Palafrizzoni, troppo facile aumentare le tasse

pala Frizzoni -pg 1Tra la politica e l’elettorato la cosiddetta “luna di miele”, il periodo di consenso dopo le elezioni, in Italia è sempre più breve. Arriva quando subentra la noia, la novità non è più tale e lo spettacolo si è fatto soporifero. Per cercare di tenere desta l’attenzione, allora, agli amministratori pubblici, ad ogni livello, non resta che restare sempre in apparente movimento, insistere con gli annunci, evocare riforme e cambiamento. Per i contenuti e i risultati si può attendere, perché ai fini del consenso le promesse di rivoluzione sono più efficaci della rivoluzione stessa, che inevitabilmente scontenta sempre qualcuno.

L’imperativo per il governante è cercare di essere sempre sulla breccia come “nuovo”, per non diventare il “solito” o addirittura scivolare sul “vecchio”, che non è una questione anagrafica, ma la categoria del politico avviato al declino. Così, dopo un anno, Matteo Renzi appare ancora come una “prima visione” e non come una “replica”, tanto per restare nel gergo dello spettacolo, grazie al fatto che è riuscito a mantenere l’immagine di “rottamatore”. Dopo una partenza da motore diesel, ha in effetti portato o sta portando a casa una serie di riforme, dal Jobs act alle Popolari, dalle elezioni alla scuola, dal Senato al decentramento. E questo permette di distrarre dal fatto che non è ancora possibile dare un giudizio concreto sulle azioni perché tutto questo produrrà effettivi risultati solo in futuro: si inizia ora con il Jobs Act, ma, ad esempio, nelle Popolari si cominceranno a vedere i primi cambiamenti tra due anni, della riforma elettorale solo alle prossime consultazioni e così via.

Anche al Comune di Bergamo, nonostante i cartelloni pubblicitari, i cambiamenti per le due grandi iniziative si vedranno solo in futuro: ci saranno anche gli accordi per i Riuniti e per la Montelungo, ma al momento gli edifici restano in degrado. Sia concesso un po’ di scetticismo, motivato da quanto accaduto negli ultimi anni: prudenza vorrebbe che in materia di interventi urbanistici non si festeggi più nemmeno all’avvio dei lavori, ma solo ad inaugurazione di opera conclusa, non certo quando il cantiere non è nemmeno ipotizzato.

Anche se la politica è cambiata, sempre più annunci che fatti concreti, per interrompere la “luna di miele” con gli elettori resta comunque un argomento imbattibile: quello delle tasse, ovviamente in aumento. La materia fiscale è sempre stata molto delicata: pochi, e quei pochi non hanno avuto facile vita politica, hanno cercato di dare una visione chiara e responsabile degli aumenti che hanno deciso. Sulle tasse si scivola inevitabilmente ed è comprensibile che Renzi preferisca passare come quello che dà gli 80 euro piuttosto di quello che per finanziare quella “restituzione” ne ha tolti anche di più da altre parti.

E adesso il sindaco di Bergamo Giorgio Gori è messo alla prova: di fronte a un bilancio 2015 che avrà 5 milioni in meno (3,6 milioni per la manovra del governo, che comprende anche gli 80 euro, e 1,4 milioni per entrate “una tantum” che quest’anno mancheranno), come prima cosa mette le mani avanti. Senza la coraggiosa fantasia per una soluzione originale, torna su temi triti e ritriti, gli stessi del suo predecessore, dal quale annunciava, prima delle elezioni, il cambiamento. La colpa, dice, è dei tagli dal potere centrale, della spending review, del patto di stabilità. E la responsabilità, con una giustificazione che sa in questo caso troppo di ordine di scuderia, è per la maggior parte del “governo Berlusconi, sostenuto dalla Lega”, non risparmiando strali alla Regione (leghista). E allora di fronte a questo bilancio ridotto, quali sono le soluzioni che si prospettano? Più tasse o meno servizi. Come la politica del “passato”, quella che non è mai riuscita a fare effettivi risparmi, eliminando gli sprechi. Quella che ha fatto realizzare il rapporto Cottarelli che ha individuato risorse disperse per miliardi, ma poi ha deciso non solo di non realizzarlo, ma anche di non renderlo pubblico. Inutile chiedersi perché.


Processo al tifo violento, dietro al Bocia una città “complice”

Titoli e foto sono tutti per lui, il Bocia, il leader indiscusso degli ultrà dell’Atalanta. Normale, visto che è il principale imputato del maxiprocesso al tifo violento che lo vede alla sbarra con altri 142 tifosi (bergamaschi e 56 catanesi) per i quali il pubblico ministero Carmen Pugliese ha chiesto complessivamente 165 anni di carcere. Ma sarebbe sbagliato focalizzare tutte le attenzioni su di lui. Perché le indagini prima, e gli interrogatori di imputati e testimoni in aula poi, hanno portato alla luce in tutta la sua drammatica evidenza qualcosa di molto più grave delle pur esecrabili responsabilità penali del capo. Ed è il contesto, o forse sarebbe più giusto parlare di brodo di coltura, in cui sono prosperate le gesta dei violenti da stadio. Una parte della società, incurante talvolta del ruolo istituzionale rivestito, si è resa complice moralmente. A processo sono risuonate sinistre le parole di un sindaco, usato come vedetta prima di lanciare attacchi alle forze dell’ordine, di un catechista, che ha attribuito al Bocia un carisma da discepolo, di un manager, che al leader ultrà ha attribuito doti da stratega che, in altri tempi, “avrebbero evitato all’Italia la disfatta di Caporetto”. E poi, per non farsi mancare nulla, che dire delle visite ai tifosi diffidati da parte dei giocatori dell’Atalanta e dell’allora presidente? E il messaggino telefonico di solidarietà dell’allenatore per una diffida inflitta al medesimo Bocia? E il politico che, anziché condannare senza se e senza ma le violenze, si pone come mediatore, come se gli atti di teppismo fossero una variabile indipendente ineluttabile? E’ saltato fuori di tutto, fino ad arrivare, giusto per raggiungere l’acme, a quel direttore di giornale, autoinvestitosi del ruolo di gran regista dello scacchiere politico-economico-sociale locale, che mercanteggia con il capo hooligan spazi in prima pagina e che si reca in visita, in compagnia di un servile e imbelle caporedattore, alla casa della famiglia del presidente malato per consigliarla caldamente a vendere la società in mani amiche (del suddetto direttore, naturalmente). Si capisce meglio, di fronte ad un quadro del genere, perché la mala pianta abbia potuto prosperare e dare i frutti rigogliosi che hanno regalato a Bergamo la bella nomea che tutti sappiamo. Non è una scoperta per chi invano da anni denuncia le complicità morali dei tanti che, in nome di un supposto amore per l’Atalanta, chiudono gli occhi o, peggio, danno copertura (magari sull’altare di qualche iniziativa benefica) ai teppisti. Ma grazie al processo testardamente voluto da Carmen Pugliese e dalla Questura ora la vergogna risulta ancora più evidente. Solo che servirà a poco. Perché il finale è già scritto. Pagherà, come è giusto e sacrosanto, il Bocia e con lui tutti i compagni di brigata. La responsabilità penale è personale, si dice. Ma qui ci vorrebbe, a costo di scatenare le ire dei benpensanti che griderebbero allo Stato etico, anche una responsabilità morale. E allora, le aule del Tribunale non sarebbero sufficienti ad accogliere i tanti che, a vario titolo, hanno sulla coscienza gli assalti, le risse, le aggressioni che da troppi anni infangano il nome di una città intera.


Finché si parla di Masterchef possiamo star sereni in Borsa

Borsa MilanoL’indice Nasdaq è tornato sopra quota 5 mila, riportando le lancette indietro di 15 anni. Era il marzo 2000 quando per la prima volta l’indice tecnologico di New York ha superato questa soglia. La macchina del tempo però funziona solo fino a un certo punto. Allora eravamo in piena euforia da “new economy”, dove bastava avere una desinenza “.com” per strappare prezzi inauditi anche se dietro il nome a volte c’era solo un’idea e spesso neanche quella. Dopo avere toccato il massimo storico di 5.132 punti il 10 marzo 2000, la sbornia finì in America e in tutto il mondo, come del resto era giusto che finisse. In due anni l’indice precipitò a un terzo dal suo record. Scommettere sulle aziende innovative va bene, ma quando ci sono troppo aspettative e poca sostanza il bluff alla fine viene scoperto, trascinando anche le aziende che invece qualcosa da dire ce l’avevano.

In questi quindici anni, oltre a una serie di crisi, si sono viste tante altre bolle crearsi e poi sgonfiarsi, il bioetanolo, l’oil shales “le sabbie bituminose”, l’energia fotovoltaica… Quella del Nasdaq del 2015 non sembra essere una bolla, ma piuttosto una conseguenza di aziende che stanno marciando in un’economia americana che tira.

L’indice inoltre nel frattempo ha allargato la sua platea ad altri titoli non solo del mondo del computer ­ c’è, tanto per dire, anche la catena di caffè Starbucks – e questa è una condizione di maggiore stabilità. Soprattutto però il Nasdaq non è più un listino fatto principalmente di possibili promesse in una mistificazione che voleva dare più valore ai click degli utenti che ai dollari che effettivamente entravano in cassa. Ora è formato, con le inevitabili eccezioni, da aziende ben strutturate, con utili che mostrano tassi di crescita elevati, solidità patrimoniale e flussi di cassa stabile. Cioè aziende della new economy con parametri da old economy.

La grande differenza è che rispetto a quindici anni fa sono scomparse molte aziende che gli utili li hanno solo sognati: Google, Facebook, Amazon o eBay che all’epoca erano solo promesse o magari non esistevano ancora, adesso macinano profitti.

Se si guarda la valutazione del rapporto tra i prezzi e gli utili (in gergo, p/e) nel Nasdaq del 2000 le quotazioni viaggiavano su valori intorno a 175 volte gli utili, ma in certi casi si arrivava sulle migliaia di volte; adesso siamo su un più ragionevole 30, che scende addirittura a 15 per Apple o 18 per Google, dato che la media viene alzata dal permanere comunque di start up innovative che devono ancora dimostrare il loro potenziale. All’interno del Nasdaq ci sono settori che potrebbero esprimere una bolla: l’indice delle società delle biotecnologie ad esempio ha quadruplicato il valore nel giro di quattro anni, ma si può anche pensare che dopo una sottovalutazione per effetto della crisi adesso ci sia piuttosto una quotazione più realistica. Va detto anche che le grandi di quindici anni fa, nell’ordine Microsoft, Cisco e Intel, non sono ancora tornate ai livelli persi nel 2000: rispettivamente il valore è sceso da 455 a 350 miliardi di dollari, da 450 a 150 miliardi, da 390 a 160 miliardi.

I grandi rialzi sono stati invece guidati da azioni trascurate nel 2000, a partire da Apple – con l’iPhone, lanciato nel 2007, che doveva ancora avere il suo successo planetario – salita da 20 a 750 miliardi di dollari o da Google, che si è quotata solo nel 2004 e ora è la seconda società per capitalizzazione con 390 miliardi. Ma c’è qualcosa di determinante nel fare pensare che non si sia in presenza di una bolla: manca quella febbre generale che aveva fatto della Borsa uno spettacolo, il primo argomento del telegiornale, portando al listino un parco buoi fatto di casalinghe, pensionati, esperti da bar e soprattutto tanti illusi. Non è certo una regola, ma finché sport, Masterchef e Sanremo restano l’argomento principale la Borsa può stare relativamente tranquilla.


Non se ne può più di questa festa delle donne

festa delle donneDi donne. Di donnette, di donnacole e di donnine: di zarine, di regine, di veneri in pelliccia. E di suffragette senza suffragio, di pasionarie senza passione. Di donne s’ha da parlare, ogni otto di marzo che Dio manda in terra. E di femminicidi, che non si capisce in cosa siano differenti dagli omicidi normali, e di peshmerga con calibri 50 in spalla, scambiate per cooperanti italiane, scambiate a loro volta per crocerossine internazionali.

Di donne e di equivoci, insomma. E di reiterate banalità: di mazzi di fiori in effige, che intasano il web, di auguri, di frasi, di citazioni, in cui ogni fesso cerca di essere meno fesso del fesso che l’ha preceduto, nell’augurale litania. Nel florilegio di bischerrime bischeraggini. E dei telegiornali, dei servizi imbalsamati, del caso che di casuale non ha nulla: di Teresina che fa l’astronauta, anche se viene da Poggibonsi e il papà era portalettere.

Degli oooh meravigliati della platea e degli sbadigli di quelli che non si commuovono nemmeno davanti ai geloni della Piccola Fiammiferaia.

Delle donne, dicevamo, con annessi e connessi: che sono, poi, quelli che ci marciano, quelli che ci mangiano e quelli che si rodono il fegato, perché non possono né marciarci né mangiarci.

Di me e delle donne, giacchè quando si scrive si scrive sempre di sé.

Di me, che mi esprimerei contro gli ottomarzi, in genere, con la giustificazione un po’ stantia del fatto che le donne vanno festeggiate, notte e dì, tutti i giorni dell’anno.

Di me, che vorrei semplicemente scrivere: che due maroni questa festa delle donne! Ma non posso, perché ne ho sposata una, mezza gogìsa e mezza prussiana, e perché ne interpreto un’altra, a mia volta. Quando carico la lavastoviglie o raccolgo le cacche delle mie gatte, celebro anch’io, mio malgrado, la festa delle donne: se essere donna è, come dicono quei furbacchioni genderiani, solo una condizione ambientale, allora anch’io sono una donna, per due o tre ore al giorno. Ma non ci trovo un bel niente da festeggiare: essere una donna, ve lo garantisco, è una gran rottura di balle, esattamente come essere un uomo. La vera differenza, semmai, è tra quelli, uomini e donne, che si fanno il mazzo, e quelli che campano beati sul mazzo degli altri: una questione di classe, più che di genere.

Ah, le donne: non possiamo vivere con loro e non possiamo vivere senza di loro. E’ scabroso le donne studiar…Così, le festeggiamo, proprio come si festeggiavano i misteri eleusini: festeggiamo un’entita miseriosa, di cui celebriamo il culto, senza averlo ben capito. Eppure, le donne, le donnette, le regine e le fattucchiere, non si sentono mica tanto complicate: molte di loro recitano gli stessi ruoli o quasi dei loro colleghi maschi. Fingono sentimenti che non provano e ne nascondono altri che l’orgoglio o il pudore impediscono loro di manifestare: amano i rivoluzionari puri e coraggiosi, ma sposano gli odontoiatri con studio avviatissimo. Giocano alla Lou Von Salomé fino ai trent’anni e poi portano all’altare l’avvocatello che veste Corneliani. Esattamente come gli uomini: umanamente. Gli uomini che si sposano un congruo numero di volte, facendo figli ed altri disastri, ma pretendono ancora di commuovere l’uditorio con la faccenda di Laura che non crede più, a quarant’anni buoni dall’ultima limonata con la predetta: e, alla fine, vincono pure Sanremo. Siamo così: dolcemente rimbambiti. Uomini e donne: piccoli, disperati, ipocriti, vanesi. Allora, dovremmo festeggiare, oltre alle donne, alle mamme, ai papà, ad Halloween e a Babbo Natale, la festa dell’imbroglione, quella del timido irrecuperabile, della menzognera fanciulla senza misericordia, della compagna di scuola che si concede a tutti tranne che a te. Insomma, il nostro calendario dovrebbe essere una festa perenne, senza soluzione di continuità: la festa della matematica e quella dei partigiani bulgari, la festa del rododendro e quella delle mucche da latte. E noi storici ci dovremmo arrabattare a trovare ricorrenze ed anniversari adatti alla bisogna o, alla peggio, inventarceli: proprio come quello della fabbrica bruciata con le operaie dentro un 8 marzo mai esistito, con un incendio mai esistito di un opificio mai esistito. Ma che volete che sia l’attendibilità storica? L’importante è festeggiare, mentre la barca affonda, con tutti i suoi danzerini che intonano il Valzer delle candele…Finchè non resterà più nessuno e, dopo tante feste, petardi, trombette, coriandoli e cotillons, sulla terra, desolata e deserta, calerà, finalmente, il balsamo del silenzio.


Arriva l’Expo, non facciamo i soliti bergamaschi

expoorizzhhhhh.jpgOra tocca a voi, cari bergamaschi. Voi così eternamente scettici, voi così pragmatici da non voler mai credere in nulla finché non si tocca con mano, voi così diffidenti nei confronti di tutto ciò che viene dal di fuori delle Mura. Expo Milano è lì, anzi qui, che vi aspetta. Non l’avete ancora capito che è un’occasione imperdibile per saltare su un Frecciarossa lanciato a velocità folle? Stanno arrivando milioni di persone (chi dice 10, chi dice 20, di sicuro non saran quattro gatti) da tutto il mondo. La loro meta è a poche decine di chilometri dal vostro giardino. Avete mai provato a chiedervi se non c’è l’opportunità di provare ad invitarne qualcuno a casa vostra? Ancora pochi mesi fa, è toccato a chi scrive essere testimone di un dialogo fra alcuni patron di ristoranti stellati della nostra provincia. Del tutto incuranti, quando non ignari, che il tema dell’Esposizione universale che aprirà i battenti il 1° maggio è proprio l’alimentazione, coprivano con sbuffi e risolini di compatimento chi invano cercava di far comprendere la portata della manifestazione che sta per andare in scena. “Ma che sarà mai? Sarà una replica del raduno degli alpini del 2010?”, questo il tenore delle domande. Sempre così, voi bergamaschi. Sta scritto nel Dna (e stavolta non ci son di mezzo omicidi). Finirà che capirete alla quarta portata che quello che vi è passato sotto il naso era un pranzo di gala. E dire che, tacendo di tutto il resto, avrete a disposizione due calamite straordinarie per catturare ospiti. Nel giro di poco più di un mese si alzerà il velo su due eventi eccezionali: il 13 marzo debutta, negli spazi della Galleria d’arte moderna e contemporanea la grande mostra dedicata alle opere di Palma il Vecchio; il 23 aprile, giusto lì di fronte, dopo 8 anni di attesa, riapre l’Accademia Carrara, scrigno ripieno di inestimabili tesori. Se solo proviamo a ricordare il successo che coronò le mostre dedicate al Lotto o al Caravaggio in anni non troppo lontani, si può ben comprendere come sia fondamentale “sfruttare” le due occasioni per richiamare a Bergamo anche solo un rivolo (ma che rivolo!) del fiume di visitatori di Expo. Naturalmente, nulla succede per caso. Chi ha lavorato e sta lavorando sulla mostra di Palma il Vecchio e sulla riapertura della Carrara ha messo in campo iniziative di promozione e comunicazione. Ma adesso tocca un po’ anche a voi, cari bergamaschi, darvi da fare. Come? Su tutti i fronti, nessuno escluso. Nell’era della rete, bisogna scatenare la guerra termonucleare su Facebook e Twitter, mettere in circolo quante più informazioni possibili, agganciare mondi lontani, rinfrescare le idee agli amici sparsi nei continenti. Fare, insomma, una sana e consapevole operazione di lobbyng per il territorio. Diventando protagonisti e non lasciando solo agli enti pubblici, che non hanno molte risorse e spesso sono ingessati da pigrizie burocratiche e mentali, il compito di far conoscere quanto di buono e di bello offre il territorio. E poi, diciamocelo senza che nessuno s’offenda, cercate di imparare ad essere accoglienti, a mostrare un caldo e solare sorriso a chi viene da voi, a parlare una lingua (soprattutto l’inglese) che permetta di tradurre, oltre che mangiare, la polenta taragna. Non si tratta di cambiare i connotati, né di immolarsi sull’altare di una globalizzazione che non distingue più le singole peculiarità. E’ molto più semplice. Dovete far fruttare il tesoro su cui siete seduti senza che ve rendiate ben conto. Ricordate la parabola evangelica. La riconoscenza va a chi cerca di mettere a profitto i talenti, non a chi li tiene gelosamente per sé.


Multe ai tifosi atalantini, ricordiamoci di Laqueur

multe allo stadioOgni volta che si ripropone un caso come quello delle multe ai tifosi dell’Atalanta, che ha scatenato un’apprezzabile polemica in città, mi tornano in mente le parole di Laqueur a proposito del buongoverno: se si esagera con l’ordine, si va verso la dittatura, ma, se si esagera con la libertà, si precipita nel caos. Dunque, in sostanza, quasi tutte le spinose questioni tra cittadini e potere si potrebbero affrontare tenendo presente quest’aurea regoletta: tenere la livella bella dritta dovrebbe essere la soluzione. Qui, come molto spesso accade, non ci sono il bianco e il nero, ma si confrontano due ingiustizie e due idee di giustizia: da una parte, c’è il tifoso atalantino che, giustamente si domanda: e io dove parcheggio? Certo, gli si potrebbe dire di venirsene al Brumana a piedi o coi mezzi: però, se abita a Cerete e con i servizi di trasporti pubblici di cui è felicitata la nostra provincia, tanto varrebbe suggerirgli direttamente l’abbonamento a Sky. Dall’altra parte, ci sono gli esulcerati abitanti delle zone invase dalla sosta selvaggia: i disabili che non passano tra le auto che invadono i marciapiedi e il muro, le coppie con le carrozzine. E, poi, c’è l’idea della giustizia: della legge uguale per tutti. Il bergamasco qualunque non può non pensare che, in una città in cui ti multano anche se respiri, una bolla di impunità stradale sia intollerabile, Atalanta o non Atalanta. Quindi, ci troviamo di fronte al tipico busillis, in cui si scontrano due esigenze: una di carattere, diciamo così, generale, ed una di ordine particolare, ma che, comunque, riguarda un bel po’ di concittadini. Come sempre, la risposta risiede nella creazione di servizi, ossia di strumenti per aumentare la libertà, in questo caso di movimento, della gente: non nella compressione del problema usando giri di vite, bastoni e carote. Lo stadio è un monumento: gli siamo tutti affezionati, perché ci parla di una Bergamo che, purtroppo, non c’è più. Però è scomodo: così, piazzato in mezzo alle case. E’ uno spazio pubblico destinato a grandi affluenze al centro di un quartiere residenziale. Va da sé che la cosa non può funzionare: ordine pubblico, flusso e deflusso, parcheggi, sono una gabella imposta sulle spalle degli incolpevoli abitanti di Santa Caterina, della Conca Fiorita e del Monterosso. Per cui, io vado opinando che si dovrebbe sciogliere, finalmente, il nodo gordiano di un nuovo stadio; oppure, in subordine, si dovrebbe pensare a zone di parcheggio e a linee di flusso obbligatorie. Credo che sia questa la parolina magica: obbligatorie. Io ti do il parcheggio, ti offro la navetta, ti sgombro la strada: però tu, se vuoi venire allo stadio, parcheggi lì e soltanto lì. Ordine, direbbe Laqueur. Un ordine che non è manganello o repressione, ma una regola certa e rispettata che tuteli due diverse esigenze, apparentemente inconciliabili. Le ragioni per cui un tifoso atalantino parcheggi in via Legrenzi o, come accadeva fino a un po’ di tempo fa, in tangenziale, sono diverse e numerose: due tra tutte, la pigrizia e la mancanza di posti auto. Per la pigrizia, va benissimo il deterrente multaiolo, però gli si deve dare la possibilità di fare il bravo cittadino. Spazi, in zona, ce ne sono: tutto sta ad attrezzarli. Tra l’altro, dall’applicazione costante, implacabile e giusta delle regole, nasce quella cosina che si chiama “educazione civica”: che significa, all’incirca, che quello che oggi fai perchè costretto, domani lo farai perché è tuo dovere. Dunque, il mio modesto suggerimento è quello, in mancanza di baiocchi o di volontà di costruire un nuovo stadio, di sedersi attorno ad un tavolo e di esaminare seriamente tutte le opzioni di parcheggio possibili: di stilare una specie di piano speciale per l’Atalanta, un PSA. Individuata l’area, ad attrezzare un parcheggio ci si mette poco: con soddisfazione di tutti, tranne che dei pigri patologici, che dovranno, comunque, abbozzare. Di solito, è così che si affronta un problema: tutte le polemiche che ho sentito, in assenza di qualsivoglia proposta sensata, mi paiono espulsione di aria fritta. Con la quale, notoriamente, non si cambiano le cose, ma, in compenso, si appesta l’atmosfera. Che è già discretamente pestilenziale di suo…


Trenord, mezze verità e troppa propaganda

Chissà se l’assessore regionale ai Trasporti Alessandro Sorte e il nuovo amministratore delegato di Trenord Cinzia Farisè nei loro trascorsi scolastici hanno qualche master in Russia, terra famosa, anche dopo la caduta del Muro, per la capacità di elaborare tecniche di “disinformacja” di inarrivabile grandezza. In questi giorni il simpatico duo che sovrintende al trasporto ferroviario lombardo sta dando il meglio nel propalare informazioni che, mescolando mezze verità e pura propaganda, vorrebbero dare ad intendere che nel giro di poche settimane, guarda caso da quando ci sono loro sulla tolda, hanno impresso una svolta epocale al vergognoso disservizio quotidiano.

L’ultima che si sono inventati, secondo la tecnica del far volare gli stracci per abbindolare i gonzi (con la complicità di giornalisti che non sono più capaci di andare al di là del copia e incolla), è la favola che i cronici ritardi dei convogli pendolari siano colpa di un codicillo del contratto dei macchinisti che consente di lucrare manciate di euro a chi tira in lungo il viaggio accumulando più di venti minuti di ritardo. A prima vista uno scandalo autentico, da esecrare senza se e senza ma. E infatti, grazie agli organi di stampa, il polverone si è alzato. Peccato che pochi, o nessuno, è andato a verificare se l’indignazione aveva fondamenta solide. E qui casca l’asino.

Per stessa ammissione del duo Sorte-Farisè, i macchinisti eventualmente colpevoli di ritardi sospetti non sarebbero più di un quindicina su 1200. Sì, avete capito bene, 15 su 1200. Macchinisti superman, evidentemente, capaci di mettersi alla guida contemporaneamente delle centinaia di locomotive che ogni giorno accumulano ritardi. I numeri parlano chiaro: sulle principali linee lombarde i convogli che arrivano fuori orario sono, a seconda dei casi, da uno ogni tre (Bergamo-Milano via Carnate) a uno ogni cinque (Bergamo-Milano via Treviglio). Davvero è tutta colpa dei macchinisti artatamente pelandroni? Ma via, non facciamoci prendere per il naso.

Poniamoci, invece, qualche domanda. Risulta, per caso, che i vertici di Trenord abbiano preso qualche provvedimento a carico di chi fa il furbo ai danni degli utenti? Vi rispondiamo noi: non risulta. Si sa, per caso, chi ha firmato quel contratto con quella clausola? E se, nel caso lavorasse ancora nella società milanese, c’è l’intenzione di avviarlo verso altri impieghi più consoni alle sue attitudini? Risposta: non risulta.

Diamo per scontato che Sorte e Farisé vogliano sinceramente dimostrare di essere all’altezza di una sfida all’Ok Corral. Ma in maniera sommessa e pacata vorremmo consigliar loro di volare basso, di contenere le volute di fumo che diffondono. Vantarsi perché i treni in ritardo sono passati dal 70 all’80 per cento, ci si perdoni l’espressione poco cortese, fa ridere. Intanto perché in una Regione che si vanta di essere centro e modello di efficienza quella performance non è degna degli standard internazionali (provino a chiedere ad un tedesco o ad un francese, per non scomodare gli svizzeri, se accetterebbero di fare cambio). In secondo luogo, perché il miglioramento va valutato, e sarà eventualmente apprezzato, solo sui tempi lunghi. Cioè se diventerà la norma, non l’eccezione di uno o più mesi. Infine, perché i ritardi sono solo una delle pecche del sistema ferroviario. Inutile star qui a riepilogare tutto il resto. Arrivare in orario è importante tanto quanto viaggiare in condizioni di minima civiltà e non stipati su carri bestiame lerci e puzzolenti, obsoleti e privi di riscaldamento o condizionamento. Su questo piano la distanza da colmare è enorme.

Ancora pochi giorni fa, il presidente della Regione Roberto Maroni, il capomastro del terribile duo, ha ripetuto per l’ennesima volta che il Pirellone ha acquistato 63 nuovi treni di ultima generazione e che 53 di questi saranno messi sui binari prima dell’avvio dell’Expo. Bene, mancano meno di 60 giorni al taglio del nastro e di questi benedetti mezzi sulla Bergamo-Milano, tra le primissime linee per volumi di traffico, finora se n’è visto solo uno. Vuoi vedere che tutti gli altri sono in ritardo per colpa dei macchinisti approfittatori?


Il gioco in contropiede che premia Salvini

Piace questa nuova Lega salviniana dalla battuta pronta e feroce, con il suo populismo prêt à porter che trova vasti terreni dissodati da una crisi economica capace di annullare rendite di posizione e di imbastardire, nella folle ricerca di un approdo, anche i più elementari rapporti umani. I sondaggi mettono il Carroccio vicinissimo alla pole position, solo un’incollatura dietro a Forza Italia (e dire che solo fino ad un anno fa i rapporti erano di uno a tre per gli azzurri…). Vince il profilo di lotta, conquista lo scintillio dello spadone perennemente sguainato, ammalia la figura del cavaliere senza macchia e senza paura, magari un po’ smemorato rispetto alla propria non impeccabile storia ma capace di bucare il video.

E certo non si può negare al cittadino elettore il diritto di abbandonarsi a valutazioni più emozionali che pragmatiche. La politica è, anche se non prima di tutto, emozione, sentimento, trasporto. Le parole d’ordine, gli slogan, il “claim” come si dice in pubblicità, sono il messaggio che quand’è davvero efficace acceca e ridimensiona il contenuto stesso. Salvini, sulla scia di Berlusconi come del Bossi d’antan, ne è tanto consapevole che con la sua esuberante prolissità verbale, televisiva e social, copre abbondantemente sia le nequizie di un recente passato sia le non esaltanti performance di chi, da una posizione di assoluto rilievo, incarna l’altra faccia della Lega, quella di governo.

Quella che da bergamaschi, quindi da lombardi, vediamo riflessa nel volto e nelle opere di Roberto Maroni. Tocca, o forse più opportunamente si deve dire “toccherebbe”, a lui dimostrare che i lumbard non sono solo spietati censori delle manchevolezze altrui, che non sono solo abili attutisti da buvette, che non sono solo instancabili promotori di marce, gazebo e adunate. Alla guida della Regione più importante bisognerebbe mostrare quella superiorità del fare, oltre che del dire, che si sostiene essere componente essenziale dell’elica del Dna leghista.

E invece, gratta gratta, sul tavolo resta poco. Tanti incidenti di percorso (come l’ultimo, il più clamoroso: varare una riforma dell’organizzazione sanitaria senza calcolare i costi che comporta, al punto da dover riscrivere daccapo il provvedimento), tante promesse smentite dai fatti (l’impegno per un miglioramento del servizio ferroviario che infatti è andato via via peggiorando, con la ciliegina di fine anno che comporterà un ulteriore taglio di fondi per Trenord…), una girandola di nomi e di lottizzazioni (due rimpasti di Giunta in nemmeno otto mesi) perfettamente in linea con gli aborriti stilemi della vecchia politica.

Chissà se l’implacabile Salvini se ne è accorto. Chi lo frequenta da vicino dubbi non ne ha. Certo che lo sa, tant’è che dalle parti del Pirellone è piuttosto restio a farsi vedere. Dicono che i rapporti con Maroni, che pure (capendo i suoi limiti politici) gli ha ceduto il passo, siano scarsi e tutt’altro che sereni. Ma la ragion di stato, o di piccola bottega, finora ha prevalso.

Catenaccio e palla buttata in avanti, pronti a bucare le difese avversarie non appena queste mostrano dei varchi. Ecco l’essenza della tattica salviniana: giocare in contropiede. Sarà poco padano e molto italiano. Ma che volete? È così che si son vinti i Mondiali. Anche in politica, senza star a scomodare Machiavelli, ciò che alla fine rileva è il risultato. E i sondaggi confermano.