A volte il prezzo è caro, ma può essere quello giusto. Nel senso che, per molti addetti ai lavori, l’unica speranza di sopravvivenza per alcune produzioni casearie di qualità sarà adeguare certi prezzi alla media europea. Con una fascia sempre più estesa di consumatori che, pur di avere l’eccellenza sulle proprie tavole, è disposta a pagare anche qualcosa in più. Ne è un convinto assertore Roberto Rubino, dirigente e ricercatore presso l’Unità di Ricerca per la Zootecnia Estensiva di Bella (Potenza), grande conoscitore di tutto il patrimonio caseario italiano e presidente di Anfosc, l’Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo, nata nel 1995 per tutelare e valorizzare i formaggi prodotti esclusivamente con il latte di animali allevati al pascolo. Un purista dei grandi Cru, quindi, Rubino, la cui opinione è molto ascoltata sia dagli addetti ai lavori che dai consumatori, perché disinteressata e non legata a singoli interessi di bottega.
Presidente Rubino, a volte i consumatori restano sorpresi per il prezzo molto elevato di alcuni formaggi d’eccellenza: ma forse questa è l’unica arma che ha la filiera per poter sopravvivere, viste le soglie minime pagate per il prezzo del latte….
«Salvo rarissime eccezioni, i prezzi dei formaggi sono tutti livellati verso il basso. Possiamo trovare bottiglie di vino da un euro e da 4.000 euro. Invece nei banchi dei supermercati i prezzi dei formaggi sono quasi identici, molto vicini uno all’altro. E, secondo me, questo è il vero problema del settore….».
A volte però dei prezzi anche alti, o forse è meglio dire giusti, vista la qualità, si avvantaggia solo l’ultimo tratto della filiera casearia, quella della distribuzione: c’è un modo per riequilibrare l’intero sistema?
«Con i prezzi bassi non si avvantaggia nessuno. Anzi è proprio la distribuzione a risentirne perché non è in grado di offrire un’ampia gamma di prodotti a prezzi differenti».
Lei conosce benissimo tutti i formaggi italiani, a livello di prezzi, ma anche sul fronte della qualità. Ci può fare qualche esempio di formaggio sottovalutato, che meriterebbe più attenzione da parte dei consumatori e del mercato? E ci sono invece formaggi sopravvalutati?
«Gran parte dei formaggi al pascolo sono sottovalutati. A volte in maniera vergognosa. Esempio classico è il Ragusano: pascolo obbligatorio, latte crudo, siero-innesto, tini di legno, locali di stagionatura naturale. Eppure gli allevatori prendono solo due centesimi in più rispetto al latte industriale. E che dire del Montasio d’alpeggio, dei Nostrani trentini o della Fresa sarda. Non credo invece che vi siano formaggi sopravvalutati, perché c’è troppo appiattimento verso il basso».
In riferimento ai formaggi, lei ha anche creato un suo modello di classi di qualità: può dirci brevemente in cosa consiste?
«Sappiamo che il latte non è tutto uguale e sappiamo anche che la grande differenza la fa il pascolo e i concentrati. La qualità aromatica e nutrizionale del latte dipende essenzialmente dalla quantità di erba che l’animale mangia e soprattutto dal numero di erbe diverse contenute nella razione. Perché ogni erba apporta un patrimonio di molecole diverse. I concentrati hanno lo stesso effetto dell’acqua nel vino. Ne aumentano il volume ma ne diluiscono sapore e aroma. Il settore si salva se riusciamo a dare “a ciascuno il suo” prezzo».
Già, ma come?
«L’ideale sarebbe utilizzare lo stesso metodo in uso nel mondo del vino: ogni bottiglia ha il suo prezzo a prescindere dal nome del vino e anche se è una Doc. Però il mondo del vino è troppo distante. Ecco perché ho pensato alle classi di qualità, un po’ come si fa con gli elettrodomestici o il baccalà. Le classi sono sei (tre per i sistemi al pascolo e tre per quelli alla stalla) e si basano essenzialmente sulla razione alimentare e sul ruolo dei concentrati. Insomma, meglio mangia l’animale è più il latte e il formaggio saranno “di classe superiore”».
Lei si è sempre battuto contro l’omologazione del latte, che non può essere tutto uguale, ma va valorizzato, specie se italiano di qualità: le recenti misure varate dal ministro bergamasco Martina vanno in questa direzione o c’è ancora molto da fare?
«Non mi risulta che vi siano ancora misure che vanno nella direzione da me auspicata. Noi dobbiamo uscire dalla logica che il latte è tutto uguale, che il prezzo deve essere unico, che dobbiamo mangiare italiano. Noi produciamo molto meno di quello che consumiamo. E non tutto il latte italiano è uguale. Quindi il prezzo deve essere diverso, altrimenti chiude l’azienda che produce il miglior latte».
Secondo lei quale sarà il futuro del formaggio italiano? Riuscirà a contrastare adeguatamente il mercato mondiale delle imitazioni che, a forza di tonnellate di Parmesan e affini, sta minando la nostra credibilità?
«Il problema non sono le imitazioni o le importazioni di latte. Insisto, il problema è l’omologazione, il prezzo unico. Fra poco compreremo formaggi a prezzi stracciati perché la produzione di latte è in eccesso e perché non si tiene conto della qualità. Dobbiamo legare il prezzo alla qualità reale, non quella che ci raccontano (grasso, proteine, cellule somatiche e carica batterica)».
Fra i formaggi bergamaschi quale apprezza di più? Ci sono secondo lei, prospettive per allargare il mercato dei formaggi orobici anche all’estero in futuro?
«Il Formai de Mut è il mio preferito. A volta esprime una complessità delicata e fine che raramente si ritrova in altri formaggi. Per i formaggi bergamaschi ci potrebbero essere grandi prospettive. Dovremmo diversificare, ampliare l’offerta e esaltare al massimo la qualità con una cura maniacale dei dettagli. Ripeto: se si vendono vini a 4.000 euro, prosciutti a 1.000 euro, perché non si può vendere un formaggio a 1.000 euro? Questo è lo sforzo che dobbiamo fare: allargare la forbice fra il formaggio meno caro e quello più caro per permettere a tutti di gustare e ritrovare il proprio prodotto».