaso che le lusinghe della galanteria non debbano in alcun modo venir anteposte a quelle della tavola – o che comunque non sia opportuno indulgervi a stomaco vuoto -, e scalpita perché si dia senza indugi inizio alla merenda. Ma Goldoni, del tutto incurante delle rimostranze dell’amico, seguita imperterrito a blandire la giovane. Alla fine si addiviene ad un compromesso, e l’agognato pasto è servito negli alloggi della donna ponendo termine al tantalico supplizio cui è sottoposto il povero Carrara.
L’epilogo della vicenda è, assai prevedibilmente, del tutto teatrale. Il commediografo lascia discretamente intendere di essere riuscito ad intessere con l’affascinante concittadina una tenera amicizia, che si protrae per qualche mese. L’idillio è tuttavia falciato dai cannoni dei Savoiardi agli ordini di Carlo Emanuele III, che nel dicembre del 1733 cingono d’assedio il capoluogo lombardo. Goldoni, che in quel mentre svolge le funzioni di attaché del Console della Serenissima presso il Granducato di Milano, è costretto a riparare a Crema al seguito del diplomatico. La giovane amante resta invece in città, ed i due finiscono perdersi di vista – apparentemente senza eccessivi struggimenti. Ed il vorace Carrara? Rimedia un posto da corrispondente della Repubblica di Venezia su raccomandazione dello stesso Goldoni. Anche tra i marosi del burrascoso secolo dei lumi, è dunque e comunque bene tutto quel che finisce bene.