Comunque andrà sarà un successo. Con un minimo di ripresa, ma anche senza ripresa, ci saranno inevitabilmente assunzioni e queste saranno effettuate secondo le regole in vigore, cioè con il Jobs act. Sarà facile allora per il governo che lo ha proposto e fatto adottare dire che questo avviene grazie al nuovo provvedimento. Mancherà però la controprova di cosa sarebbe successo se fosse rimasta la vecchia normativa, con la quale, in ogni caso, anche nei momenti più neri della crisi, venivano assunte diverse centinaia di migliaia di persone ogni anno.
Anche senza Jobs Act, nel 2014 gli occupati in Italia sono aumentati di 120 mila unità. Così la crescita prevista pure nel 2015 non potrà essere onestamente imputata al Jobs Act, ma piuttosto alle esigenze delle aziende. Eppure la nuova normativa qualche risultato in termini di maggiore occupazione lo avrà sicuramente. Ci sono 76 mila aziende che in soli venti giorni di febbraio hanno chiesto all’Inps il “codice di decontribuzione” per le assunzioni a tempo indeterminato. Il Jobs Act, infatti, viene molto pubblicizzato per la questione dei contratti a tutele crescenti e la “libertà” di licenziare. Ma agli imprenditori interessa soprattutto qualcos’altro. Il “codice di decontribuzione” permette infatti di ottenere lo sconto sui contributi previdenziali che può far risparmiare fino a 8.060 euro l’anno per un triennio per le assunzioni. In mancanza di dati ufficiali – le statistiche viaggiano con tempi che non sono assolutamente compatibili con quelli dell’economia – ci si deve rifare alle stime degli operatori. Secondo i Consulenti del lavoro, nei primi due mesi dell’anno sono state fatte 275 mila assunzioni a tempo indeterminato, disinteressandosi bellamente della possibilità di eludere il famigerato articolo 18. Tanto è vero che le imprese non hanno pensato di rinviare le assunzioni a dopo il 7 marzo, quando è diventato operativo il Jobs Act, che sostituisce il reintegro nel posto di lavoro con un indennizzo in denaro. Questo conferma che le aziende quando assumono non lo fanno pensando a quando dovranno licenziare, non fosse altro che per scaramanzia.
Comunque, risultati o non risultati, temuto o non temuto, che interessi o meno, ormai il Jobs Act ce lo abbiamo e difficilmente se ne andrà, se non, forse, con un referendum, dall’esito peraltro non scontato. Appare in salita la sfida dei sindacati di far rientrare dalla finestra la tutela dei licenziamenti uscita dalla porta, introducendo nella contrattazione regole di reintegro non previste dal decreto. Se si ammette che le imprese non hanno interesse a licenziare solo per il piacere di farlo, trovarne di disposte a impegnarsi in un contratto integrativo al reintegro obbligatorio, non è molto differente dal riuscire a trovare aziende disposte a vincolarsi ad una rinuncia a prescindere a licenziare, per quanto questo vincolo possa avere valore in concreto.
In ogni caso, dato che chi assume non lo fa pensando di licenziare subito dopo, i problemi del Jobs Act, con la discriminazione che crea nella stessa azienda tra lavoratori dipendenti tutelati e lavoratori dipendenti non tutelati, perché anche le tutele crescenti non saranno comunque pari alle precedenti, si vedranno solo in futuro. E progressivamente, tra diversi anni, scompariranno, quando ci saranno solo lavoratori assunti con il jobs act.
Nel frattempo però dovrebbe scoppiare un nuovo problema, quello del costo della decontribuzione che in questi primi mesi sta dando una spinta all’occupazione ben maggiore del Jobs Act, al quale però alla fine andranno i meriti. Il calcolo della Cgia è che un milione di contratti incentivati (e incidentalmente adesso anche a tutele crescenti, ma comunque ridotte) costeranno circa 15 miliardi (1,8 nel 2015, 4,9 nel 2015, 5 nel 2017 e una coda nel 2018 di 2,9 miliardi) tra sgravio dei contributi Inps per 36 anni e deducibilità integrale, dal calcolo della base imponibile Irap, della componente del costo del lavoro per tutti i lavoratori alle proprie dipendenze assunti con un contratto stabile. Come per i famigerati 80 euro, anche questa volta c’è da chiedersi dove verranno recuperate le risorse. Ma come gli 80 euro non hanno risolto il problema dell’eccessivo carico fiscale, limitandosi ad un ribasso provvisorio, salvo proroga, così anche una decontribuzione per tre anni non risolve il problema del costo del lavoro e appare più un regalo (a tempo) che una vera riforma.