Si potrebbe parlare di magico mondo dell’economia, perché nonostante i cultori di questa scienza si affannino con numeri e diagrammi per dimostrarne la razionalità, alla fine sono più determinanti l’impressione e l’illusione. Così è con l’inflazione. A Bergamo, come nella media italiana, a ottobre l’indice dei prezzi al consumo è sceso dello 0,1% rispetto a settembre. E il tasso tendenziale rispetto allo stesso mese dell’anno precedente è calato dello 0,2%. Nonostante i dati ufficiali, che non si possono confutare, affermino tendenze deflazionistiche, l’opinione dei consumatori è che i prezzi continuino a salire. Questo perché le valutazioni “nasometriche” enfatizzano alcune componenti a discapito di altre. Si avverte di più, per esempio, un aumento della benzina di un suo successivo calo. O, ancora, si concentra l’attenzione sulla decisione del Comune, discutibile semmai per altri effetti non economici, di aumentare di venti centesimi all’ora il parcheggio, o sulle tariffe idriche, trascurando variazioni in alto e in basso ben più sostanziose. Le percentuali non aiutano. Il rincaro dei parchimetri bergamaschi è stato di venti centesimi all’ora: si va da un aumento dell’11% (da 1,8 a 2 euro), nella zona rossa, quella più centrale ad uno del 25% (da 80 centesimi a un euro) nella zona gialla. Di fronte ad aumenti del 25% sembra incredibile che complessivamente i prezzi possano calare, ma così è, perché i parcheggi sono solo una componente marginale (se non nulla, per chi non ha un’automobile) della spesa.
Quindi, anche se non sembra, siamo in deflazione, una fase di flessione tendenziale dei prezzi che dipende ancora in buona parte dal calo dei beni energetici, ma anche da una contrazione della ricchezza e dei consumi. Se la crescita dell’inflazione spaventa perché porta a una riduzione del potere d’acquisto, la deflazione, che pure permette di comprare più beni con lo stesso importo, è pericolosa perché è espressione di una caduta dell’attività economica. Gli acquisti, in particolare quelli importanti, investimenti compresi, vengono rinviati nella convinzione che in futuro il prezzo si abbasserà. Di rimando i venditori cercheranno di collocare i loro prodotti a prezzi inferiori, innescando una spirale negativa per la quale le stesse imprese, vedendo diminuire gli acquisti da altre imprese, cercano di ridurre i costi con conseguenze sull’occupazione e quindi sui redditi. In questa trappola sono caduti paesi come la Grecia e, in passato, il Giappone, negli anni 2000-2006 (inducendo poi la Banca centrale a lasciare i tassi allo zero per cento per favorire la liquidità circolante). Dagli anni Ottanta in poi non si sono verificati casi eclatanti di deflazione in Occidente, anche se la Germania ha registrato una contrazione dei prezzi al consumo per un breve periodo nel 2009, così come gli Usa tra il 2008 e il 2009. Ad agosto 2014, l’Italia è entrata in deflazione: non succedeva da quasi sessant’anni, e cioè dal settembre 1959. Ma non è una situazione da rimpiangere: non è una premessa né di dolce vita, né di boom.
Con la deflazione, o comunque con l’inflazione zero, il denaro, anche restando fermo, si “rivaluta” in termini di crescita di potere d’acquisto. Questo però solo all’inizio. Alla fine anche questa rischia solo di essere apparenza, seppure più difficile da cogliere. I recenti dati Inps hanno infatti mostrato che anche se i prezzi sono rimasti invariati gli stipendi sono, per quanto possibile, ancora più “fermi”. Il monte salari che risulta all’istituto, per effetto evidentemente di uscite di lavoratori con paghe più alte sostituiti da altri con stipendi più bassi, determina un calo del salario medio lordo 2015 degli italiani di quattro euro, a quota 21.341 euro, rispetto all’anno precedente. Negli ultimi cinque anni, inoltre, l’inflazione è salita del 7% a fronte di retribuzioni cresciute di meno della metà, intorno al 3%. Se la deflazione ha “salvato” il potere d’acquisto l’anno scorso, non lo ha fatto però in quelli precedenti, caratterizzati non a caso da consumi cedenti. E difficilmente lo tutelerà in futuro. L’inflazione zero al momento è infatti legata ancora all’onda lunga del ribasso del prezzo del petrolio. Adesso però le quotazioni sono in ripresa, tanto che diversi esponenti della Bce si aspettano in primavera un’inflazione all’1,5%. E’ da escludere però che gli stipendi si adegueranno a questo ritmo e allora anche chi contesta il presunto partito dell’austerità dovrà prendere atto che il rigore se non ce lo si dà da soli prima o poi diventa un obbligo.