Perché noi bergamaschi siamo dei poveri fessi

Perché noi bergamaschi siamo dei poveri fessi

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tutor-comoTorno or ora, come ogni maggio che Dio manda in terra, dal festival della storia di Gorizia: una kermesse da 45.000 presenze in tre giorni, cui gli organizzatori dimostrano la bontà di invitarmi. Non ho intenzione, tuttavia, di attaccarvi la solita mella su quanto siano bravi i Goriziani ad organizzare manifestazioni storiche e quanto ne siano incapaci da queste parti. Dopo la boutade dell’assessore che fa iniziare la Grande Guerra il 23 di agosto, presumo che non valga la pena di spendere altre parole sull’argomento. No, le mie considerazioni sono di altro genere, e riguardano aspetti che travalicano una valutazione semplicemente politico-amministrativa, per invadere il campo dell’antropologia o, se preferite, della psicosociologia. Insomma, per farla breve, ho elaborato la forte convinzione che noi siamo i più cretini d’Italia. Noi Bergamaschi, intendo: pensiamo di essere chissà quali furboni, invece siamo dei poveri fessi. Tutto ce lo urla a chiare lettere, ma noi, caparbiamente, procediamo col crapone basso,e  non ce ne accorgiamo.

Cominciamo dai trasporti: sorvolo sul fatto che, nel nostro territorio, abbiamo un’autostrada intasata come lo scarico di un bidet ed un’altra che non serve a nulla e che costa come il fuoco. Tra Milano e Brescia, ossia dove ci siamo noi, funziona un affaretto che si chiama “tutor”, anche se dovrebbe chiamarsi “fregator”, visto che frega e non tutela: il “tutor”, se la tua velocità media è superiore a quanto stabilito dal codice, ti bacchetta, a suon di multone. Il che sarebbe buono e giusto, se la cosa funzionasse ovunque così: se la legge, una volta di più, si dimostrasse uguale per tutti. Perché, credete che in tutta Italia esistano questi simpatici oggettini che controllano la velocità di crociera degli automobilisti? Nemmeno per sogno: tornando da Gorizia sono stato superato da ogni sorta di veicolo a quattro e due ruote per cui i limiti di velocità sembravano essere lirica trecentesca. Dovendo deviare su Conegliano, per evitare una coda gigantesca, ho potuto apprezzare le virtù velocistiche degli utenti delle Autovie Venete, che, tra Portogruaro e Sacile abbattono il muro del suono con peculiare assiduità. Insomma, noi paghiamo e loro corrono.

Ma veniamo all’annosa questione dei parcheggi, su cui, a Bergamo, si scrive e si dice di tutto: a Gorizia, le zone blu sono relativamente poche, non esistono autosilos perché la gente parcheggia in parcheggi pubblici gratuiti, esattamente come si faceva anche da noi, quando i bilanci comunali erano meno periclitanti: senza troppe balle, senza chiacchiere ecologiche, senza scuse, i Goriziani lasciano l’automobile, anche in centro, parcheggiata nelle piazze e ai bordi delle vie, e vanno in giro a piedi. Certo, Gorizia è piccolina: siccome, invece, a Bergamo, per andare a piedi dalla Torre del Galgario a piazza Pontida ci vogliono due mesi, ecco spiegati gli inghippi. O non sarà che questa bella storia dei parcheggi sia soltanto un sistema per spennare la gallina dalle uova d’oro, ossia noialtri babbalei nati tra i due fiumi?

E veniamo al costo della vita, ossia alla sopravvivenza, che è materia di cui m’intendo ben più che di storia. A Bergamo, tutto quanto, dagli affitti ai taxi, dai campi da tennis alla biancheria, costa mediamente più che altrove: non parlo della Sila o del Campidano, parlo di province limitrofe o analoghe alla nostra. Dunque, mi domando e vi domando in cosa possa consistere questo valore aggiunto: qual è il fattore che fa lievitare i prezzi bergamaschi. Io ho il sospetto che la cosa possa, in parte, derivare da una certa mancanza di arbitrio ‘elegantiarum’ da parte dei clienti orobici, ma non si può spiegare tutto con le sciurette a caccia di griffe. Piuttosto rimarcherei l’idea di tontaggine, perché, anche qui, noi ci dimostriamo dei tonti: ci sorbiamo le chiacchiere del venditore, laddove dovrebbero essere il leguleio ed il retore ad usare bene le parole, e i venditori le merci, va da sé. Ascoltiamo rapiti, annuiamo, ordiniamo ed imbustiamo paccottiglia, magari beandocene: tanto può la suggestione sul raziocinio. E potrei continuare a lungo ad elencare materie in cui il Bergamasco mantiene, con i suoi donativi, il resto del Paese, oppure dove si fa gabbare da qualche dulcamara.

Un ultimo esempio: la manutenzione stradale. Uno capisce di essere arrivato a Bergamo anche solo dai rimbalzi dei propri ammortizzatori: l’asfalto dell’asse interurbano è imbarazzante. Eppure, qualcosina in tasse lo scuciamo, tutti assieme: dove vanno a finire quei cumuli di palanche? Ma, tanto, chi dilapida, chi ci frega, chi fa pagare a noi per le magagne di tutti, sa benissimo che il vero carattere della razza bergamasca non consiste nel rimanere come brace sotto la cenere, sibbene come mulo sotto il basto o, se si preferisce, come il pio bove, solenne come un monumento, ma bovinamente disponibile a trarre l’aratro dove il bifolco desideri, con pia e bovinissima solerzia. Ecco, questo pensavo, tornando da Gorizia: che noi siamo proprio condannati, dal nostro peggior difetto, che è anche la nostra maggior virtù, ad essere sempre trattati come i più pirla del reame, per la nostra proverbiale tendenza a rispettare le regole, a starcene in coda, a pagare il dovuto, a contribuire, insomma. Mi piacerebbe immaginare che, come Brighella, a forza di fregature, ogni tanto mettiamo mano al bastone: ma questo, ahinoi, succede solo nelle commedie dell’arte. Nella commedia che si chiama Italia, siamo irrimediabilmente condannati a subire supinamente. E, a giudicare dal successo di pubblico e di critica di certi personaggi locali, verrebbe quasi da pensare che, in fondo in fondo, ci faccia perfino piacere.