L’indice Nasdaq è tornato sopra quota 5 mila, riportando le lancette indietro di 15 anni. Era il marzo 2000 quando per la prima volta l’indice tecnologico di New York ha superato questa soglia. La macchina del tempo però funziona solo fino a un certo punto. Allora eravamo in piena euforia da “new economy”, dove bastava avere una desinenza “.com” per strappare prezzi inauditi anche se dietro il nome a volte c’era solo un’idea e spesso neanche quella. Dopo avere toccato il massimo storico di 5.132 punti il 10 marzo 2000, la sbornia finì in America e in tutto il mondo, come del resto era giusto che finisse. In due anni l’indice precipitò a un terzo dal suo record. Scommettere sulle aziende innovative va bene, ma quando ci sono troppo aspettative e poca sostanza il bluff alla fine viene scoperto, trascinando anche le aziende che invece qualcosa da dire ce l’avevano.
In questi quindici anni, oltre a una serie di crisi, si sono viste tante altre bolle crearsi e poi sgonfiarsi, il bioetanolo, l’oil shales “le sabbie bituminose”, l’energia fotovoltaica… Quella del Nasdaq del 2015 non sembra essere una bolla, ma piuttosto una conseguenza di aziende che stanno marciando in un’economia americana che tira.
L’indice inoltre nel frattempo ha allargato la sua platea ad altri titoli non solo del mondo del computer c’è, tanto per dire, anche la catena di caffè Starbucks – e questa è una condizione di maggiore stabilità. Soprattutto però il Nasdaq non è più un listino fatto principalmente di possibili promesse in una mistificazione che voleva dare più valore ai click degli utenti che ai dollari che effettivamente entravano in cassa. Ora è formato, con le inevitabili eccezioni, da aziende ben strutturate, con utili che mostrano tassi di crescita elevati, solidità patrimoniale e flussi di cassa stabile. Cioè aziende della new economy con parametri da old economy.
La grande differenza è che rispetto a quindici anni fa sono scomparse molte aziende che gli utili li hanno solo sognati: Google, Facebook, Amazon o eBay che all’epoca erano solo promesse o magari non esistevano ancora, adesso macinano profitti.
Se si guarda la valutazione del rapporto tra i prezzi e gli utili (in gergo, p/e) nel Nasdaq del 2000 le quotazioni viaggiavano su valori intorno a 175 volte gli utili, ma in certi casi si arrivava sulle migliaia di volte; adesso siamo su un più ragionevole 30, che scende addirittura a 15 per Apple o 18 per Google, dato che la media viene alzata dal permanere comunque di start up innovative che devono ancora dimostrare il loro potenziale. All’interno del Nasdaq ci sono settori che potrebbero esprimere una bolla: l’indice delle società delle biotecnologie ad esempio ha quadruplicato il valore nel giro di quattro anni, ma si può anche pensare che dopo una sottovalutazione per effetto della crisi adesso ci sia piuttosto una quotazione più realistica. Va detto anche che le grandi di quindici anni fa, nell’ordine Microsoft, Cisco e Intel, non sono ancora tornate ai livelli persi nel 2000: rispettivamente il valore è sceso da 455 a 350 miliardi di dollari, da 450 a 150 miliardi, da 390 a 160 miliardi.
I grandi rialzi sono stati invece guidati da azioni trascurate nel 2000, a partire da Apple – con l’iPhone, lanciato nel 2007, che doveva ancora avere il suo successo planetario – salita da 20 a 750 miliardi di dollari o da Google, che si è quotata solo nel 2004 e ora è la seconda società per capitalizzazione con 390 miliardi. Ma c’è qualcosa di determinante nel fare pensare che non si sia in presenza di una bolla: manca quella febbre generale che aveva fatto della Borsa uno spettacolo, il primo argomento del telegiornale, portando al listino un parco buoi fatto di casalinghe, pensionati, esperti da bar e soprattutto tanti illusi. Non è certo una regola, ma finché sport, Masterchef e Sanremo restano l’argomento principale la Borsa può stare relativamente tranquilla.