Referendum, ecco perché nulla sarà più come prima

Referendum, ecco perché nulla sarà più come prima

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Matteo Renzi

Rien ne va plus, date il vostro voto (se volete, naturalmente). Il 4 dicembre, quale che sia l’esito del referendum costituzionale, segnerà uno spartiacque. Si chiude un ciclo politico, quello chiamato un po’ troppo pomposamente “la stagione delle grande riforme”. E ci si avventura su terreni sconosciuti. Proviamo a immaginare gli scenari.
Se vince il Sì, il presidente del Consiglio acquisisce quella legittimazione popolare (“non è stato eletto” la critica che gli è sempre stata mossa”) che finora gli mancava. Il suo potere, ancorché non modificato dalla riforma, si rafforzerebbe. Da un punto di vista formale per l’investitura ricevuta dagli elettori, da un punto di vista sostanziale perché è prevedibile immaginare come conseguenza della vittoria nuovi smottamenti di parlamentari pronti a saltare, un po’ tardivamente (ma non bisogna sottilizzare), sul carro che marcerà a tappe forzate verso le elezioni. Che poi queste si tengano prima della scadenza naturale, che comunque non è così lontana (febbraio 2018), è in fondo un particolare trascurabile. Molto dipenderà da come, e se, verrà modificata la legge elettorale. Ricordiamolo: Renzi ha fatto approvare, con tanto di fiducia, l’Italicum nella convinzione che fosse il miglior abito ritagliato sulla sua stazza. Solo che poi, risultati elettorali alla mano, si è reso conto che forse era ancor più adatto al Movimento 5 Stelle. E allora, sulla spinta anche della minoranza Pd, si è acconciato a mettere in conto una modifica. Ammesso che vi sia (perché c’è chi immagina che una volta intascata la vittoria sul referendum possa provare a cavalcare l’onda tenendosi l’Italicum), si tratterà di vedere di che natura sarà. Resterà un sistema maggioritario, pur con tutte le varianti possibili, o si tornerà al proporzionale? Più probabile la prima ipotesi.

Comunque sia, ci attendono mesi in cui Renzi accentuerà il suo piglio decisionista, sia sul fronte interno che su quello europeo, per arrivare all’appuntamento elettorale, quando sarà, con più munizioni possibili. Le elezioni, a quel punto (nel suo disegno, ovviamente), non saranno altro che la sua consacrazione da statista che ha “cambiato il Paese” verso luminosi traguardi (che Dio gliela mandi buona). In questo scenario, inutile dirlo, destra e sinistra andrebbero a pezzi, pur per ragioni diverse. Attorno al giovanotto toscano si coagulerebbe una forza politica neocentrista, probabile versione 4.0 della fu Democrazia Cristiana, quello che la pubblicistica definisce il Partito della Nazione.

Se dovesse prevalere il No, invece, Renzi ne uscirebbe azzoppato. La sua tradizionale baldanza a quel punto si vedrebbe costretta a misurarsi con la necessità di ricostruire un tessuto lacerato da una riforma che doveva far svoltare il Paese e che invece l’ha diviso ancora di più. In campagna elettorale il premier ha evocato lo spettro del “governo tecnico” ma non è affatto detto che sarà questo l’epilogo. Più probabile, piuttosto, che si vada ad un esecutivo sullo stile del Patto del Nazareno. Berlusconi si è già detto disponibile. E se la battaglia diventerà, come pare oggi, costruire un argine al Movimento 5 Stelle, il governo di larghe intese sarà obbligato. Lo guiderà una figura autorevole, quasi sicuramente del Pd, per il tempo che basta ad approvare  una leggere elettorale nuova, di impianto proporzionale, e ad indire le elezioni. Sul fronte politico, la sconfitta nel referendum avvierebbe in anticipo il regolamento dei conti congressuale dentro il Pd. Alcuni capi bastone oggi renziani potrebbero, l’esperienza insegna, voltare gabbana e prestarsi a costituire una nuova maggioranza con un altro segretario. Più complesso immaginare lo scenario futuro nel campo opposto. Un eventuale governo di larghe intese rimetterebbe al centro della scena Berlusconi. Ma Salvini e Meloni che faranno a quel punto? L’implosione è eventualità tutt’altro che remota.

Resta solo da osservare che, come finisca il referendum, bisognerà fare i conti con il Movimento 5 Stelle. Al netto della disastrosa gestione di Roma (per ora) e di alcuni scandaletti (le firme false non sono una loro esclusiva), i grillini continuano a godere del consenso di circa il 30 per cento degli italiani. È un patrimonio che possono permettersi di utilizzare in vario modo. Cioè mettendosi una buona volta in gioco davvero per il governo del Paese oppure rimanendo sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere del vecchio sistema. Anche per il M5S, dunque, il 4 dicembre non sarà una data qualsiasi.
Prepariamoci, allora. Il film che abbiamo visto negli ultimi tre anni è arrivato ai titoli di coda. Rien ne va plus, faites vos jeux.