Una triste Santa Lucia per noi che abbiamo perso la fiducia

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La coda per consegnare le letterina a Santa Lucia

Quando ero giovane, e ribelle come tutti i giovani, cercavo di imitare i miti eroici che avevo imparato ad amare a scuola, tra gli amici, nelle prime esperienze politiche: Jűnger, Aragorn, Codreanu, Leonida. Disprezzavo i deboli, gli inetti, coloro che mi sembrava evitassero le sfide, limitandosi ad esistere, senza mai vivere veramente. Non comprendevo, semplicemente non ero in grado di comprendere, le ragioni di quelle debolezze, di quelle inettitudini. E’ stato solo crescendo, cominciando a conoscere, un po’ alla volta, il bruciore acre della sconfitta e l’implacabile insulto che il tempo fa al nostro corpo, beffandoci con il suo lasciarci l’anima dei vent’anni, che ho iniziato a capire. E, se, una volta, la solitudine mi sembrava la bellezza d’acciaio dell’alpinista sulla vetta più alta, oggi la solitudine mi fa sinceramente ribrezzo: anzi, mi fa paura. Perché ho finalmente compreso che la nostra comune fragilità deriva da un lutto immedicato: da un distacco mai voluto. La mia generazione è una generazione di orfani: uomini incompiuti, a metà fra una tradizione che si è sgretolata ed una rivoluzione che non si è mai realizzata. Avanguardia del niente.

I miei genitori, i miei nonni, avevano, per quanto vivessero in un universo semplificato e catechizzato dall’alto, delle granitiche certezze, che riassumerò, per dire in breve, nella formula nota: “Dio, Patria e Famiglia”. Per mio nonno, uomo del 1890, veniva certamente prima la Patria, finché, lui, socialista umanitario, sodale di Turati e della Kuliscioff, non scoprì Dio, che, negli ultimi anni della sua lunga vita, non divenne la sua priorità. Per mio padre, uomo onesto fino allo scrupolo ed in perenne contrasto con un’adolescenza piena di angoscia, che non voleva terminare, il perno di tutto fu la Famiglia, intesa come tributaria del suo lavoro indefesso e dei suoi sacrifici, più che come nido o luogo di affetti espliciti. Mia madre non fa testo: avrebbe dovuto monacarsi e, forse, solo il desiderio di maternità le ha impedito di farlo. Non conosco altre persone che abbiano letto tre volte tutti e sette i volumi della Recherche: lei è una che mette in fuga i Testimoni di Geova a colpi di citazioni bibliche. Loro, tutti loro, i miei agnati, erano ben sicuri di qualcosa: che fosse la Patria del Carso e dell’Isonzo, la Famiglia delle pubblicità dei dadi oppure il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, loro non erano orfani in questo mondo. Noi, sì. Noi tutti sì, maledizione.

Pur senza pretendere di cancellare nulla, abbiamo, un poco alla volta, sgretolato quelle pietose illusioni che ci rendevano meno estraneo l’universo: abbiamo cominciato a ridere delle bandiere e degli inni e siamo finiti ad adorare il mito del mondialismo. Abbiamo messo in soffitta superstizioni e riti e, oggi, viviamo le feste natalizie, che dovrebbero, comunque, essere feste religiose, come una gigantesca ordalia pagana: come un rito celebrato di fronte agli altari della più maialesca materialità. Abbiamo distrutto la famiglia tradizionale e siamo giunti a negare, come una tradizione malsana, perfino, la nostra umanità e il nostro sesso. Non abbiamo più niente, non sappiamo più niente. Ci dicono che così, nudi bruchi, neonati senza alcun cordone ombelicale, siamo enormemente più liberi: sarà anche così, per quanto a me non paia. Ma la vera domanda è, semmai: siamo più felici? Mi viene in mente la riuscitissima immagine di Alessandro Magno, giunto al termine del mondo, che Pascoli descrive in un noto poema conviviale: il vincitore di tutto, ora che non è rimasto più niente da conquistare, è disarmato, immobilizzato. E si domanda se non sarebbe stato meglio limitarsi a sognarle, tutte le sue vittorie: per avere più destino davanti.

Così siamo noi: oberati di immagini, di luci, di parole, che non fanno altro che darci il senso desolante dell’inutilità di tutto questo agitarsi, di questa velocità, di questa fretta di andare in nessun posto, di non arrivare mai. Così, in questa Santa Lucia tanto diversa dai tredici dicembre della mia infanzia, mi sento anch’io come Alessandro, giunto all’Oceano: non perché rivivano in me i miti della mia adolescenza, ma perché, semmai, il mito si è fatto realtà, ed ha perso tutta la sua valenza magica. Il mythos ha dovuto accettare le leggi del logos, e nessuno ci potrà restituire la gioia di credere per pura fede. Anzi, mi verrebbe da dire che quest’epoca di imbecilli in cattedra, di disonesti in pulpito, di egoisti in pubblico, ci ha reso del tutto increduli: incapaci di fidarci della gente, delle idee, delle cose. E questo, forse, è il dramma più grande di questa mia generazione orfana, questa doomed generation senza guerre e senza pace: l’aver perso la fiducia. Nel futuro come nelle parole: la fiducia negli uomini. Una volta, però, per chi perdeva la fiducia nei propri simili, esisteva un rifugio sicuro, dove consolarsi l’anima: la fiducia in Dio. E si chiamava fede. Ma quella, purtroppo, è come il coraggio: se non ce l’hai non te la puoi dare. E non c’è Santa Lucia che tenga.

 

 


E’ un Paese infelice quello che vota per protestare e non per progredire

referendumottobre-600Io ci speravo: giuro che ci speravo. Dopo due mesi di strombazzate e di bufale, di dichiarazioni di voto e di invocazioni accorate al popolo, alla democrazia, alla costituzione, alla resistenza e alla mistica fascista, mi auguravo sommessamente che fosse finita: che la nottata fosse passata e che potessimo, una volta tanto, comportarci da persone normali. Sì, ciao: non era ancora terminato lo scrutinio che già cominciavano le luminarie. A cominciare dal presidente del Consiglio, che deve aver passato la giornata elettorale davanti allo specchio a fare le facce, per vedere quale era la più adatta ad esprimere la legittima soddisfazione del vincitore o il composto cordoglio dello sconfitto: radiosa ma non esultante, seria ma non doma, un sorrisetto, una lacrimuccia appena accennata e subito detersa col ditino. Cose già viste: italianerie da commedia dell’arte, in fondo. Per poi passare alla fiera del delirio, quando si è trattato di commentare il risultato, in verità piuttosto clamoroso, del referendum. Grillo, Salvini e la Meloni che, in preda ad una tempesta ormonale, farneticavano di elezioni immediate, mi sono sembrati tre congedanti alla cena di fine naja: ubriachi di vino e di euforia. Reclamare elezioni a breve scadenza, prima che la Consulta ci dica, perlomeno, come andare a votare, più che intempestivo mi sembra stupido: capisco l’entusiasmo per quella che, a loro, deve essere sembrata una schiacciante vittoria politica, ma sarebbe meglio, quando ci si propone al Paese come possibili timonieri, dimostrare un po’ meno di pulsioni infantili e un minimo di senso realistico della politica.

Siccome i nostri, fino a poco prima, si presentavano proprio come paladini del realismo, io avrei suggerito loro di smaltire la sbornia referendaria, prima di abbandonarsi alla sicinnide. Lo stesso dicasi per gli sconfitti, che, sprezzando eroicamente il ridicolo, hanno attaccato con la solfa dell’“adesso tocca a voi!” dimostrando di essersi dimenticati che il voto riguardava la Costituzione e non la composizione del Parlamento, che rimane saldamente nelle loro mani, insieme al novanta per cento degli organi decisionali, dei mezzi di comunicazione e dell’impianto governativo di questa povera Italia. Il giochetto, da un punto di vista comunicativo, è semplicissimo: dare la colpa ad altri delle proprie marachelle. Chi ha rubato la marmellata? Gigino: è stato Gigino, io ero in bagno a lavarmi i denti! La verità, purtroppo, è che tutti quelli che ci hanno provato, negli ultimi anni, hanno miseramente fallito: il marmoreo Monti, telecomandato da Bruxelles, l’etereo Letta, reso simpatico solo dal fatto che si è fatto fregare come un fesso qualsiasi, e il nostro Leporello piangieridi, che, dopo la scenetta strappacuore, non ha la minima voglia di mettersi da parte. E, poi, c’è Berlusconi: quello che, col suo ritorno in campo, ha mosso almeno il 5% dei voti e senza il quale non si può decidere un bel nulla. L’ha detto davvero e l’ha detto proprio in questi termini: vi assicuro che non è un’iperbole cimminiana! Dopo avere distrutto quella parvenza di serietà e di civiltà che il nostro popolo poteva ancora esibire e, soprattutto, dopo aver proposto un modello di politicante che ha fatto scuola, cinico, disamorato, votato al proprio successo personale e all’esibizione sconcia del medesimo, adesso Berlusconi vorrebbe tornare in auge, col suo caravanserraglio di cortigiani?

Io mi chiedo se non siano tutti impazziti: l’Italia è ancora largamente ultima nella crescita, malgovernata, paralizzata da una burocrazia demente, scuoiata da una pressione fiscale intollerabile, invasa da torme di sconosciuti, tra i quali una buona fetta è composta da nullafacenti e nullavolenti fare, quando non di malandrini tout court, disoccupata, demotivata, deculturata, e questi stanno già giocandosi la tunica di uno che, non solo non è stato crocefisso, ma ha ancora in mano i chiodi e il martello. E’ la riprova, casomai ne servisse una, dell’incolmabile distanza tra la politica, che, ormai, si fa solo in televisione (anche fisicamente, visto che i nostri parlamentari ci bivaccano in pianta stabile, anziché legiferare), e un popolo che va per conto suo. Io credo che il risultato di questo referendum significhi soprattutto questo: ci avete rotto le balle! E temo che, d’ora in avanti, gli Italiani voteranno sempre meno per avere un governo e sempre più per non averlo: certo, ci saranno sempre i trinariciuti, le casalinghe di Voghera, i compagni emiliani, ma la maggioranza vota perché è l’unico modo di fare arrivare ai palazzi del potere il suo colossale vaffanculo. E, lasciatelo dire a uno che non ha mai accettato di candidarsi ad una carica (per la verità, fui eletto rappresentante di classe alle medie, battendo il candidato avversario, che era Giorgio Gori…altri tempi!): un Paese che vota per protestare e non per progredire è un Paese infelice e disperato. E noi, a parte Grillo, Salvini e la Meloni, siamo certamente più infelici che felici e più disperati che pieni di speranza. Anche se la sconfitta di Renzi, uno sgrisolo piacevolissimo, lo confesso, me l’ha fatto provare…

 


Quel pasticciaccio brutto della riforma delle Popolari

ubi45.jpgPoniamo il caso di una partita di calcio dove a un certo punto una squadra pretenda un calcio di rigore come bonus dopo avere ottenuto dieci calci d’angolo. Oppure che un arbitro a metà del primo tempo decida di fischiare come fallo tutti i colpi di testa e poi invece nel secondo tempo li ritenga regolari. O, per cambiare attività, che un giocatore di briscola in una partita voglia prendersi tutte le carte sul tavolo perché ha calato il quattro di picche e poi nella successiva giochi sostenendo che il due batta l’asso. Si può anche fare: basta saperlo prima. Sono le famose regole del gioco che finché non sono definite, continuava a ripetere diversi mesi fa l’amministratore delegato di Ubi Victor Massiah, rendevano impossibile parlare di acquisizioni tra banche. Chi compra qualcosa vuole avere certezze, in ogni cosa, e questo è più legittimo. Possiamo immaginare cosa possa pensare Massiah dopo che il Consiglio di Stato è di nuovo intervenuto, a distanza di quasi due anni dalla riforma delle Popolari, per dire in sostanza che si è scherzato e si torna alla situazione precedente. Qui il cambiamento delle regole del gioco vale centinaia di milioni di euro. Si ha un buon esempio d’incertezza del diritto con il verdetto della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, il massimo tribunale amministrativo, che ha rilevato la “non manifesta infondatezza” dei dubbi sulla legittimità costituzionale di parte della riforma delle banche popolari ed ha quindi chiesto di esprimersi alla Corte Costituzionale. E, nell’attesa, ha sospeso l’efficacia della circolare della Banca d’Italia sulla possibilità di limitare il rimborso delle azioni su cui è stato esercitato il diritto di recesso in relazione alla trasformazione in Spa.

Stiamo parlando dell’articolo 1 del decreto legge del 24 gennaio 2015, appunto quasi due anni fa, che imponeva alle banche popolari di maggiori dimensioni di trasformarsi in società per azioni entro un termine ora di imminente scadenza, pena, di fatto, il ritiro della licenza bancaria, o in alternativa il ridimensionamento sotto una certa soglia patrimoniale, operazione praticamente impossibile senza impoverire l’istituto. Dato che la trasformazione in Spa è una delle operazioni straordinarie nelle quali al socio dissenziente è concessa la possibilità di vedersi liquidate le azioni, veniva prevista la possibilità di limitare questo diritto, in particolare per evitare che l’esborso indebolisse patrimonialmente le banche, tanto più in una fase nella quale ne veniva invece richiesto, se non imposto, l’irrobustimento. Alcuni dubbi sulla riforma erano stati sollevati immediatamente, ma non c’era stata una risposta chiara e convincente. Anzi, in alcuni giudizi si era detto che andava bene così. Così quasi tutti gli istituti sono andati avanti secondo quella che pareva la normativa in vigore. Quasi due anni dopo però si scopre che «appaiono sussistenti la legittimazione e l’interesse al ricorso rispetto ai soci (rispettivamente della Banca Popolare, della Banca Popolare di Sondrio, della Banca Popolare di Milano e dell’Ubi – Unione Banche Italiane), in quanto i provvedimenti impugnati (e la disciplina legislativa sulla cui base sono stati adottati) incidono direttamente su prerogative relative allo status di socio della banca popolare, così presentando profili di immediata lesività», come si legge nella decisione del Consiglio di Stato.

Se dovesse cadere la riforma, in sostanza, le banche che hanno deciso la trasformazione in Spa e credevano di doverlo fare in virtù di un obbligo, anche pesante, di legge, scopriranno che in realtà non erano obbligate a farlo. Ma adesso che sono diventate Spa a seguito di una “libera” decisione dei soci in assemblea non possono ridiventare automaticamente una cooperativa solo perché la legge che li obbligava a farlo non è più valida: dovrebbero infatti votare nuovamente in un’assemblea che però adesso ha altre maggioranze e che difficilmente, per non dire mai, accetterà una nuova trasformazione che ne limita i diritti. Ma c’è di più. Ubi Banca ha potuto concedere il diritto di recesso solo per 13,17 milioni di euro, rispetto alla richiesta per 258 milioni da parte degli azionisti che ne hanno chiesto l’esercizio (ovvero il 5,26% dei titoli oggetto di recesso, pari allo 0,2% del capitale), perché era prevista una limitazione in modo che il patrimonio non scendesse sotto il coefficiente di capitale primario richiesto dall’Europa.

Se adesso dovrà concedere il rimborso anche a quanti non sono stati soddisfatti, dovrà pagare altri 245 milioni circa con corrispondente indebolimento del patrimonio che dovrà reintegrare, probabilmente con un aumento di capitale. Ma dato che in Ubi ci si era illusi che le regole del gioco fossero state finalmente definite e fissate, nel frattempo si era entrati nel concreto del discorso delle acquisizioni. In particolare Ubi sta facendo i conti per acquistare tre delle quattro good bank nate dalla risoluzione ((Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti). L’operazione dovrebbe comportare, insieme ad altre condizioni, anche un aumento di capitale per rafforzare in ogni caso il patrimonio e c’è discussione sull’importo che potrebbe essere necessario: e, a quanto si apprende, un centinaio di milioni in più o meno sono sentiti come una differenza sensibile. Possiamo immaginare quindi cosa possa avvenire se tra capo e collo arriva una mazzata da altri 245 milioni, per una vicenda tra l’altro ritenuta chiusa da tempo: sono botte che rischiano di bloccare tutto.

Situazioni simili a quella di Ubi sul recesso si trovano in tutti gli altri istituti che hanno già effettuato la trasformazione ed hanno conseguenze particolarmente pesanti nel caso della fusione tra Bpm e Banco Popolare, con costi supplementari imprevisti che rischiano di dovere ricalcolare l’operazione. Dato che a complicazioni si sommano le complicazioni, nei prossimi giorni sono in programma le assemblee degli ultimi tre istituti che ancora devono diventare Spa: la Popolare di Bari, quella di Sondrio e Volksbank. Che a questo punto non sanno bene cosa fare: la trasformazione rischia di diventare troppo onerosa, ma non trasformarsi rischia di fare violare una legge, che però non si sa bene se continuerà ad essere tale. Già si pensa ad un decreto che tamponi almeno la sospensione decisa dal Consiglio di Stato, in attesa che la Corte Costituzionale magari dica che la riforma non è anticostituzionale e tutto si risolva, anche se non si sa quando. Perché il problema non sono le regole, ma la loro incertezza e i tempi con i quali si prendono le decisioni. Nella triste rassegnazione che nel frattempo ci saranno ancora altre modifiche, non si sa come, non si sa in quale direzione.

 


Referendum: nessun vincitore, un solo sconfitto

 

Non una semplice sconfitta, ma uno schiaffone. Sì, un manrovescio pesantissimo che gli italiani, accorsi in massa alle urne, quasi come un sol uomo hanno voluto riservare anzitutto ad un uomo, Matteo Renzi, che in tre anni ha trasformato una promettente ambizione di cambiare il Paese in arroganza presuntuosa da bulletto di paese (con la minuscola). Voleva un plebiscito, l’ha avuto, ma al contrario. Dalle urne è uscito un urlo: vai a casa. L’altissima affluenza dimostra che Renzi se l’è cercata. Ci ha costretto ad una campagna elettorale lunghissima. L’ha infarcita di promesse, di regalie a destra e a sinistra, di battute sprezzanti nei confronti degli avversari (che hanno ricambiato con gli interessi, cosa assai riprovevole, ma chi è premier dovrebbe volare più alto). E’ riuscito perfino, ad un certo punto, a far sparire la bandiera dell’Europa da dietro le sue spalle per far passare l’idea che era contro quell’Europa che invece gli ha fatto arrivare ogni endorsement possibile. Ha perso con quasi venti punti di svantaggio, una disfatta, e dire che fino a poche ore dall’apertura dei seggi andava raccontando, con la complicità servile di tanti organi di informazione, che stava realizzando una clamorosa rimonta. Balle, tutte balle.
Altri, analisti più sottili di noi, avranno modo di elencare per filo e per segno tutti gli errori che ha commesso. Limitiamoci ad osservare che il primo, enorme, è stato quello di trasformare il referendum nel cavallo di Troia per quella legittimazione popolare che non aveva avuto nel momento in cui aveva congedato, con la brutalità che ora gli torna indietro, Enrico Letta. Ma più della politologia, di fronte ad un risultato così netto con una partecipazione così ampia, conta forse l’impressione, epidermica e superficiale fin che volete, di una larghissima parte di italiani che non ne poteva più di un presidente del Consiglio costantemente sopra le righe, un premier diuturnamente impegnato a dipingersi come unico salvatore della Patria. Uno sfoggio di superomismo che ha spinto a votare No con rabbia anche tanti che solo nel 2014 gli avevano dato fiducia.
E poi, che dire di quel pessimo modo di trattare i contrari alla riforma come tutti gufi, arrabbiati, ignoranti, incattiviti, sfascisti? Anziché cercare di allargare il suo consenso, Renzi ha alzato muri dovunque. E con lui quel circolo di nani e ballerine di cui, lui come quelli che lo hanno preceduto, si era circondato. Tutti bravi a lanciare battutacce sui social, nessuno capace di elaborare un pensiero proprio in grado di mettere un argine all’esuberanza del ragazzotto di Rignano sull’Arno.
Ma lo schiaffone è arrivato sul muso anche dei tanti che, pur esprimendo giudizi talvolta molto severi sull’ipotesi di riforma, hanno cercato di far capire che era più importante andare avanti sulla cattiva strada. Primo fra tutti Romano Prodi, uscito allo scoperto pochi giorni prima del voto con il suo solito modo da vecchia Democrazia Cristiana, dicendo tutto e il suo contrario. E poi i tanti osservatori stranieri più o meno interessati, i presidenti di Confindustria e di tante banche che hanno tentato in ogni modo di influenzare il voto, sbattendo contro il volere degli italiani. Nel mazzo non possono mancare gli organi di informazione. Renzi aveva l’appoggio dei grandi giornali, dei telegiornali, di uomini della cultura e dello spettacolo. Come con la Brexit e l’elezione di Trump, non ci hanno capito una cippa, dimostrando una siderale distanza dal sentire dell’opinione pubblica (e si capisce perché non si vendono più giornali…).
Ognuno adesso ha titolo per individuare le cause della vittoria del No. Nel calderone c’è di tutto: i morsi della crisi economica, la mancanza di lavoro, lo spirito conservativo, la rabbia sociale, l’antipatia nei confronti del premier, la rivalsa dei suoi avversari interni, il populismo trionfante. Checchè ne dicano Salvini, Berlusconi, Di Maio e festeggianti vari, non c’è alcun vincitore (dire No non è un programma politico alternativo) ma solo uno sconfitto: Matteo Renzi. Anche chi oggi canta vittoria da domani senza il panno rosso renziano farà fatica a trovare qualcosa da raccontare agli italiani. Ed è qui il vero problema. Renzi ci ha fatto perdere due anni. Gli altri non hanno fatto molto di più. Ora si azzera tutto. E tutti hanno il dovere di mostrarsi all’altezza di una sfida ahinoi davvero drammatica.

 

 


Referendum, ecco perché nulla sarà più come prima

Rien ne va plus, date il vostro voto (se volete, naturalmente). Il 4 dicembre, quale che sia l’esito del referendum costituzionale, segnerà uno spartiacque. Si chiude un ciclo politico, quello chiamato un po’ troppo pomposamente “la stagione delle grande riforme”. E ci si avventura su terreni sconosciuti. Proviamo a immaginare gli scenari.
Se vince il Sì, il presidente del Consiglio acquisisce quella legittimazione popolare (“non è stato eletto” la critica che gli è sempre stata mossa”) che finora gli mancava. Il suo potere, ancorché non modificato dalla riforma, si rafforzerebbe. Da un punto di vista formale per l’investitura ricevuta dagli elettori, da un punto di vista sostanziale perché è prevedibile immaginare come conseguenza della vittoria nuovi smottamenti di parlamentari pronti a saltare, un po’ tardivamente (ma non bisogna sottilizzare), sul carro che marcerà a tappe forzate verso le elezioni. Che poi queste si tengano prima della scadenza naturale, che comunque non è così lontana (febbraio 2018), è in fondo un particolare trascurabile. Molto dipenderà da come, e se, verrà modificata la legge elettorale. Ricordiamolo: Renzi ha fatto approvare, con tanto di fiducia, l’Italicum nella convinzione che fosse il miglior abito ritagliato sulla sua stazza. Solo che poi, risultati elettorali alla mano, si è reso conto che forse era ancor più adatto al Movimento 5 Stelle. E allora, sulla spinta anche della minoranza Pd, si è acconciato a mettere in conto una modifica. Ammesso che vi sia (perché c’è chi immagina che una volta intascata la vittoria sul referendum possa provare a cavalcare l’onda tenendosi l’Italicum), si tratterà di vedere di che natura sarà. Resterà un sistema maggioritario, pur con tutte le varianti possibili, o si tornerà al proporzionale? Più probabile la prima ipotesi.

Comunque sia, ci attendono mesi in cui Renzi accentuerà il suo piglio decisionista, sia sul fronte interno che su quello europeo, per arrivare all’appuntamento elettorale, quando sarà, con più munizioni possibili. Le elezioni, a quel punto (nel suo disegno, ovviamente), non saranno altro che la sua consacrazione da statista che ha “cambiato il Paese” verso luminosi traguardi (che Dio gliela mandi buona). In questo scenario, inutile dirlo, destra e sinistra andrebbero a pezzi, pur per ragioni diverse. Attorno al giovanotto toscano si coagulerebbe una forza politica neocentrista, probabile versione 4.0 della fu Democrazia Cristiana, quello che la pubblicistica definisce il Partito della Nazione.

Se dovesse prevalere il No, invece, Renzi ne uscirebbe azzoppato. La sua tradizionale baldanza a quel punto si vedrebbe costretta a misurarsi con la necessità di ricostruire un tessuto lacerato da una riforma che doveva far svoltare il Paese e che invece l’ha diviso ancora di più. In campagna elettorale il premier ha evocato lo spettro del “governo tecnico” ma non è affatto detto che sarà questo l’epilogo. Più probabile, piuttosto, che si vada ad un esecutivo sullo stile del Patto del Nazareno. Berlusconi si è già detto disponibile. E se la battaglia diventerà, come pare oggi, costruire un argine al Movimento 5 Stelle, il governo di larghe intese sarà obbligato. Lo guiderà una figura autorevole, quasi sicuramente del Pd, per il tempo che basta ad approvare  una leggere elettorale nuova, di impianto proporzionale, e ad indire le elezioni. Sul fronte politico, la sconfitta nel referendum avvierebbe in anticipo il regolamento dei conti congressuale dentro il Pd. Alcuni capi bastone oggi renziani potrebbero, l’esperienza insegna, voltare gabbana e prestarsi a costituire una nuova maggioranza con un altro segretario. Più complesso immaginare lo scenario futuro nel campo opposto. Un eventuale governo di larghe intese rimetterebbe al centro della scena Berlusconi. Ma Salvini e Meloni che faranno a quel punto? L’implosione è eventualità tutt’altro che remota.

Resta solo da osservare che, come finisca il referendum, bisognerà fare i conti con il Movimento 5 Stelle. Al netto della disastrosa gestione di Roma (per ora) e di alcuni scandaletti (le firme false non sono una loro esclusiva), i grillini continuano a godere del consenso di circa il 30 per cento degli italiani. È un patrimonio che possono permettersi di utilizzare in vario modo. Cioè mettendosi una buona volta in gioco davvero per il governo del Paese oppure rimanendo sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere del vecchio sistema. Anche per il M5S, dunque, il 4 dicembre non sarà una data qualsiasi.
Prepariamoci, allora. Il film che abbiamo visto negli ultimi tre anni è arrivato ai titoli di coda. Rien ne va plus, faites vos jeux.

 

 


Gli intollerabili commenti su Fidel tra realtà e nostalgie giovanili

fidel-castroCome ho sempre sostenuto, noi non siamo pronti per la storia: troppo impegnati a fare il tifo, troppo disposti allo schieramento, per avere il senso dell’oggettività storica. Andiamo avanti da settant’anni con gli strascichi di una guerra civile che, in altri paesi, sarebbe stata digerita da almeno mezzo secolo: ancora oggi, in un mondo governato da ben altri meccanismi e con ben altri rischi totalitari, c’è gente che starnazza di fascismo e di antifascismo, accapigliandosi per proibire di qua, celebrare di là, mettere e levare cittadinanze, lapidi, corone di fiori. Siamo immaturi, storicamente parlando: ci manca quella capacità di affrontare sine ira et studio le capriole della storia e le insidie della memoria, tanto collettiva quanto individuale, che, in questo Paese, è una fonte tutt’altro che attendibile. Per questo, quando leggo i commenti di questo o di quel colore alla dipartita di Fidel Castro, una parte di me ridacchia divertita, mentre un’altra parte s’incazza come un bufalo. Il regime di Castro a Cuba, come tutte le dittature del Novecento, è stato un fenomeno complesso, da contestualizzare e da analizzare con pazienza e spirito scientifico: io dico che ci vorranno altri cinquant’anni, prima che lo si possa definire in una maniera storicamente accettabile. Ma che Castro sia stato un dittatore sanguinario e con un culto smodato della propria personalità, questo è sotto gli occhi di tutti: un assassino è un assassino e una viola mammola è una viola mammola, anche se l’assassino combatte contro il gigante Golia.

Invece, forse perché Castro, con la sua appendice, altrettanto sanguinaria ma assolutamente iconica, rappresentata da Ernesto “Che” Guevara, è stato il supereroe buono di tanti sogni adolescenziali di quelli che oggi fanno informazione in questo Paese, a leggere i giornali sembrerebbe che stessimo parlando di Batman e Robin. Facciamo a capirci, signori giornalisti: un conto è la nostalgia per i vostri formidabili vent’anni e altro è la realtà. Un conto è il vostro individuale e collettivo delirio dietro a bufale politiche come il Nicaragua, il Vietnam o Cuba ed altro è la sofferenza dei popoli, il massacro degli oppositori, la repressione della libertà. Io capisco che possa essere consolatorio illudersi di essere stati belli e puri, e di avere avuto ragione: ma avevate torto marcio, quando sostenevate alcune tra le più buie dittature del XX secolo, come avete torto marcio oggi a fare finta di essere tutti anime candide. Così, le rievocazioni dei barbudos che uno contro mille vincono, perché i buoni vincono sempre, viva la revoluciòn, hasta la victoria siempre, non raccontano che un pezzettino mignolo mignolo della Cuba di Castro: quello più presentabile, più accattivante.

Certo, il nano caraibico che sfida l’embargo del gigante americano fa simpatia: ma non si può trasformare questa istintiva simpatia in una formidabile fetta di salame sugli occhi. E dire che la sanità cubana è la migliore del mondo, tenendo conto dell’embargo e della condizione generale dell’isola, è una stupidaggine colossale: sarebbe come dire che il clima della Mauritania, tenendo conto della sfiga di avere un deserto proprio da quelle parti, è l’ideale per chi soffra di reumatismi. Insomma, esaminiamo pure la storia personale e politica di Fidel Castro con tutta la benevolenza possibile ed immaginabile, ma non trasformiamo il dato storico in una pochade: questo non può essere tollerato. Non lo si può fare per rispetto delle migliaia di persone che Castro ha fatto uccidere, scomparire, incarcerare: per gli oppositori, gli omosessuali, la gente qualunque che ha passato anni nelle carceri di cui, all’inizio, il responsabile era proprio il santo laico Guevara, e che non è mai uscita o ne è uscita per venire ammazzata. Esiste un pudore della storia, una dignità degli storici: oltre un certo limite non si può andare, perché sarebbe indecente farlo.

Giustificare i lager, i gulag, i laogai sarebbe indecente: giustificare Castro rientrerebbe nello stesso tipo di indecenza. Dunque, studiamola, questa rivoluzione cubana, facciamo confronti, collochiamola nel giusto contesto: ma celebrare un dittatore o, peggio, far finta di ignorare o dimenticare gli aspetti drammaticamente crudeli della sua dittatura, come hanno fatto tanti politici, scribacchini, mezzibusti e perfino il Papa, quello, lasciatemelo dire, è intollerabile. Dovrei pensare, allora, che tanta gente colta, preparata, importante, è talmente collusa con la sporcizia del potere da mentire per la gola: da assolvere un dittatore e condannarne un altro, in base al colore della dittatura? Non voglio crederlo: preferisco immaginare che, a caldo, prevalga la nostalgia per la propria stupidità giovanile, che ammettere di vivere in mezzo a tante carogne. E, infine, ho notato, sempre fra il divertito e l’incazzato, il necrologio di Castro pubblicato da “L’Eco di Bergamo” su mandato dell’associazione Italia-Cuba, come se fosse morto Bige Ramella, valente beccaccinista. Mi sono detto che, certamente, la pecunia, come dicevano i latini, non ha odore: ma, qui, di odori ne circolano altri, e tutti piuttosto intensi quanto a fragranza.

 

 


La rivoluzione culturale di Gasperini? Un modello per il territorio

Allora si può. Allora, alla faccia di tanti anni passati a lucrare un punticino dietro l’altro con prestazioni speculative ancorché redditizie, anche l’Atalanta può giocare un calcio spettacolare. Allora, senza invocare antistorici (Verona) o impossibili (Leicester) paragoni, anche una società di provincia può legittimamente aspirare a raggiungere posizioni ambiziose in classifica e cullare pensieri che al momento paiono solo divagazioni oniriche.
Al di là di quanto è stato detto e scritto nei giorni scorsi dopo la vittoria sulla Roma (e i 25 punti conquistati in 13 partite), l’Atalanta guidata da Gian Piero Gasperini ha soprattutto un merito. Quello di aver avviato una vera e propria rivoluzione “culturale”. Non alzate il sopracciglio e non stupitevi se ne parliamo in una sede che solitamente non tratta temi sportivi. Ma vuoi per ciò che rappresenta il calcio vuoi per il ruolo-valore che ha la squadra nerazzurra per i bergamaschi forse non è ozioso lasciare da parte per una volta politica ed economia per affrontare un tema che può essere anche letto come cartina di tornasole per misurare la maturità e la consapevolezza nei propri mezzi di un territorio. Sì, perché questa Atalanta sta facendo giustizia di un certo modo sparagnino e utilitaristico di vedere il football. Per intenderci, quante volte abbiamo sentito ripetere, da parte della società e dei giocatori ma anche di molti tifosi, che “il nostro obiettivo è la salvezza”, dogma in funzione del quale qualsiasi desiderio di vedere giocare un buon calcio o di ammirare la crescita di un giovane prodotto in casa era frustrato sul nascere?

Tutto l’ambiente per anni e anni si è accontentato, tante brutte partite ma risultati sufficienti a conquistare in anticipo o quasi l’agognata salvezza, e senza rendersene conto si è adagiato su un fondo di grigia mediocrità. Mentre altrove, è stato il caso per una buona decina di anni dell’Udinese ed ora è la volta del Sassuolo (entrambe espressioni di realtà assolutamente alla portata di Bergamo), c’era chi cresceva, dava spettacolo, sfornava campioni e scalava le vette della classifica, guadagnandosi per soprammercato la licenza di andare a frequentare pure le competizioni europee (ah, quanta nostalgia…).

Gasperini, con il suo carattere spigoloso e insidioso, con quella dose di presunzione che a volte fa passare da temerari a condottieri invincibili, ma soprattutto con le sue innegabili capacità tecniche supportate da un coraggio non comune (nel lanciare i giovani), sta dimostrando che osare si può, che l’Atalanta può giocare alla pari con le grandi e a volte infliggere loro autentiche lezioni, che nessun traguardo è precluso in partenza, che mettere in campo ragazzi cresciuti nel settore giovanile anziché essere un azzardo è un’arma in più. Ciò che conta, ed è qui che forse ha un valore il ragionamento calcistico, più delle risorse a disposizione (certo non trascurabili), è il progetto. Un progetto che, naturalmente, deve basarsi sulla qualità, sulla capacità di tenuta alla distanza, sulla lungimiranza, sul coraggio, sulla consapevolezza che una vera comunione di intenti fra tutte le parti in gioco può fungere da moltiplicatore di energie.

Tutto questo pare esserci alla base del brillante avvio di stagione di Gomez e compagni. I risultati poi potranno venire o no, e naturalmente da ultradecennali frequentatori dello stadio ci auguriamo che continui così, ma forse conta molto di più il cambio di mentalità che la “cura” Gasperini sta portando. Quanto sarà produttiva dipenderà anche da noi. Da quanto si sarà capaci di mettersi in discussione, di buttare a mare tanti luoghi comuni del passato, di progredire anche culturalmente perché non capiti più di leggere, per esempio, che il massimo complimento per un allenatore vincente è di considerarlo “bergamasco” (quando il provincialismo si fa gretto e becero è davvero rivoltante). Ecco, in una parola, basta una volta per tutte con l’autoreferenzialità, smettiamola con il dire (più che credere) che piccolo è bello, finiamola di crogiolarci nella nostra pur gloriosa storia e guardiamo al futuro con la freschezza, l’intraprendenza, l’entusiasmo, per tacer del resto, dei ragazzi terribili di Mastro Gasperini. Di sicuro non ci annoieremo.

 


La dinamica degli stipendi tra deflazione e potere d’acquisto

eurosito.jpgSi potrebbe parlare di magico mondo dell’economia, perché nonostante i cultori di questa scienza si affannino con numeri e diagrammi per dimostrarne la razionalità, alla fine sono più determinanti l’impressione e l’illusione. Così è con l’inflazione. A Bergamo, come nella media italiana, a ottobre l’indice dei prezzi al consumo è sceso dello 0,1% rispetto a settembre. E il tasso tendenziale rispetto allo stesso mese dell’anno precedente è calato dello 0,2%. Nonostante i dati ufficiali, che non si possono confutare, affermino tendenze deflazionistiche, l’opinione dei consumatori è che i prezzi continuino a salire. Questo perché le valutazioni “nasometriche” enfatizzano alcune componenti a discapito di altre. Si avverte di più, per esempio, un aumento della benzina di un suo successivo calo. O, ancora, si concentra l’attenzione sulla decisione del Comune, discutibile semmai per altri effetti non economici, di aumentare di venti centesimi all’ora il parcheggio, o sulle tariffe idriche, trascurando variazioni in alto e in basso ben più sostanziose. Le percentuali non aiutano. Il rincaro dei parchimetri bergamaschi è stato di venti centesimi all’ora: si va da un aumento dell’11% (da 1,8 a 2 euro), nella zona rossa, quella più centrale ad uno del 25% (da 80 centesimi a un euro) nella zona gialla. Di fronte ad aumenti del 25% sembra incredibile che complessivamente i prezzi possano calare, ma così è, perché i parcheggi sono solo una componente marginale (se non nulla, per chi non ha un’automobile) della spesa.

Quindi, anche se non sembra, siamo in deflazione, una fase di flessione tendenziale dei prezzi che dipende ancora in buona parte dal calo dei beni energetici, ma anche da una contrazione della ricchezza e dei consumi. Se la crescita dell’inflazione spaventa perché porta a una riduzione del potere d’acquisto, la deflazione, che pure permette di comprare più beni con lo stesso importo, è pericolosa perché è espressione di una caduta dell’attività economica. Gli acquisti, in particolare quelli importanti, investimenti compresi, vengono rinviati nella convinzione che in futuro il prezzo si abbasserà. Di rimando i venditori cercheranno di collocare i loro prodotti a prezzi inferiori, innescando una spirale negativa per la quale le stesse imprese, vedendo diminuire gli acquisti da altre imprese, cercano di ridurre i costi con conseguenze sull’occupazione e quindi sui redditi. In questa trappola sono caduti paesi come la Grecia e, in passato, il Giappone, negli anni 2000-2006 (inducendo poi la Banca centrale a lasciare i tassi allo zero per cento per favorire la liquidità circolante). Dagli anni Ottanta in poi non si sono verificati casi eclatanti di deflazione in Occidente, anche se la Germania ha registrato una contrazione dei prezzi al consumo per un breve periodo nel 2009, così come gli Usa tra il 2008 e il 2009. Ad agosto 2014, l’Italia è entrata in deflazione: non succedeva da quasi sessant’anni, e cioè dal settembre 1959. Ma non è una situazione da rimpiangere: non è una premessa né di dolce vita, né di boom.

Con la deflazione, o comunque con l’inflazione zero, il denaro, anche restando fermo, si “rivaluta” in termini di crescita di potere d’acquisto. Questo però solo all’inizio. Alla fine anche questa rischia solo di essere apparenza, seppure più difficile da cogliere. I recenti dati Inps hanno infatti mostrato che anche se i prezzi sono rimasti invariati gli stipendi sono, per quanto possibile, ancora più “fermi”. Il monte salari che risulta all’istituto, per effetto evidentemente di uscite di lavoratori con paghe più alte sostituiti da altri con stipendi più bassi, determina un calo del salario medio lordo 2015 degli italiani di quattro euro, a quota 21.341 euro, rispetto all’anno precedente. Negli ultimi cinque anni, inoltre, l’inflazione è salita del 7% a fronte di retribuzioni cresciute di meno della metà, intorno al 3%. Se la deflazione ha “salvato” il potere d’acquisto l’anno scorso, non lo ha fatto però in quelli precedenti, caratterizzati non a caso da consumi cedenti. E difficilmente lo tutelerà in futuro. L’inflazione zero al momento è infatti legata ancora all’onda lunga del ribasso del prezzo del petrolio. Adesso però le quotazioni sono in ripresa, tanto che diversi esponenti della Bce si aspettano in primavera un’inflazione all’1,5%. E’ da escludere però che gli stipendi si adegueranno a questo ritmo e allora anche chi contesta il presunto partito dell’austerità dovrà prendere atto che il rigore se non ce lo si dà da soli prima o poi diventa un obbligo.

 

 


Una bergamasca a Londra / L’italia fuori dall’Ue? In Inghilterra l’ipotesi guadagna terreno

LondraDopo la Brexit e l’elezione di Donald Trump, abbiamo capito che è meglio ignorare i sondaggisti e affidarsi paradossalmente alla legge di Murphy: se le cose possono andare male, allora andranno male. Si, sono negativa e pessimista. E spero davvero di sbagliarmi. Intanto voto per posta, ma mi preparo ad un altro risultato deludente sul fronte elettorale. L’Europa guarda all’Italia e si aspetta un’altra ondata di cattive notizie. E non mi riferisco al fatto che la vittoria del no possa spodestare Matteo Renzi dallo scranno da primo ministro. Mi riferisco invece al timore, molto più esteso, che l’Italia venga travolta da un’ondata populista e si avvii verso l’uscita dall’Unione Europea. A volte chi guarda le cose da lontano le vede con più chiarezza. Da Londra, questa possibilità spaventa ma guadagna anche terreno. Quel che è singolare è che le cause di questo pronostico nefasto non hanno molto a che fare con il referendum. E se vi state chiedendo se le cose qui a Londra siano peggiorate dopo la Brexit, la risposta è semplice ed è affermativa.

Ma veniamo all’Italia. Dall’entrata in circolazione dell’euro, la produttività italiana è scesa del 5 per cento, mentre in Francia, Germania e Inghilterra è salita del dieci per cento. Dopo la crisi dell’eurozona, iniziata nel 2010 e proseguita fino alla fine del 2012, le misure di austerità e controllo imposte dalla cancelliera Angela Merkel – che guarda caso non gode di grande popolarità in Italia e nei paesi europei con economie deboli – hanno scatenato un’ondata di populismo in tutta Europa, con la brutta faccia di Nigel Farage in Inghilterra, quella più fotogenica di Marie Le Pen in Francia, e con ben tre facce in Italia: il Movimento Cinque Stelle, la Lega Nord e pure Forza Italia, che da quando Berlusconi è stato mandato a casa nel 2011, ha manifestato un forte sentimento anti Merkel ed anti euro. Sappiamo poi che in democrazia l’opposizione, prima o poi, va al potere. E se Renzi perde il referendum si potrebbe dimettere, aprendo il varco ad un altro momento di instabilità politica ed economica. Perché mai gli investitori stranieri dovrebbero investire in Italia? Qui dove sono io, dove si pensava che la Brexit non sarebbe mai accaduta, invece ci siamo svegliati il 24 giugno sotto choc, e non si sa ancora a che cosa andiamo incontro. Non stupirebbe quindi vedere uno o più Paesi lasciare l’eurozona. E se fossi uno scommettitore, punterei i miei soldi sull’Italia. Non lo sono, e mi limito a riporre le mie speranze su attese ragionevoli.

 

 


I tifosi, gli immigrati e l’assurda logica dello Stato

polizia stadiQuesto Paese, ormai, non ha più il problema del malgoverno o, come spesso ci sembra di percepire, del nongoverno: ormai siamo alla distopia, al Paese immaginario, uscito dalla fantasia di un narratore specializzato nella confezione di incubi sociali. Soltanto un Aldous Huxley votato al più fosco pessimismo, infatti, avrebbe potuto descrivere uno Stato in cui tutto procedesse al contrario, rispetto al semplice buon senso, e in cui le istituzioni, nate come manifestazione tangibile della volontà dei cittadini, si frapponessero ideologicamente tra gli stessi cittadini ed il loro quieto vivere. Ormai, la frattura tra la vita vera delle persone comuni e le scelte dell’establishment politico ed amministrativo è talmente profonda da poter realmente parlare di Stato reale, ossia l’insieme nazionale degli italiani dotati di facoltà civili e giuridiche, e Stato virtuale, vale a dire l’idea di Stato che sovrintende alle sconcertanti decisioni di chi ci governa. Eppure, tanto appare palese il malessere della gente comune, quanto le istituzioni sembrano non accorgersene e, anzi, procedere sempre più speditamente nella direzione opposta a quella invocata, in nome di non si capisce bene quale superiore fine. E queste istituzioni, occhiute, sparagnine, vessatorie, quasi che gli Italiani fossero un popolo nemico, invaso e colonizzato, di cui temere la subdola doppiezza e la genetica tendenza all’imbroglio, e non lo stesso popolo di chi li governa ed amministra, decidono sempre per il peggio, sempre per la cosa più stupida, più pasticciata, meno sensata.

Che pensare, ad esempio, di certe decisioni riguardanti la sicurezza pubblica, che dimostrano, al contempo, sovrano disprezzo per le istanze, talvolta disperate, dei cittadini, e un’incapacità razionale e progettuale che rasenta, appunto, la letteratura di genere? Prendiamo un caso recentissimo, fresco di cronaca: la partita giocata tra Atalanta e Roma domenica scorsa. Ogni volta che qualcuno lamenta il degrado e la scarsa sicurezza delle nostre città, la risposta dei politici è sempre uguale: le forze dell’ordine sono sotto organico, non hanno mezzi, non hanno neppure la benzina per pattugliare le strade, insomma, hanno le pezze sul sedere e fanno quello che possono. Poi, per scortare all’aeroporto un autobus – dicasi uno – di tifosi romanisti, vedo sfrecciare in via autostrada quattro motociclisti della polizia locale, due automobili e un furgone blindato. Il tutto, mentre il traffico viene bloccato da altri due agenti piantati ai semafori. Insomma, per capirci, coi soldi che io verso di tasse, che sono una montagna e che rappresentano un unicum europeo, anziché pagare le ronde, i controlli, i presidi, che servirebbero a restituire ai cittadini intere zone della città, si preferisce assecondare l’uzzolo di qualche scalmanato che sbava per dei mutandoni che corrono dietro ad una palla, schierando un esercito a tutela di una partita di football. E questo sarebbe un Paese civile? Al confronto, il Burkina-Faso è Basilea!

Ma lasciamo pure perdere la civiltà, tema su cui, in Italia, si rasenta il suicidio sociale: parliamo di pura e semplice logica. Vediamo nel dettaglio come funziona questa mirabolante logica, tanto per chiarire con che gente abbiamo a che fare. Fase uno: si fa entrare in Italia un numero sconsiderato di immigrati, spacciandoli per profughi, quando quasi tutti sono semplici immigrati economici, che non si vuole o non si è in grado di controllare, rimandando a casa chi non ha il diritto di stare qui. Fase due: non si pongono limiti né di tempo né di quantità a questi ingressi, perché ci mangia sopra troppa gente legata a doppio filo coi politici e, finchè la dura, tutti ci guadagnano. Fase tre: si destina all’alloggio di questi poveracci tutto quel che si trova, dalle tende agli alberghi requisiti, fino a quando a qualcuno non viene la brillante idea di coniugare due temi cari all’intelligentsija come accoglienza e pacifismo, ospitandoli in qualche caserma, ormai inutile reperto di un’era di barbarie e di violenza militarista. Per meglio far capire il messaggio, si devolve al nobile scopo un complesso che avrebbe dovuto ospitare un reparto di Polizia, e che viene riconvertito all’alloggio degli immigrati, nonostante le reiterate proteste degli abitanti della zona: dura legge, ma in nome della giustizia, questo e altro.

Fase quattro: però, si scopre che la situazione è ingestibile, che si rischia l’insurrezione, che le strade sono sempre più insicure e che, soprattutto, la cadrega comincia a vacillare. E, allora, cosa si fa? Fase cinque: si torna al punto di partenza, come in un gioco dell’oca, dove vince il più demente: si invoca l’esercito nelle strade. Quello stesso esercito scacciato dalle caserme, viene richiamato in città (alloggiandolo non si capisce dove), per proteggere i cittadini da quegli immigrati che la Marina Militare è andata a prelevare fin sulle spiagge della Sirtica: ciò che si dice un’operazione interforze, insomma. E soltanto in un Paese ormai schienato dall’abitudine all’idiozia, solo al cospetto di un popolo bue che pretende le partite di football più che la sicurezza delle strade, solo in un mondo appeccorato come l’Italia cose del genere possono passare senza che scoppi una rivoluzione civile. In nome della più elementare giustizia.