Zona arancione? Cambiamo strategia. Riapriamo i ristoranti di sera per ridurre gli assembramenti

Stiamo per tingerci nuovamente di arancione e anche questa volta non sarà uno scherzo. Se la questione sembra non far più notizia l’incubo per il commercio ritorna. Per bar e ristoranti torna il dramma della chiusura mentre la ridotta mobilità colpirà tutto il commercio. Peraltro la pandemia si mangerà la seconda Pasqua dopo quella dell’anno scorso e, speriamo di no, tutto il mercato degli eventi religiosi in programma in primavera.

La nuova ondata della pandemia, la terza, ci sta riportando indietro alle settimane terribili di ottobre dove molte persone si sono ammalate e gli ospedali sono andati in affanno. Non nascondiamo la gravità della situazione e anzi ne siamo preoccupati. La pandemia purtroppo non si è mai fermata da oltre un anno e il virus ha continuato a circolare mentre le misure restrittive sono state pesanti. Dall’inizio di questa brutta vicenda e nemmeno dopo oltre un anno siamo riusciti ad elaborare una strategia che consenta di evitare queste continue chiusure con un sistema che possa assicurare il contrasto alla pandemia con la possibilità del lavoro delle imprese e degli addetti.

Non si può accettare il concetto che queste attività, per loro natura, producono occasioni di uscita e assembramenti e quindi devono essere chiuse, perché parte dal concetto che uno Stato di diritto, non potendo far rispettare una legge, ne crea un’altra più pesante che è certo di far rispettare. È come se per evitare che la gente passi con il semaforo rosso si impedisse di utilizzare l’automobile!

Nella realtà qualcosa di diverso e di nuovo esiste in questa questione. Ed è stata l’occasione per Fipe, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi, di incontrare il nuovo Ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, per sottoporre la questione della revisione delle norme relative alle zone gialle e arancioni. La posizione è stata sintetizzata in un documento ufficiale del 23 febbraio scorso, quando ancora c’erano speranze di poter rivedere l’impianto del Dpcm per alleggerire le chiusure serali.

In queste settimane la chiusura serale dei pubblici esercizi e dei ristoranti ha portato ad un fenomeno in tutta Italia di “mala movida” che ha creato assembramenti di persone che consumavano per strada e in gruppo. Sebbene la cosa fosse vietata, i capannelli erano talmente tanti e numerosi che non è possibile controllarli ed evitarli. Questa novità ha messo in luce la necessità di un cambiamento. Non si può impedire un servizio controllato e sicuro, come da linee guida, nei bar e ristoranti per favorirne uno caotico e pericoloso per strada. L’arrivo della bella stagione enfatizzerà questo problema.

Occorre quindi che il Comitato Tecnico Scientifico del Governo prenda in considerazione un cambio radicale della strategia. Consentire il consumo al tavolo in bar e ristoranti vietando ogni tipo di asporto di bevande potrebbe favorire un consumo ordinato riducendo gli assembramenti esterni che potrebbero e dovrebbero essere puniti.
Questa è la nostra proposta che speriamo diventi propria di molti altri soggetti coinvolti, Sindaci e Prefetti. Questa sarebbe il reale cambiamento per far convivere salute e lavoro e per offrire una possibilità di sopravvivenza a migliaia di imprese sull’orlo del baratro.

 


A Bergamo non servono nuovi alberghi. L’offerta ricettiva basta a soddisfare le stime di crescita

A Bergamo non servono nuovi alberghi. Non lo diciamo certo per difendere interessi corporativi, ma perché il problema è evidente e sono i numeri del turismo a dirlo. Devono ascoltare e capirlo i potenziali investitori. Togliersi cioè dall’immaginario dell’onda lunga di Expo 2015 (che è finito 6 anni fa) e dall’idea che l’aeroporto di Bergamo possa crescere all’infinito. Questo sta creando un sovradimensionamento dell’offerta di stanze che pagheranno dazio. Bergamo è Bergamo e non è Venezia.

Quelli più vecchi di me ricordano l’effetto dei mondiali ’90 che portarono a Milano alla chiusura degli alberghi nei dieci anni successivi alla fine del mondiale di calcio. I nuovi insediamenti alberghieri della Grumellina e di via Autostrada che congiuntamente al nuovo albergo all’aeroporto, all’ospedale al Chorus life e in via Pignolo porteranno a un quasi raddoppio delle stanze nei prossimi cinque anni.

Abbiamo già detto che l’amministrazione comunale di Bergamo non ha alcuna responsabilità in questi progetti che derivano da vecchie autorizzazioni o da progetti di privati già autorizzati. Non deve però minimizzare il problema che esiste ed è reale perché l’epilogo l’abbiamo già visto nel nostro territorio sia sulle montagne sia sul lago. Di eccesso di offerta muoiono le strutture ricettive e le località nelle quali sono inserite.

L’investimento per un nuovo albergo, di solito notevole, richiede un lauto canone d’affitto a carico del futuro gestore. I ricavi dell’albergatore derivano dal numero di stanze occupate (tasso di occupazione) per la tariffa media. Sui prezzi della stanza d’albergo a Bergamo non aggiungeremo altro nel dire che sono statici da molti anni e che già questo costituisce un annoso problema di remunerazione degli investimenti. Ora però incombe quello più grave del calo dell’occupazione.

I dati sul turismo della città e dell’hinterland mostrano una crescita negli ultimi anni. A crescere però non sono i dati delle presenze alberghiere ma solo quelli dell’extralberghiero. Nei prossimi anni ci attendiamo che i flussi turistici tornino ai livelli di crescita pre-Covid ma aumenterà il turismo leisure e diminuirà il segmento business, che soffrirà dei cambiamenti intervenuti con lo smart working. In questo modo guadagneranno ancora presenze l’extralberghiero, mentre perderà il turismo negli alberghi. Inoltre, nel leisure la stagionalità non aiuterà, in quanto è solita concentrarsi solo in pochi periodi dell’anno e nel fine settimana (a differenza del turismo professionale che è continuo e occupa cinque giorni la settimana).

I dati pubblicati negli osservatori del Turismo della Provincia di Bergamo evidenziano che il tasso dei posti letto negli alberghi ha perso quasi tre punti percentuali negli ultimi tre anni scendendo dal 52,4% al 48,6%. In questo modo, confidando nel recupero delle presenze in tempi ragionevoli, diciamo con il 2023 dovremo tenere conto che nei prossimi 5 anni arriveranno non meno di 500 nuove stanze d’albergo a Bergamo e hinterland.

Il risultato atteso sarà di una diminuzione di altri 5 punti percentuali di presenze di occupazione media. Solo con una crescita potenziale tra il 15% e il 20% delle presenze sarà possibile mantenere le già magre ma sostenibili posizioni attuali. Difficile realmente raggiungere questi risultati. Giusto dirlo perché chi vuole investire lo sappia. I nuovi alberghi non andranno facilmente a regime mentre ci potranno essere altre chiusure eccellenti.

 


Da “Cenerentola” dei settori a pilastro della ripartenza. I professionisti dello sport chiedono dignità e coerenza

Quella che pongono i professionisti dello sport non è solo una questione di soldi anche se sul denaro (non preso) i diretti interessati potrebbero avere molto da recriminare perché tra dimenticanze, annunci non veritieri e spiccioli ricevuti, gli operatori di questo settore sono stati letteralmente abbandonati. Insieme alla cultura e al divertimento, lo sport è uno dei settori più colpiti dalle restrizioni imposte dalla pandemia e contestualmente dal mancato ristoro.

La questione che invece sta a cuore ai professionisti è soprattutto quella di dignità e coerenza. Il libero professionista che esercita professioni non “protette” o “non ordinistiche” è nel nostro Paese l’”ultima ruota di un carro” che viaggia piano e lascia indietro sempre i più deboli. Eppure i liberi professionisti risolvono molti problemi allo Stato senza chiedere molto in cambio. Lavorano tanto per sbarcare il lunario, bene per restare sul mercato; costituiscono il sistema connettivo del mondo delle imprese e risolvono bisogni di persone e imprese che altrimenti resterebbero insoddisfatti. Per di più, e non è poco in questi tempi, riducono le liste dei disoccupati e rinunciano al reddito di cittadinanza.

Cosa restituisce loro lo Stato? A parte qualche regime fiscale “superstrampalato” dell’ultima ora e un sistema previdenziale vecchio di trent’anni e non tutelante, poco altro. I politici continuano a pensare che la maggioranza degli autonomi lo faccia per evadere o per forza. È sbagliata la prima presunzione ed è vera la seconda ragione perché a queste condizioni sfido chiunque a continuare a svolgere l’attività da professionista in questo Paese. Non è casuale che la pandemia abbia rafforzato il trend negativo, che dura da anni, di calo dell’apertura di nuove partite IVA nel nostro territorio.

La questione della dignità emerge forte nell’anno del Covid. Non è che nemmeno le aziende abbiamo avuto ristori alla “tedesca” ma ai professionisti, in una fase in cui la loro attività è stata azzerata, è arrivato bonus (600 euro per due mesi) più bassi del reddito di cittadinanza.

Per i professionisti dello sport è inconcepibile la mancanza di coerenza nel non riconoscere il loro ruolo economico e sociale. Lo sport fa bene, non inquina, non esaurisce le risorse e aiuta le persone a stare sempre meglio. Soprattutto in Italia dove l’età media sta aumentando vertiginosamente, la spesa sanitaria sta esplodendo e le conseguenze di uno stile di vita ormai deviato rendono le persone bisognose di attività motoria e sportiva pena la catastrofe dell’aspettativa di vita americana. In periodo di pandemia lo sport andrebbe incentivato e non vietato.

A fronte di grandi bisogni, di obiettivi altisonanti la risposta dello Stato sembra ai più piccola piccola. In questa fase solo chiusure senza aiuti e distinzioni.

Il gruppo Libere Professioni di Ascom Confcommercio Bergamo nel suo convegno “Riattiviamoci – Sport benessere salute ed economia al tempo del Covid 19” sottolinea proprio questi aspetti: la categoria, pur allo stremo, non chiede (solo) ristori ma pretende dignità e coerenza, soprattutto nella prospettiva della ripartenza.

Nell’immediato, attraverso la riapertura dei luoghi di sport e delle pratiche perché accanto al danno economico la nostra società sta pagando anche quello fisico e psicologico. Si può fare sport in sicurezza e per il bene delle persone. Il gruppo dei professionisti di Confcommercio professioni di Bergamo offre spunti ed idee anche originali per riattivarci subito.

E in prospettiva, smettere di rappresentare la “cenerentola” dei settori ma deve diventare un pilastro della ripresa del nostro Paese. Con una detrazione fiscale per l’attività sportiva estesa a tutti ed a ogni età.

Lo sport fa bene al singolo, alle comunità e al nostro Paese. Anche all’economia. Sosteniamolo.    


Doccia gelata per bar e ristoranti. Il nuovo decreto è inaccettabile

Il decreto legge entrato in vigore il 7 gennaio è inaccettabile. Non solo perché rappresenta l’ennesima doccia gelata per bar e ristoranti che saranno costretti a chiudere il prossimo fine settimana quando invece avrebbero una forte necessità di poter lavorare. Questo provvedimento toglie speranza e rafforza quel senso di mancanza di prospettiva che il governo, più della pandemia, ha contribuito a diffondere. Ricordiamo la pomposa conferenza stampa nella quale era stato richiesto un grande sacrificio agli italiani e soprattutto ai gestori di bar e ristoranti, oltre che dei commercianti di generi non alimentari, costretti a chiudere nel periodo delle feste con l’auspicio di ripartire dopo l’Epifania.

Il colore arancione assegnato a tutta Italia obbligherà bar e ristoranti alla chiusura e a gestire le disdette delle prenotazioni già ricevute. Non è pensabile che si possano aprire e chiudere attività di impresa come se fossero interruttori. Come si può pensare di muovere e fermare lavoratori, comprare e gestire derrate alimentari senza programmazione? Come gestire imprese senza prospettive? Emerge scarsa competenza e molta approssimazione su questioni delicate. Il risultato è che in questa giungla di decreti e provvedimenti i cittadini e le imprese non ci capiscono più nulla, mentre con questo ennesimo decreto la maggior parte dei ristoranti sceglierà comunque di restare chiusa e lo farà in attesa di conoscere quali prospettive il Governo voglia riconoscere loro.

Il DPCM del 3 dicembre si era dato una proiezione di circa un mese e mezzo, fino al 15 gennaio, per capire come si sarebbe evoluta la pandemia chiedendo agli operatori di pazientare in attesa che i dati epidemiologici avessero riportato le diverse aree geografiche in area gialla. Così è stato per la Lombardia e anche per Bergamo i cui indici, suffragati anche da una ricerca dell’Università degli Studi di Bergamo, avevano evidenziato come nella seconda ondata i numeri della pandemia avrebbero giustificato misure meno restrittive.

Eppure Bergamo ha pazientato prima, con la stragrande maggioranza dei commercianti, l’arrivo della zona “arancione” avvenuta il 27 novembre, poi, con i bar e ristoranti, la tanto agognata zona “gialla” il 13 dicembre. Quel sistema che garantiva quel poco di linfa vitale alle imprese commerciali è durato poco, fino all’antivigilia di Natale. Eppure da quel 3 dicembre, data dell’ultimo DPCM, la situazione sanitaria è nettamente migliorata almeno per quanto riguarda il nostro territorio.

Il Governo italiano ha lanciato prima come novità e difeso pubblicamente poi questa sua impostazione “a colori” che, diciamocelo, ha fatto sorridere l’Europa e mosso l’ironia delle comunità dei social. Peccato che se proprio il Governo ne ha sancito il successo oggi lo sta già sconfessando. Se il Decreto legge del 18 dicembre, quello per il Natale, è stato giustificato dall’Esecutivo dall’esigenza di evitare spostamenti e assembramenti nel periodo natalizio, posizione criticabile perché i pranzi e cene sono state fatte comunque nelle case con rischi anche maggiori rispetto ai ristoranti, l’ultimo decreto legge, quello del 5 gennaio, definito come “ponte” verso il nuovo DPCM, non ha nemmeno una giustificazione plausibile. Noi riteniamo che sia il frutto di quel retaggio mentale di parte del Governo che ritiene siano i bar e ristoranti i luoghi del contagio mentre per molti imprenditori e cittadini rappresenti ormai un pericoloso “accanimento terapeutico” verso la categoria.

Più grave ancora è che il Governo abbia già pronto il cambio di criteri o degli indici per far precipitare interi territori in aree a maggiori restrizioni, arancioni e rosse. Come a dire che quando i sacrifici di pochi hanno portato miglioramenti per tutti allora si cambiano nuovamente le regole. Sempre e solo per quelli. Un “gioco dell’oca” nel quale qualcuno torna sempre indietro. Come è pensabile lavorare in questo modo? Si, perché bar e ristoranti non sono solo un servizio per i cittadini ma un lavoro per molti.

Le ordinanze del Ministro della salute che richiamano al primo punto gli articoli della costituzione sembrano cozzare con quanto sta avvenendo a danno di un intera categoria di cittadini e lavoratori. Questi provvedimenti, che si basano su presunzioni di violazione della legge e sull’incapacità dello Stato o di sue parti di far rispettare la legge e quindi le misure stabilite per mantenere il distanziamento, minano il diritto al lavoro di milioni di addetti, titolari e dipendenti delle imprese commerciali e in particolare del settore della ristorazione. Solo nella nostra provincia il settore conta quasi 5.000 imprese e circa 15.000 occupati.

Allora è giusto ricordare quanto recita la nostra Costituzione nei suoi primi quattro articoli “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…..La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità….Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge….La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ebbene a noi non sembra che in un Paese nel quale tutti i settori produttivi possano continuare a lavorare nel rispetto della legge questo non possa avvenire per alcuni. Ci umilia sentir parlare di misure necessarie per evitare nuovi lockdown perché quello che stiamo subendo è proprio questo. Non lo accettiamo e non ci rassegniamo nella denuncia di quanto sta avvenendo alle spalle di molta brava gente.


Lavoro, costruiamo la ripresa su solide competenze

Nel marasma del bombardamento mediatico negativo che giunge sui giovani, già provati dal nuovo lockdown, ogni tanto qualche notizia positiva è da sottolineare.  Che ci sarà posto eccome, a pandemia terminata, per coloro che avranno intrapreso e affrontato con serietà e dedizione il loro percorso di studio. E’ questo il messaggio che emerge dalla giornata del Commercio, Turismo e Servizi del programma delle giornate di orientamento professionale organizzata dal Rotary Club di Bergamo in collaborazione con Ascom Confcommercio.Un confronto avvenuto rigorosamente in digitale ma non per questo meno partecipato con il collegamento di quasi 500 ragazzi delle classi IV degli istituti superiori bergamaschi e con un podcast finale a tre voci, con la testimonianza dell’imprenditore Giovanni Collinetti e del consigliere del club, l’avvocato Francesco Fontana, che con me hanno risposto a raffica alle centinaia di domande che sono giunte via chat. 

I giovani hanno apprezzato il messaggio positivo che esiste senza dubbio per loro un futuro lavorativo e che dipenderà, come del resto è sempre avvenuto, soprattutto da loro.  

I dati forniti sulle prospettive della ripresa del mercato del lavoro sono stati incoraggianti e capaci di ribaltare lo sguardo nefasto di breve termine che, nell’indagine continuativa di Unioncamere e Provincia di Bergamo del mese di ottobre, ha registrato 6.150 nuove assunzioni previste dalle imprese bergamasche a fronte delle 8.350 dello stesso periodo del 2019, con una caduta di oltre il 26%. Ad essere colpiti sono soprattutto il commercio e il turismo settori che, ancora in difficoltà per il precedente lockdown, si sono trovati da poco in un altro terribile stop.

Ed è proprio da questi settori più colpiti, quelli del terziario,  che sono giunti messaggi benaguranti per i ragazzi prossimi  al diploma. Sono i numeri a darci conforto. La previsione dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine, nel quadriennio 2020-2024, di Unioncamere evidenzia gli scenari che si stanno profilando a seguito della pandemia e partendo dalle previsioni sull’impatto del PIL nel 2020 e 2021 del Governo italiano, Banca d’Italia, ISTAT, FMI e Commissione europea tracciano uno scenario di base (ottimistico) e uno scenario avverso. In entrambi i quadri la ripresa della crescita dell’economia avverrà dal 2021 e da lì, al netto di quanto registrato in termini di fuoriusciti dalle imprese non appena scaduto il termine del divieto di licenziamento, partirà la risalita. Saranno soprattutto il settore pubblico con i pensionamenti accentuati con “quota 100” ad avviare una campagna di sostituzione di forze lavoro. 

Lo studio evidenzia un fabbisogno di nuove risorse lavorative che andrà dal 2020 al 2024 dai 2,0 milioni circa nello scenario avverso e di oltre 2,6 milioni di fabbisogno occupazionale sia per la domanda di rimpiazzo dei pensionandi sia per domanda di espansione, sia per il settore pubblico e privato sia per dipendenti che per i lavoratori  indipendenti. 

Venendo al fabbisogno di laureati, lo studio evidenzia un fabbisogno totale nei 5 anni che, distribuito su ciascun anno, presenta un equilibrio tra domanda delle imprese, 898.300 in 5 anni per 179.700, perfettamente in linea con il numero di laureati che presumibilmente entreranno nel mercato del lavoro, ossia 179.600 l’anno.

Il fabbisogno delle imprese registrerà picchi positivi e negativi ma sarà in linea con l’offerta di lavoro dei giovani. 

Meno per i diplomati per i quali si stima un fabbisogno medio annuo di 180.400 a fronte di 292.300 di offerta annuale. Disastrose sono invece le previsioni per la formazione professionale per cui la domanda sarà nettamente inferiore all’offerta. 

Il segnale per le famiglie e per gli studenti è chiarissimo. I giovani dovranno investire su un percorso di studio universitario. Per i bergamaschi poi la forza delle imprese del territorio costituisce una garanzia. Lo studio incrocia infatti domanda e offerta nazionale dove l’offerta è distribuita su tutto il territorio della penisola, mentre la Lombarda da sola, almeno per il settore privato, concentra la gran parte della domanda di nuovi posti di lavoro. 

Se la strada per chi vorrà studiare è segnata, il percorso dovrà essere coerente. Volendo infatti indagare sugli indirizzi di studio, l’analisi di Unioncamere evidenzia che al pareggio numerico si affiancherà lo scostamento qualitativo tra domanda e offerta. Avvertiremo un deficit della domanda di professioni mediche e paramediche, ingegneristiche, e giuridiche, per le quali potremmo non trovare manodopera qualificata, contro un surplus senza sbocco di studenti dei percorsi economico, linguistico e politico sociale. 

Il titolo di studio non sarà però sufficiente. Nell’entrata nel mondo del lavoro acquisteranno sempre più valore le soft- skill come la flessibilità di adattamento, capacità di lavorare in gruppo, risolvere problemi, lavorare in autonomia e  comunicare correttamente in lingua italiana. Dando per acquisite la conoscenza di una o più lingue straniere parlate in modo fluente. 

Le nuove competenze faranno la differenza. Saranno necessarie competenze ambientali o “green”, ossia le attitudini al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale (richieste secondo la ricerca ad oltre il 60 dei candidati, le competenze digitali di base come l’uso di internet e di strumenti di comunicazione visiva e multimediale (oltre il 56% dei neolavoratori). In particolare si affermeranno le e-skill mix ossia la somma alle competenze digitali di base o della capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici, oppure di saper gestire soluzioni innovative. Queste saranno richieste solo, si fa per dire, al 24% dei candidati, cioè a tutti coloro che occuperanno una fascia altamente qualificata della domanda di lavoro.

In definitiva ,dalla pandemia potremo uscire con un cambiamento epocale del lavoro al quale le nuove leve risponderanno con nuove competenze. In un contesto maggiormente mutevole che richiederà strategie nuove di continuità e cambiamento.

I settori del terziario saranno i primi a recepire il cambiamento come sempre avvenuto. Riprenderanno più lentamente per il grave colpo accusato dal Covid-19 ma con una capacità superiore alla media di generare nuove opportunità.  E queste competenze saranno utilissime per le imprese. 

 

    

        

     

  

    

 


Il lavoro che non c’è metterà alla prova le politiche attive. Siamo pronti?

Quello che stiamo registrando nel lavoro sono le prime avvisaglie delle nuvoloni neri che da tempo si addensavano all’orizzonte. Il presidente di Confcommercio Imprese per l’Italia, Carluccio Sangalli, ha definito l’effetto economico della pandemia come “la tempesta perfetta”. Il nostro osservatorio sulle imprese del terziario realizzato ad aprile con Format Research metta a rischio la sopravvivenza tra le 8.000 e le 15.000 imprese del terziario orobico.

Il lavoro che non c’è è il “palo misuratore” dello sprofondo dell’economia. L’acqua è già molto alta. La pubblicazione del “primo impatto del Covid-19 sul lavoro dipendente in provincia di Bergamo” evidenzia che nel mese di aprile, quello focale per il lockdown si è raggiunto il valore più basso mai registrato del saldo tra assunti e cessati. In due mesi, marzo e aprile, si sono persi nella nostra provincia oltre 6.500 posti di lavoro, quasi tutti riferibili al crollo di tirocini e apprendistati e al termine dei contratti a tempo determinato.

Sta quindi terminando drasticamente un ciclo virtuoso che, iniziato nella seconda metà del 2015, aveva portato il numero degli occupati della Bergamasca ai livelli pre-crisi del 2009, con punte di crescita molto sostenute nel 2017 e nel 2018.

Quanto sta avvenendo è infatti l’arrivo dello tsunami. Il Decreto Rilancio ha esteso il divieto dei licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo per un totale di 5 mesi, prorogando quindi al 17 agosto la scadenza inizialmente prevista dal Dl “Cura Italia” al 17 maggio. Dopo l’estate o al più tardi quando termineranno i fondi per gli ammortizzatori sociali arriverà l’ora della verità. Le previsioni sono nere: il nostro Osservatorio stima la perdita di 49.000 posti di lavoro nel terziario.

Dobbiamo interrogarci se siamo pronti a gestire anche questa emergenza.

Partiamo dagli errori che abbiamo fatto. Eravamo impreparati al lockdown. L’urto della pandemia ha evidenziato a pieno le deficienze strutturali del sistema. Gli ammortizzatori sociali in campo in questi mesi Fis, Cid, Cio non hanno funzionato e la burocrazia ha prodotto costi per le aziende, un lavoro immane per i professionisti e ritardi odiosi nel pagamento dei lavoratori.

Siamo scivolati su quello che doveva essere un semplice atto amministrativo di liquidazione di un assegno ai dipendenti. Senza contare che gli ammortizzatori così come sono concepiti e che abbiamo ereditato dalla crisi partita nel 2009 sono più adatti a un fermo della produzione che a una gestione flessibile della ripartenza da lockdown. Non c’è flessibilità di utilizzo sul personale e questo mette in grave difficoltà, bar ristoranti e negozi. Chiediamo a gran voce una revisione della cassa integrazione, magari con un unico accordo nazionale e un unisco strumento che la renda più moderna. Se la cassa è un sostegno al reddito del lavoratore, allora deve essere (quasi) immediata e non quando il lavoratore è allo stremo; mentre se deve salvare posti di lavoro deve offrire risposte certe di flessibilità agli imprenditori. Infine, deve essere semplice da gestire evitando crisi di nervi tra i professionisti e le associazioni.

Ora la piena prosegue. La partita si sposterà tra qualche mese sulle politiche attive del lavoro che hanno già malfunzionato in periodi di bassa disoccupazione. Tra qualche mese gli enti pubblici e i centri privati si troveranno sott’acqua. Io non credo infatti che i successi occupazionali di questi anni siano il frutto dell’efficienza dei servizi per l’impiego, soprattutto di quelli erogati dai Centri per l’impiego.

Anche qui dobbiamo capire se gli strumenti vecchi saranno adeguati all’emergenza Covid. Non penso.

Per le imprese dovremo lavorare sulla crescita delle competenze, l’innovazione per generare nuovi business a sostegno dei rami d’azienda tradizionali delle Pmi. Questo sarà compito delle associazioni datoriali e del sistema delle Camere di Commercio. Interroghiamoci però già da ora, prima che l’onda arrivi e le tensioni sociali crescano, se il sistema sarà in grado di dare risposte soddisfacenti con formazione, riconversione e collocamento alle tante persone che saranno in seria difficoltà. Forse potremmo fare un po’ meglio.           


Fretta ed allarmismo: i danni collaterali delle misure antivirus

È ancora presto per fare un bilancio definitivo sull’impatto del Coronavirus sull’economia del nostro territorio, ma le evidenze sono chiare. La tempesta perfetta è arrivata. Siamo travolti. E sono i numeri a dircelo.

Il calo dell’80-90% delle prenotazioni alberghiere con disdette che arrivano fino a maggio, il crollo del 50-60% del lavoro di ristoranti e bar e il probabile calo del 50% del commercio una volta che l’impennata dei giorni scorsi sarà depurata della folle corsa alle scorte alimentari, sono il conteggio della disfatta. Il conto lo pagheranno, nei prossimi mesi, centinaia di imprese e migliaia di lavoratori, perché servirà tempo per recuperare quanto perso.

Se una simile situazione di emergenza fosse avvenuta qualche anno, fa le imprese avrebbero avuto una maggiore capacità di resistenza e di rilancio. Oggi dopo anni di “magra”, che ne hanno fiaccato le forze, il compito sembra improbo.

Eppure la sensazione, almeno mia, è che siano stati commessi degli errori. Sicuramente giustificati dal timore della diffusione di un virus per il quale non c’è vaccino. Ritengo anche che la comunicazione poteva tenere un profilo diverso, meno catastrofico. È stato fatto tutto troppo in fretta. Capisco che l’immobilismo cinese, durato quasi due settimane, sia responsabile del propagarsi dell’epidemia ma quanto stabilito in un giorno, tra sabato 22 e domenica 23 febbraio, ha avuto tempi di riflessione e di confronto praticamente nulli.

Il danno collaterale, non in vite umane, delle decisioni prese dal Ministero della Salute e da Regione Lombardia è enorme e le vittime saranno imprese e lavoratori.

I decreti nazionali e l’ordinanza era appropriata e tempestiva per i paesi interessati dal focolaio, “la zona rossa”. Diverso invece il caso dell’”area gialla” e delle restrizioni che toccano l’intera regione Lombardia e le altre regioni del Nord che sono la locomotiva dell’economia nazionale.
Nella stesura di questa ordinanza ha prevalso l’urgenza del contenimento della diffusione del virus, mentre non si è tenuto conto della portata economica e quindi anche sociale del provvedimento. Il documento è scritto male, con differenze ingiustificate tra ipermercati e mercati all’aperto, bar e attività artigianali ed è stato emanato senza averne preventivamente verificato l’impatto sulle imprese.
Le nuove interpretazioni della Regione stanno di fatto smontando gli errori più evidenti e speriamo che l’ordinanza sia ritirata. Anche perché il rischio di assembramenti è ormai limitato per la paura della gente.

Il messaggio di questi giorni è deflagrante. L’allarmismo ha paralizzato l’economia. Per i nostri cittadini il virus è in mezzo a noi ed occorre stare ritirati per non ammalarsi, in barba alle semplici norme di prevenzione diffuse dal Ministero (pulizia, distanza, cautela ecc.).
Il rimbalzo all’estero è apocalittico: l’Italia è inserito nella black list, Milano come Kabul, la Lombardia come l’Afghanistan. I danni sono incalcolabili per tutti i settori produttivi nazionali, dal primario al turismo.

Ora sembra che dalle stesse autorità che hanno governato la questione tendano a ridimensionare il problema o quanto meno a cambiare registro nella comunicazione. Anche se in modo confuso e contraddittorio. Troppo tardi. Ora bisogna pensare a come ripartire di slancio.


“Per non mangiarsi il futuro” prima che sia troppo tardi

Il manifesto “Per non mangiarsi il futuro” lanciato dalla nostra Federazione Italiana Pubblici Esercizi e sostenuto da Ascom Confcommercio Bergamo non è una trovata pubblicitaria.

Il grido di allarme della Federazione è un appello a tutte le forze politiche perché tutelino le imprese del settore, schiacciate tra la liberalizzazione selvaggia e la concorrenza sleale di altre categorie. E’ un problema serio che attanaglia bar e ristoranti in un settore che cresce nei consumi fuori casa ma che sta impoverendo tutti.

L’agenda politica deve mettere al centro il ripristino di condizioni di uguaglianza tra coloro che fanno lo stesso lavoro e si rivolgono allo stesso mercato. Settore agricolo, circoli privati, terzo settore, home restaurant, street food ecc. ecc. Non si migliora l’economia italiana concedendo scorciatoie in assenza di regole. O meglio, non si possono concedere vantaggi a qualcuno e mantenere una caterva di adempimenti a carico di altri.

Le nostre imprese, bar ristoranti, pizzerie, trattorie, locande ma anche alberghi non vogliono privilegi. Non ne hanno mai avuti e i loro successi se li sono conquistati con la fatica e la passione. Fanno fatica a sopravvivere eppure si sentono abbandonati a loro stessi.

Vogliono però che le regole valgano per tutte. Stesso mercato stesse regole perché ci sia competizione. Con la concorrenza le imprese possono migliorare. Chi è più bravo può crescere e la qualità migliora.

Ciò che sta avvenendo mortifica chi fa qualità e il servizio la cliente.

Sono decine di migliaia i lavoratori dipendenti e i collaboratori familiari delle imprese della ristorazione e dei pubblici esercizi della nostra provincia. Persone che lavorano con professionalità e la cui tutela passa attraverso il riconoscimento del ruolo e del contratto Collettivo per essi sottoscritto. Svilire il servizio significa mettere a rischio la stabilità del loro posto di lavoro, la loro dignità e il futuro delle loro famiglie.

“Per non mangiarsi il futuro” prima che sia troppo tardi.

Si può firmare la petizione qui


Non è questione di innovazione ma di semplice riduzione dei costi

Quello che sosteniamo da anni è confermato dai numeri. Non è questione di essere avanti o indietro, di essere innovatori o retrogradi, gli imprenditori del terziario non amano i pagamenti elettronici per un solo motivo: i costi eccessivi.

E’ vero che la moneta virtuale ha una serie di vantaggi, a partire dalla sicurezza rispetto alla gestione del contante e del miglior servizio al cliente, ma è altrettanto vero che tali vantaggi non producono risparmi di costi o maggiori ricavi.

Sicuramente alcune responsabilità ce l’hanno anche i commercianti, un terzo dei quali ancora oggi fatica a distinguere le carte di credito da quelle di debito (ma conosce esattamente la differenza dei costi delle commissioni tra carta di credito e Pagobancomat!).

Eppure, nonostante questo, il numero delle operazioni di pagamento elettronico aumentano rispetto a quelle con il contante, i volumi dei ricavi con il POS crescono mentre la soglia per l’utilizzo della tesserina magnetica si abbassa.

Il mondo del commercio si divide tra due grandi parti. Coloro che si limitano ad un’accettazione minima dei pagamenti elettronici e coloro che invece cercano di utilizzare anche lo strumento di incasso come servizio e opportunità al consumatore. Nei primi sono molti coloro che non hanno margini o volumi d’affari che consentano di sopportarne i costi alti dello strumento.

Resta alta e quasi totalitaria la percezione che le commissioni non siano realmente scese dopo l’introduzione del Regolamento europeo sulle commissioni interbancarie. E’ significativo, per esempio, che solo un imprenditore su due (il 49,1%) si sia rivolto alla sua banca per chiedere una riduzione delle commissioni o per poca informazione o per negligenza; ma è preoccupante che il 45% di questi, quindi un imprenditore su quattro del totale del terziario, abbia ricevuto risposta negativa dalla banca.

La ricerca mette in luce quello che più incide sulla scelta dei commercianti: costi non sono solo per le commissioni ma anche per l’acquisto, il noleggio del POS, l’installazione, per il canone mensile e altri accessori (linea telefonica, addebito con RID, estratto conto e accredito giornaliero). Tutto ciò rende il quadro della spesa molto più pesante di quanto indicano le semplici commissioni, soprattutto per chi il POS lo utilizza poco. La sensazione di essere spremuti resta quindi alta negli imprenditori.

Non è un caso che la proposta degli imprenditori intervistati per la crescita finale della moneta elettronica sia univoca: contenere le spese delle commissioni, di installazione e per gli accessori come richiesto dal 91,4% degli intervistati.


Soffrono il commercio e le micro e piccole imprese che cercano di reagire

Non è un momento facile per la nostra economia. L’Osservatorio del terziario commissionato da Ascom Confcommercio a Format Research evidenzia che il clima di fiducia delle imprese del terziario orobico sta peggiorando.

Nella nostra provincia le aspettative restano comunque alte, addirittura migliori rispetto alla media nazionale: solo, si fa per dire, il 27% degli imprenditori ravvisa un peggioramento dell’economia italiana, meno che a livello nazionale (45,6%), mentre il 15% sono ottimisti. Il clima di fiducia è pari al 44% contro il 30,7% a livello nazionale. il dato non è omogeneo: pessimista resta il commercio la cui fiducia è precipitata al 29,8%, il turismo si attesta al 46% e i servizi al 47,2%. 

Anche le dimensioni di impresa influiscono sulle aspettative per il futuro, con una forte differenza: le imprese con un addetto fiduciosi sono il 28,2%, quelle con due-cinque addetti il 28,5% e quelle sopra i 49 fino al 50%. 

In altri termini i più pessimisti restano i commercianti, rispetto agli operatori del turismo e dei servizi, e i piccoli imprenditori che avvertono maggiormente le difficoltà.

Il fattore chiave del peggioramento sta nella previsione sull’andamento dei propri ricavi: il 53,5% degli imprenditori dichiara di attendersi ricavi almeno pari o superiori. Una fiducia superiore a quella nazionale (40%) ma comunque in discesa: 43% per le imprese con un addetto, 46% per quelle con due-cinque addetti, 66% per le attività con più di 49 addetti. 

Se spaventa che un imprenditore su due tema un peggioramento dei suoi ricavi è la forbice tra le categorie ad essere significativa. Venti punti di differenza sulle previsioni dei ricavi evidenziano l’abisso nella fiducia nel futuro tra le imprese piccole e quelle grandi. Anche qui è il commercio il settore più in difficoltà e quindi pessimista: 43,3% contro il 52,6% del turismo e il 59% dei servizi. 
Mentre la dinamica dei prezzi di materie prime e merce e i tempi di pagamento seguono la stessa linea delle previsioni dei ricavi, con le difficoltà dei piccoli e del commercio, quello che si rileva nell’occupazione costituisce l’aspetto più significativo della ricerca. 

La curva dell’occupazione va esattamente al contrario rispetto alle previsioni dei ricavi e quindi alle dimensioni: le piccole imprese, che sono quelle che avvertono maggiormente la difficoltà, stanno producendo lo sforzo massimo sulle assunzioni per risalire la china, mentre le imprese più grandi, che sono più ottimiste, stanno razionalizzando prevedendo la diminuzione degli occupati. 
In conclusione, le imprese del terziario bergamasco sono pessimiste ma non demordono e anche le più piccole restano reattive.