Un mondo di pomodori 

Emblema della cucina italiana, hanno una storia centenaria. In Italia si contano almeno 116 varietà. A Caravaggio un gruppo di pensionati coltiva 30 tipi di pomodori provenienti da sementi antiche 

Il pomodoro ha percorso un lunghissimo cammino dalle antiche civiltà azteche fino a diventare onnipresente nelle nostre tavole. Originario delle regioni andine, veniva coltivato in Messico: gli aztechi usarono il nome tomatl per indicare vari frutti di solanacee simili tra loro, mentre il pomodoro era chiamato xitomatl, che significa “frutto polposo”. Il pomodoro, insieme al mais, la patata, il peperone, il peperoncino e la patata dolce è arrivato in Spagna all’inizio del 1500 grazie a Cristoforo Colombo. Da Siviglia è approdato in Italia. Ma solo due secoli dopo, una volta superate diffidenze e paure, è stato utilizzato come ingrediente in cucina. La ricetta napoletana più antica di cui si è a conoscenza è la salsa di pomodoro alla spagnola e risale al 1692.

Dal Liberty bell al San Marzano: la classificazione

Classificare i pomodori non è proprio facilissimo. Se ne contano almeno 116 varietà in Italia, mentre nel mondo ne esistono migliaia. Si differenziano per il colore: ne esistono di gialli, verdi e addirittura neri. Il licopene, il carotenoide, che gioca un ruolo importante nella prevenzione dei tumori e che dà il nome scientifico alla pianta (Solanum lycopersicum), è presente in concentrazione maggiore proprio nel classico pomodoro rosso. E variano per la morfologia: tonda, allungata, a pera, a corno, ciliegino, costoluto, pizzutello, datterino. A volte il nome della cultivar, pur designando una provenienza, sottintende una forma. È il caso del San Marzano, dal nome del paese campano dove è dop, che costituisce categoria a sé con numerose sottospecie. «Un esempio di conformazione particolare è il Liberty bell, un pomodoro vuoto, dalla forma a campana, che si consuma ripieno di riso, cotto nel forno, come fosse un peperone – afferma Graziano Rossi, professore ordinario di Botanica ambientale e applicata nel Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente all’Università di Pavia  -. In Italia è arrivato dagli Stati Uniti a inizio ‘900. Lo si trova citato nel 1900 sul catalogo della ditta sementiera “Livingston’s Seed Annual”». E poi c’è la destinazione finale. «Una pubblicazione del 1958 classifica i pomodori in tre categorie: da mensa o insalata, ovvero da gustare crudi, da conserva, dunque destinati all’industria – prosegue l’esperto – e da serbo, legati alla cultura alimentare del Sud Italia che, conservati, potevano essere consumati nel periodo autunnale e invernale per arrivare fino alla primavera, grazie alla buccia più dura e a una speciale genetica che non li fa marcire».

Blush, Lidi, Coyote: ecco il “Pomo d’Oro”

Uno dei migliori è l’Aunt gertie, grosso, dorato, che deriva da un’antica varietà proveniente dallo Stato della Virginia, negli Stati Uniti. Il Blush è giallo con strisce rosse e si distingue per il sapore fruttato; somiglia al Lidi, ciliegino a grappolo, dolce e succoso. Il Coyote, selezionato in Messico, è quasi bianco. Il Dottore Carolyn è di color avorio e, maturo, diventa paglierino: è dolce e delizioso. «Il termine italiano “pomodoro” si deve al medico naturalista senese Pier Andrea Mattioli, al quale, verso la metà del ‘500, capitò di esaminare alcuni esemplari appena arrivati dall’America, che erano gialli, dunque in origine il frutto era di quel colore – spiega l’esperto -. Quelle varietà, scomparse dalla grande distribuzione, stanno tornando in commercio». Tra queste spiccano l’Azoichka, antica varietà russa dal colore limone brillante e gusto agrumato. E il Brandywine giallo platfoot con frutti grandi, dorati e leggermente a coste.

Zebra verde e cherokee nocivi? No, una delizia se fritti

I pomodori, con le melanzane, i peperoni e le patate, appartengono alla famiglia delle solanacee. Come dice il nome, foglie, radici e frutti contengono un alcaloide, la solanina, che è un glicosidico tossico perché rappresenta una difesa naturale per la piantina e il suo frutto da insetti e funghi. La sostanza, che tende a scomparire con la cottura, è contenuta in quantità più elevate nei frutti verdi come il Verde tedesco, la Zebra verde, il Cherokee.  La solanina può causare un’intossicazione solo se assunta in quantità superiore a 20 milligrammi per 100 grammi di prodotto fresco. «In Europa arrivarono varietà già selezionate da Inca e Aztechi che le mangiavano, ma, nonostante ciò, per due secoli, il pomodoro fu utilizzato esclusivamente come pianta ornamentale e veniva studiato dai botanici poiché lo si riteneva velenoso – racconta il professor Rossi -. Mia moglie, quando rimase incinta, 21 anni fa, chiese al ginecologo il permesso di mangiare le patate. Oggi, come ci ha insegnato il film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, i pomodori verdi sono buonissimi. Anche in Romagna è tradizione gustare infarinati e fritti quei frutti che, arrivati a fine stagione, non maturano. Senza dimenticare la marmellata di pomodori verdi». Sempre all’origine dell’introduzione del pomodoro in Europa, non mancarono credenze bizzarre: al pomodoro venivano attribuiti poteri afrodisiaci e veniva utilizzato per le pozioni magiche. Questo spiega i nomi dati a questa pianta in varie lingue, ricordati da Leopoldo Tommasi nel suo testo, “Vecchie e inconsuete varietà di pomodori”: Pomme d’amour in francese, Love apple in inglese, Libesapfel in tedesco, pumu d’amuri in Sicilia.

Gli antiossidanti nel Nero di Crimea e di Kiss the Sky

Anche in Italia si comincia sempre più spesso a vedere in tavola il pomodoro nero. La varietà più nota è il Nero di Crimea, che ha origine nell’isola di Krim, in Ucraina. I semi sono arrivati in Italia proprio grazie ai soldati di ritorno dalla guerra di Crimea nella prima metà dell’800. Esiste anche il Ciliegino nero, dal sapore intenso, che esplode in bocca, il Nero cinghiale con strisce verdi, dal sapore ricco, Kiss the sky, dolce come il ciliegino, ma più grande e rarissimo. Oltre a essere buono, il pomodoro nero possiede proprietà interessanti dal punto di vista nutritivo: è, infatti, ricco di antociani, sostanze dal forte potere antiossidante, che gli fanno assumere un colore nero bluastro intenso. Nel 2009, da un incrocio di specie, è nato il Sun Black. In quell’anno, un consorzio di atenei, costituito dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, la Tuscia di Viterbo e le università di Modena, Reggio Emilia e Pisa, misero in piedi il progetto di ricerca ed è attualmente sul mercato. Particolare il Nero del Canada, inizialmente chiamato P20 o Osu Blue, è un ibrido tra un pomodoro e una solanacea selvatica peruviana, ottenuto dall’Oregon State University dal professor Jim Myers, che da anni porta avanti interessanti lavori di ibridazione.

A Caravaggio si coltivano Mirtillo e Cornu del Tempestì

Il Pisanello, il Principe borghese, l’Ottombrino, il Canestrello di Lucca, il Cherokee purple, il Cornu del Tempestì sono nomi che non sentirete in un supermercato. Sono alcuni dei 30 tipi di pomodori, coltivati dal gruppo di pensionati, che hanno dato vita agli Orti Biodiversi Caravaggini, guidati dal presidente Adalberto Sironi. L’associazione si è formalizzata nel 2010 e si dedica con passione alla coltivazione di verdura e frutta, riscoprendo sementi antiche che altrimenti andrebbero perse. Gli orti sono affiliati dell’associazione nazionale Civiltà Contadina. Sironi prepara le sementi e le conserva in un barattolo a chiusura ermetica in armadio: la banca dei semi. «Tra le più particolari il Mirtillo, il cui diametro varia dai 4 agli 8 millimetri, e il Cornu del Tempestì o Corno delle Ande, che si pela e gusta come una banana – racconta Sironi -. Il Tempestì era il soprannome di Luigi Legramandi, che non c’è più, coltivava questa varietà a forma di corno portata decenni prima dal Sud della Francia, dove aveva lavorato». La sua filosofia si ispira al motto «senza cultura non si semina più». «La caratteristica comune non è la provenienza, ma che siano semi non ibridati, questo vuol dire antichi – spiega -. La biodiversità è curare varietà che magari non sono autoctone ma si sono mostrate adatte a un microclima, nel nostro caso quello della Bassa, e vi si sono stabilizzate. La prova del nove non è solo che diano un buon raccolto, ma che siano buone in tavola».




A spizzichi e bocconi: il menù che fa tendenza

Accanto alla gestione del servizio a portate classico, stanno nascendo nuove formule per il pasto al ristorante. Proposte innovative e curiose che attirano l’attenzione dei clienti più esigenti 

Il menù degustazione: c’è chi lo ama e chi lo odia. Questo tra i clienti e i commensali, ma anche tra brigate di cucina e ristoratori. Questo tipo di formula possiede indiscutibilmente dei vantaggi, ma anche degli svantaggi. Ma laddove è proposto come valida alternativa e come percorso tematico tutti gli ospiti vengono sicuramente accontentati. Il menù degustazione può essere un’opportunità per l’ospite più curioso, che avrà così la possibilità di assaggiare buona parte della proposta e avere un quadro di quello che il ristorante serve ai propri clienti. Ma forse la ristorazione si sta spingendo un poco più in là? Non sono infatti ormai così rari i locali in cui viene fatta una proposta composta da un numero di portate a scelta. Ovvio che è necessaria una buona dose di coraggio, perché sicuramente le persone meno curiose non apprezzeranno facilmente la scelta. Sono comunque possibilità da tenere in considerazione, che possono aprire le porte a diverse tipologie di clientela, anche per quei ristoranti che propongono una cucina più classica, ma che vogliono differenziarsi e accogliere anche l’appassionato curioso, che potrebbe aver la voglia di assaggiare più piatti, ma senza l’onere di dover mangiare porzioni normali. In questo senso, sono altrettante le strutture che propongono i propri piatti in mezza porzione. Infine, forse la soluzione più innovativa e contemporanea è quella di proporre tanti piccoli assaggi golosi, senza abbandonare tecnica e lavorazioni complesse, da poter gustare a scelta oppure organizzati in cucina in menù degustazione da più portate. L’approccio alla ristorazione, soprattutto a quella di alta qualità e ricerca, sta cambiando. Si avvicinano sempre più persone molto giovani, che non vanno alla ricerca dell’abbondanza, ma dell’esperienza. Disposti a spendere anche cifre consistenti. Se le generazioni con un’età più alta apprezzano meno questa direzione, non è altrettanto vero per le persone più giovani. Forse questa potrebbe essere un’opportunità per ripensare alcune parti della propria proposta anche per la ristorazione più classica e tradizionale? C’è chi l’ha già fatto, e con soddisfazione!

Bites, a Milano un menu a piccoli morsi

Un piccolo locale, una piccola cucina e tanta soddisfazione. Bites si trova nel cuore di Milano, a pochi passi da Porta Venezia. Un luogo contemporaneo sia per l’ambiente che per la proposta. Andrea Baita e Pietro Zamuner hanno osato, senza fare sconto alcuno, optando per una scelta coraggiosa: quella di stravolgere la consuetudine, soprattutto nella formula. In cucina i due giovani si divertono tra marinature, lavorazioni e cotture alla brace. La carta si compone di tanti piccoli assaggi, che poi così piccoli non sono, almeno nella complessità concettuale con cui ogni piccola portata è pensata e preparata. Tecniche differenti, materie prime tra le più disparate, usi e culture che provengono da ogni parte del mondo. I piatti sono composti al momento e, se la scelta ricade su un menu da sei o dieci portate, vengono serviti con un ritmo ben preciso, anch’esso parte del gioco. Tra le proposte ostriche al burro acido, nori arrosto e olio d’oliva; anguilla alla brace; pollo ripieno con zabaione di miso, fegato grasso; sgombro in saòr. Al Bites puoi assaggiare tutto, in poco tempo, senza appesantirti. Piccoli morsi dalla grande cultura. 

“Fa mia ol fighet”, la tradizione in degustazione

Proporre un menù degustazione della tradizione non è cosa affatto semplice, ma Claudio Rubis alla Staletta di Zogno ci ha provato con “Fa mia ol fighet”: una proposta per chi non sa mai cosa scegliere. Vengono infatti serviti assaggi di alcuni degli antipasti, a seguire alcuni primi, poi i secondi e infine i dolci. Salumi locali (con il salame intero da tagliare a fette: ne mangi quanto ne vuoi!), polpettine, formaggi, le paste fresche e ripiene, e lunghe cotture. Per i più curiosi e goduriosi: un menu da non lasciarsi sfuggire, per assaporare la cucina locale bergamasca a tutto tondo. 

Momento Clu e i suoi cluetti

Lo chef Edo Codalli non è nuovo nel panorama della ristorazione bergamasca, ma con Momento Clu si è messo personalmente in gioco (insieme a due soci, tra cui in sala Marco Cavadini) e ha aperto un ristorantino in un luogo meraviglioso, il Castello di Clanezzo, con una proposta particolare. Il menù si compone di tanti “Cluetti”, tanti assaggi che possono essere gustati nel menu degustazione “Cluettata” dove si può scegliere, per esempio,  tra Kebab di pecora gigante bergamasca, fungo porcino, ravioli di melanzana, cervo marinato, insalata di baccalà. Una cucina essenziale, che in parte pone le basi su una selezione di materie prime agricole locali e non,  interpretate magistralmente dallo chef. Non c’è un menu a portate: ti siedi e assaggi un piatto dopo l’altro. Un’esperienza di gusto e cultura. 

 




Giorgio Locatelli: “Si criticano i giovani ma credo sia un’idiozia”

Il giudice di Masterchef e Home Restaurant fa il punto sul futuro della ristorazione in un’intervista a tutto campo

Entriamo in scivolata a freddo, nel mezzo di un soleggiato pomeriggio londinese. In Inghilterra, come in Italia, tanti ristoranti sono chiusi il lunedì, ed è il giorno di “corta” anche per Giorgio Locatelli che, tra un set televisivo e l’altro, ci risponde dalla sua Locanda – primo ristorante italiano stellato all’estero – dove ha appena provato a convincere l’addetto alla spesa di un albergo di lusso, cui lui fa consulenza, che se un Parmigiano Reggiano invecchiato 36 mesi costa il doppio di un 12 mesi, è del tutto normale. «La qualità dei prodotti italiani è altissima – dice – ma bisogna ancora insegnare alla gente come riconoscerli, purtroppo anche agli addetti ai lavori». Il takle, però, è in agguato e arriva subito alla prima domanda sul successo della trasmissione “Home restaurant” condotta dallo chef su TV8.

Lo sa quanti nemici si è fatto, in Italia, tra i suoi colleghi, sponsorizzando gli home restaurant in televisione? 

Dice davvero? No, non penso: stiamo parlando di due esperienze completamente diverse, quasi agli opposti. L’home restaurant è andare a trovare qualcuno, volerlo conoscere, vedere cosa succede in casa; non c’è una carta, o una proposta internazionale, ma un menù già deciso, che è l’espressione della persona che vive in quella casa.

L’atmosfera è diversa, su questo siamo d’accordo. Resta però un’alternativa al ristorante.

Non credo che l’home restaurant possa cannibalizzare i clienti dei locali. Dopotutto, sono talmente poche le persone che si possono trovare a cena in un appartamento, che il problema non esiste. L’idea è quella di passare una serata diversa e di esplorare un modo nuovo di stare insieme. E per chi cucina non può essere un business: di soldi ne circolano pochi.

Un hobby, più che una nuova occupazione? 

Sì. Io per esempio ho incontrato persone che sapevano tutto di whisky, o che andavano matte per un ingrediente, o una ricetta. Il contesto è molto personale, familiare, anche nel servizio.

Lo sviluppo degli home restaurant può essere legato alla riscoperta della cucina che tutti noi abbiamo vissuto durante il lockdown? 

Sì, sicuramente il Covid ci ha cambiato tantissimo, anche nella maniera con cui facciamo la spesa. Ha avuto un impatto sulla nostra vita che forse capiremo bene solo tra qualche anno. Un tempo a Londra gli home restaurant venivano organizzati perlopiù dai giovani che, non avendo tanti soldi, facevano una colletta, andavano a fare la spesa e tornavano a cucinare quello che avevano comprato. Adesso si sono evoluti e ce ne sono di più. Ma non possiamo parlare di vere e proprie aziende.

Ha mai mangiato male nelle case che ha visitato per la sua trasmissione? 

Ne ho provate 25 in giro per l’Italia e devo dire che lo standard è molto buono. Il programma è nato da una cosa che accomuna tutti gli chef: nessuno li invita mai a cena, per paura delle critiche. Questo però è sbagliato perché quando i cuochi vanno a cena da qualcuno, piuttosto che fare una lamentela, si mettono qualcosa in tasca, se proprio non è buona da mangiare. A me l’idea è piaciuta subito: entrare nelle case degli italiani è un po’ come prendere il polso della cucina familiare tradizionale, e raccontare uno spaccato della cultura del mangiare in Italia, che ci contraddistingue nel mondo. Nessuno cucina meglio della mamma, e questo è un valore grande che noi italiani abbiamo ancora. Altrove la gente non fa più da mangiare, mentre da noi questa passione per la cucina fa parte della nostra identità. E devo dire che sono rimasto lusingato e a volte straordinariamente colpito da pranzi o cene molto piacevoli. Qualcuno ha preparato piatti che potrebbero essere serviti in un ristorante stellato.

La cucina familiare resta la spina dorsale della ristorazione italiana che però in questi anni ha sofferto tanto. 

Chi ha subito di più gli effetti della crisi sono i ristoratori in affitto. Le attività storiche, quelle a conduzione familiare, i cui titolari sono proprietari anche dei locali, hanno sofferto meno e in percentuale sono quelli che sono sopravvissuti di più.

Ci siamo risvegliati dalla pandemia con il problema del personale. Oggi sembra che più nessuno voglia lavorare nei ristoranti.

È un problema che abbiamo anche noi: la Brexit ha fermato il flusso di talento europeo, e specialmente italiano, di persone che venivano anche per imparare l’inglese. Oggi è più difficile che i ragazzi arrivino solo per lavorare. 

Anche in Italia i ristoratori fanno fatica ad assumere. Com’è possibile? 

Oggi si criticano tanto i giovani, ma credo che questa sia un’idiozia: i ragazzi di oggi sono molto più intelligenti, maturi, onesti e aperti al mondo. Arrivano a lavorare dopo aver studiato e la qualità è altissima. Dobbiamo solo invogliarli; c’è chi dice che non vogliono lavorare il sabato e la domenica, ma non credo che sia così. Chi nasce con la passione della cucina, sa che il fine settimana si lavora: se io non lavoro a Natale mi sento male. 

E allora, dov’è il problema?

Serve motivare il proprio personale e fargli intravvedere una carriera. Io, per esempio, non ho problemi in cucina, ma nel servizio. Dobbiamo entrare nell’ottica che il nostro non dev’essere un lavoro da matti. Oggi è un po’ così: si parte alle 9 del mattino e si rientra alle 2 di notte. Se vogliamo farla diventare una professione seria, dobbiamo accettare il fatto che la gente sia pagata bene per lavorare il giusto. Dobbiamo vendere ai giovani questo mestiere come una carriera. 

Senza alzare i prezzi, come si fa? 

Bisogna far pagare ai clienti per il servizio che riusciamo a dare. Il mondo è cambiato e oggi la vita media di un ristorante a Londra è molto più breve che in passato: il 40% fallisce entro un anno e gli altri chiudono quasi tutti prima dei 5 anni di attività. Chi riesce ad andare avanti è spesso finanziato da qualcuno. 

I giovani che entrano in cucina sono meno improvvisati di un tempo?

Sicuramente. Gli improvvisati sono di più in sala: si inizia un po’ così, poi si scopre che si può fare carriera e si prosegue. Noi cuochi e maȋtre d’hotel dobbiamo lavorare proprio su questo: far diventare questo mestiere una professione.

Manca la formazione per il personale di sala? 

No, manca la gente che vuole diventare cameriere, perché in tanti lo vedono come un lavoro che non dà un futuro. Non a caso gli istituti alberghieri hanno diminuito le classi di sala e aumentato quelle di cucina. 

Questo grazie anche a voi di Masterchef.

Grazie a noi, forse, ma anche al “sistema Italia” che in 20 anni è cambiato molto. Siamo in un momento molto positivo per quanto riguarda, per esempio, i prodotti di qualità e dobbiamo cercare di cavalcarlo, questo momento. Le copie, l’Italian sounding, purtroppo ci saranno sempre. Noi però dobbiamo cercare di far capire alle persone qual è la differenza, e ciò può arrivare con la serietà nel trattare il prodotto e con l’insegnamento. Dopodiché, quando fai da mangiare bene, la gente se ne accorge e se lo ricorda. Sappiamo tutti riconoscere qualcosa di buono.

E qui torniamo ai prezzi, che secondo alcuni ristoratori andrebbero alzati. 

Non lo so, dipende dai locali e dalle proposte: io pago mezzo milione di sterline all’anno di affitto, faccio 50 mila coperti e so che ogni cliente mi costa 10 sterline solo d’affitto. Poi c’è chi è proprietario del suo locale e chi riesce a mantenere un prezzo competitivo perché è più bravo degli altri. Certo, invece di proporre una carta con 30 piatti, ne bastano 5 fatti bene, e questo è un trend che ho notato molto in questi anni. Oppure ci sono ristoranti che propongono dei menù degustazione, magari anche di 15-16 portate, o altri che si specializzano in qualcosa. Così si possono tagliare costi di personale e di approvvigionamento. 

La soluzione sta nei menù più corti? 

Sì, magari focalizzati sul prodotto stagionale, per risparmiare ed evitare gli sprechi. Ognuno, poi, deve trovare il suo parametro e bisogna tenere conto anche della tipologia di ristorante: il mio è in centro a Londra e quando un mese fa ho tolto il pollo dalla carta – perché il nostro fornitore, che li alleva solo per il mio ristorante, non riusciva a starmi dietro – ho dovuto discutere con mia moglie, perché giustamente mi diceva che in un posto internazionale come il nostro, non possiamo obbligare la gente a mangiare solo carne rossa. Altrimenti, ripeto, bisogna specializzarsi ed è quello che stanno facendo tanti nuovi ristoranti stellati italiani.

E i clienti come reagiscono?

Sinceramente non so se la gente è pronta a capire questo passaggio; certo sarebbe molto più semplice se tutti i ristoratori si orientassero in questo senso.




Latte di alta qualità, l’oro bianco da riscoprire

Consumato fin da epoche remote, il latte è il liquido alla base dell’alimentazione dei cuccioli dei mammiferi. Un prodotto molto nutriente, che siamo abituati a consumare fin da bambini, intolleranze ed allergie permettendo. Il latte è in grado di fornire al nostro organismo molte sostanze nutrienti di cui abbiamo comunemente bisogno. E’ molto utilizzato tal quale, come bevanda fresca per una merenda genuina, ma anche per la colazione. E’ inoltre elemento base per la preparazione di numerose ricette di cucina, ma anche per la gelateria di alta qualità, contribuendo alla buona riuscita dello stesso E poi, è la materia prima alla base per la produzione del formaggio, grazie alla trasformazione della principale proteina che contiene: la caseina. Essa, in particolari condizioni (di temperatura, di pH e in presenza di un enzima), coagula e passa allo stato gel producendo quello che comunemente chiamiamo cagliata, da cui poi avrà origine il formaggio.

Negli ultimi anni però, complice anche la diffusione della diagnosi legata all’intolleranza al principale zucchero del latte, il lattosio, si è assistito a una parziale demonizzazione dell’alimento, eliminandolo dalla propria dieta o sostituendolo con  bevande, talvolta, industriali.

Ma il latte di qualità esiste e, se consumato in quantità non eccessive, può essere un vero alleato nel mantenere il nostro benessere.

Parlare di latte non è sbagliato. Infatti la legge ci dice che quando non viene segnalato l’animale da cui origina, si fa riferimento al latte vaccino. Ne esistono molti altri, ma meno diffusi e reperibili (anche se oggi l’industria alimentare propone qualsiasi tipologia di latte soprattutto nelle catene della GDO), come il latte di capra, il latte di bufala o quello di asina.

Ebbene, seppur la maggior parte di noi ha come abitudine l’acquisto di latte a lunga conservazione (intero, scremato, parzialmente scremato) che si trova comunemente sullo scaffale del supermercato, esistono filiere di qualità da valorizzare e a cui poter attingere quando si vuole consumare un prodotto diverso.

Attenzione: non bisogna confondere il latte fresco con il latte crudo. Il latte fresco subisce un trattamento termico di pastorizzazione che ha lo scopo di eliminare la flora batterica (anche quella positiva, non solo quella eventualmente patogena) dal liquido. Il latte crudo non subisce invece alcun trattamento termico preventivo, ma una filtrazione prima di essere messo in commercio.

Latte crudo: i distributori e l’utilizzo professionale

Una decina di anni fa circa la filiera del latte ha tirato un sospiro di sollievo. Sono infatti state installate numerose “casette del latte” ove è possibile acquistare il latte crudo, munto da poche ore seguendo rigide regole in fatto di igiene. Come è ovvio che sia, il latte crudo possiede un grande numero di microrganismi che fanno bene alla nostra salute, ma ne può avere anche di patogeni, seppur molto controllato. Ne è sconsigliato il consumo infatti alle persone immunodepresse e fragili, se non previa bollitura. Ma a questo prodotto è stata fatta una vera e propria guerra, tanto da mettere in guardia le persone verso il suo consumo. Ovvio che la vendita di latte crudo diretta al consumatore ad un prezzo equo per l’allevatore, ma non eccessivo per il consumatore, si è rivelata un vero successo nell’immediato, ma ha creato mal contenti nell’industria agroalimentare. La potente campagna diffamatoria verso l’utilizzo di latte crudo (“fa male”) ha sfiduciato i consumatori e in circa 10 anni la presenza dei distributori ha subito una forte flessione in negativo. Certo è che, secondo le indicazioni anche del Ministero della Salute, il latte crudo va consumato previa bollitura. Altrettanto sicuro è anche che il rischio zero, consumando latte crudo, non esiste, soprattutto per bambini, anziani e persone fragili. L’utilizzo del latte crudo in pasticceria o gelateria potrebbe essere potenzialmente interessante, anche se si potrebbe incorrere in diverse problematiche. La prima riguarda l’obbligatorietà della pastorizzazione previo utilizzo e l’effettiva autorizzazione da parte degli organi preposti al controllo. La seconda riguarda le sue caratteristiche, in termini di omogeneizzazione dei grassi e quantità di proteine: non sono stabili nel tempo, ma variano in funzione della stagione e dell’alimentazione degli animali. Infine, l’aroma. Non siamo più abituati a quei sentori di erbaceo tipici del latte crudo talvolta anche spinti; il gelato cambia letteralmente aroma, andandosi a caratterizzare in maniera importante. Utilizzare latte crudo in un laboratorio professionale è quindi una scelta importante, che richiede attenzioni particolari per la sua lavorazione.

Latte nobile, Salvaderi e latte fieno: filiere di qualità

Sono molte e diverse le aziende produttrici di latte che hanno deciso di investire risorse per proporre un latte riconoscibile e di alta qualità, al di fuori delle logiche legate alla vendita alle grandi industrie alimentari. Si tratta di aziende che hanno deciso di valorizzare il proprio prodotto, il latte, per il suo consumo tal quale. Un percorso che ha richiesto il ripensamento di intere filiere, dalla scelta della razza bovina, fino al suo allevamento, alla sua alimentazione. E’ il caso dell’azienda agricola Salvaderi, ubicata in provincia di Lodi, che ha scelto di valorizzare il proprio latte, prodotto da vacche che vivono libere al pascolo di razza Guernsey, che ha la caratteristica di possedere la proteina caseina A2A2 che non causa gonfiori e pesantezza durante il suo consumo. Il latte viene pastorizzato il minimo indispensabile per essere poi consumato senza trattamento termico alcuno. Latte nobile è invece un marchio di alta qualità che nasce dalla volontà di dare una risposta alla produzione industriale, orientata al produrre latte al minor costo possibile. E’ un progetto firmato da ANFoSC, l’Associazione nazionale formaggi sotto il cielo. Il marchio Latte Nobile identifica quindi un modello produttivo con relativo disciplinare; punta a garantire agli animali un ambiente confortevole, un’alimentazione a base di erbe e fieno con l’utilizzo di pochi mangimi naturalmente privi di OGM e insilati. E poi, dall’Alto Adige, arriva un altro marchio di qualità. E’ latte fieno, registrato anche come STG (Specialità Tradizionale Garantita) dal 2016. Un latte prodotto da animali allevati secondo alti standard di benessere e che si nutrono solo con fieno, cereali ed erba, senza integratori e mangimi fermentati. La sua produzione è disciplinata da un regolamento specifico. La produzione coinvolge oltre 4500 aziende con una presenza media di circa 15 capi ognuna.




La ristorazione e l’hotellerie guardano al futuro

Tre importanti consulenti del settore ci hanno raccontato quali sono i nuovi trend di bar, ristoranti e alberghi 

Locali sempre più specializzati, menù hi-tech e sempre più fluidi. Tra ibridazioni e contaminazioni, la ristorazione guarda al futuro, oltre la pandemia e i rincari dei prezzi, dalle materie prime all’energia. Lo fa con ritrovato entusiasmo, dopo anni da dimenticare, confidando nei segnali di ripresa e voglia di uscire a pranzo e cena. Con cicatrici e ammaccature, ci si risolleva a colpi di marketing, strategie e competenze. La pandemia ha dato un’importante spinta verso la rivoluzione digitale, che si è tradotta in un proliferare di menù con Qr code, App, siti per ordini online, pagamenti contactless e chiamate wireless per i camerieri.  La crisi economica, già in atto da anni, sommata all’emergenza Covid, ha esasperato la forbice tra locali di lusso e pop, gettando nello sconforto la ristorazione media, che rappresenta una fetta importante del comparto dei pubblici esercizi. Scricchiolano anche formule “all you can eat” e i buffet -sostanzialmente banditi durante la pandemia- non saranno più gli stessi. A vedere però decisamente in bilico la propria sopravvivenza in questa competizione evolutiva sono i locali senza specializzazione: per chi propone sia menù di terra che di mare e magari pure la pizza, sia a pranzo che a cena, la strada verso il futuro è davvero ripida e tortuosa, per non dire sbarrata. Non si arresta l’ascesa delle food court e dello street food, sempre però a caccia di autenticità, tipicità e di quel valore aggiunto che un’esperienza gastronomica deve ormai portare con sé. Sempre più attuale l’apertura di dark kitchen per far fronte alle crescenti consegne in delivery o asporto. La ristorazione in hotel diventa sempre più un asset importante, come lounge, bistrot e lobby bar.  Sono queste alcune tra le principali tendenze rilevate da tre consulenti esperti del settore, che abbiamo intervistato per fare il punto sui nuovi trend che guideranno il futuro dei pubblici esercizi e del turismo. 

Gap sempre più accentuato tra luxury e pop

Lorenzo Ferrari

Per Lorenzo Ferrari, fondatore e Ceo di Ristoratore Top, primaria azienda di marketing del settore, fare previsioni è sempre fuorviante, ma i macro trend del mercato sono abbastanza delineati ed evidenti. «Ogni volta che si fanno previsioni si toppa -afferma-. Si è parlato di sostenibilità e sembrava che non si potesse rinunciare alla svolta green, quando alla prova dei fatti risulta irrilevante nella scelta del locale». I conti si fanno soprattutto (ma, ovviamente non solo) con il portafoglio: « I cosiddetti locali accessibili per scontrino, ma percepiti come “cool”, spopolano, così come quelli “casual”. Penso all’osteria rimodernata, cui ci si affeziona sempre e comunque.  È sempre più in voga concedersi ogni tanto anche il lusso di un ristorante stellato, una gratificazione per occasioni speciali, che per molti diventa quasi un hobby, da portare avanti con passione concedendosi gite gourmet. La forbice è sempre più larga tra luxury e pop: i locali inaccessibili ai più mantengono il loro appeal e continuano a essere attrattivi. Valga il dato record di sempre di fatturato nel 2021, anno disastroso per l’economia, per lo Champagne». Se c’è chi bada a etichette, ambiente e lusso esibito, c’è ancora chi punta dritto alla sostanza: «I locali accessibili per prezzo, ma spartani e senza pretese, ottengono nuovi consensi. Basti guardare ai social: in pochi mesi dalla creazione del gruppo facebook “Mangiare bene spendendo poco” si sono ottenuti oltre 100mila iscritti in tutta Italia». A non tramontare sono i locali che restano impressi nel cuore: «Le occasioni di uscire e provare cibi diversi ed etnici si moltiplicano, ma ci sono indirizzi storici che servono intere generazioni di famiglie e che continuano a riportarci ai loro tavoli, insegnandoci il valore della fidelizzazione più spontanea e autentica». Il punto fermo per la ristorazione che verrà è che senza specializzazione non si va da nessuna parte: «Fino a dieci anni fa erano tanti gli appassionati ad aprire locali, magari investendo risparmi o liquidazione. Ora i ristoratori sono non solo professionisti ma sempre più imprenditori. La specializzazione è fondamentale anche nel format: per chi propone tutto senza specializzarsi in nulla, il futuro è in bilico. E ciò vale anche per il classico bar con espositori di prodotti industriali tutti uguali, dove si va più per reale necessità o vicinanza, che per convinzione o piacere».

 

Menù liberi e ristorazione senza orario

Giacomo Pini

Giacomo Pini, amministratore di Gp Studios, società di consulenza e formazione attiva nel mondo del turismo e della ristorazione, evidenzia come tutto ruoti attorno all’esperienza e all’identità: « Le food court proposte nei centri commerciali da decenni, tornano al cuore delle città, nelle piazze, nei city walk e nei punti panoramici. I mercati coperti diventano gourmet e attrattivi. Le occasioni di consumo si moltiplicano ma esaltano sempre l’identità dei luoghi, dal cartoccio di fritto gustato per le vie di Napoli al lampredotto al mercato di Firenze». Non mancano contaminazioni interessanti: «Nei bar si trovano colazioni sempre più simili a resort e hotel e, di contro, gli alberghi guardano finalmente alla ristorazione come ad un’opportunità interessante su cui puntare. Anni fa c’era una certa resistenza ad andare in hotel a mangiare, ora è diventato un plus. Gli hotel, specie in posizioni strategiche o panoramiche, catturano sempre più l’attenzione della clientela esterna». I menù si fanno più fluidi e snelli: «Scompare la canonica successione antipasto, primo e secondo. Si punta agli assaggi, “para picar”, che favoriscono la convivialità e rappresentano un’occasione di provare più piatti, oltre ad aumentare le possibilità di consumo. Ci sono i piatti principali, abbinati come nella tradizione anglosassone dei “main course” a contorni. E poi ci sono gli irrinunciabili, signature dish: le specialità della casa sono evidenziate ormai in tutti i locali». La carta dei vini diventa più smart: «C’è sempre un certo timore nella consultazione, percepita come per super- esperti, per non dire sommelier. I menù più innovativi abbandonano la divisione per regioni dei vini e propongono icone o etichette, di più facile consultazione, che magari suggeriscono abbinamenti. Non possono mancare i vini di pronta beva e quelli “genderless” con cui iniziare e finire quasi qualsiasi pasto». Quanto alla proposta, continua il momento felice di cibo salutare: «Pokè e sushi restano sempre attrattivi e ormai sono diventati quasi un appuntamento fisso settimanale per molti. Anche in virtù di questa popolarità, per effetto-traino, il crudo, dalle carni, alle verdure al pesce sta conquistando posizioni e si concilia alla perfezione con regimi dietetici anche restrittivi». 

 

Ristorazione e food and beverage un nuovo asset per l’hotellerie 

Mauro Santinato Ph © Giorgio Salvatori

Mauro Santinato, presidente di Teamwork, società di consulenza e formazione nell’hospitality, rileva un vero e proprio boom di dark kitchen e ghost kitchen. «È l’eredità più evidente che ci lasciano questi due anni di pandemia, con effetti opposti per altro: per alcuni rappresenta un’importante integrazione di fatturato per assicurare delivery e asporto, per altri un’inevitabile perdita di denaro. Le cucine degli alberghi, per la maggior parte poco utilizzate, si prestano a questo tipo di utilizzo fino ad assumere valori importanti per volumi d’affari: a Dubai ci sono hotel che propongono  anche quindici tipologie diverse di ristorazione per soddisfare le richieste esterne in delivery e assicurare il room service 24 ore su 24». L’hotel diventa in generale più accessibile e informale, proponendo spesso il concetto di spazi ibridi, introducendo l’all day dining, rivoluzionando la colazione e aprendo le proprie lounge e lobby bar all’esterno: «Gli spazi si moltiplicano e specializzano, con l’obiettivo di allungare la permanenza e attrarre anche una clientela esterna. Il mondo del lifestyle hotel è la tendenza attuale. Se la ristorazione ha vissuto momenti critici in passato o è stata vista come un servizio da proporre perché necessario, ma senza passione, investimenti ed entusiasmo, ora è un vero e proprio asset. E non solo per i ristoranti stellati in hotel, che hanno fatto scuola in questo. Ora gli hotel sono un punto di riferimento per i quartieri, un posto dove concedersi un aperitivo, un drink dopocena, un business lunch o un buon caffè in giardino o terrazza». Il riposizionamento dei ristoranti degli alberghi è legato al loro stesso futuro: «Prima si cenava in hotel perché era comodo, ora accade quasi l’inverso: si sceglie l’hotel per la sua ristorazione di qualità. Si vendono camere perché abbinate a cene, colazioni e pranzi gourmet». Non mancano infine proposte curiose e insolite, perché in un mercato a sempre più elevata specializzazione, le nicchie assumono una posizione di crescente interesse. «Penso al ristorante per gatti nell’hotel specializzato nell’accoglienza dei felini. O, senza arrivare a questi estremi, a chi si specializza in cibo healthy, veg o a chi punta sulla sostenibilità, un tema particolarmente attuale anche per far fronte ai rincari energetici».




Andamento lento, il bello e il buono della cottura slow

La cottura a bassa temperatura in sottovuoto  nasce in Francia agli inizi degli anni Settanta, lo chef Giovanni Rota spiega i vantaggi di cuocere i cibi sottovuoto e senza fretta

Giovanni Rota

Agli inizi dell’età moderna erano i pentolini lasciati sulle stufe in ghisa dalle donne che uscivano per lavorare nei campi o in fabbrica per ore. Nella storia della cucina contemporanea tutto iniziò negli anni Settanta dal foie-gras: Georges Pralus del Troisgros a Roanne, in Francia, era in cerca di una tecnica che consentisse di ottimizzare conservazione, gusto e ridurre la perdita di peso in cottura di una materia prima così pregiata. Scoprì così che, cuocendolo a bassa temperatura e sottovuoto (sous-vide), a migliorare era non solo il sapore, ma anche la conservazione e gli aromi. Lo chef-scienziato Bruno Gossault e Juan Roca e Narcis Caner misero a punto la tecnica, creando un’attrezzatura ormai irrinunciabile per molti locali come il Roner (nome nato per crasi tra le iniziali dei cognomi dei fondatori Roca e Caner). Dagli albori del foie-gras la cottura a bassa temperatura ha conquistato un numero crescente di consensi e oggi i vantaggi del sous vide ad andamento lento tornano alla ribalta per ottimizzare la gestione del ristorante. E, in tempi in cui i rincari energetici diventano insopportabili, la tecnologia può ridurre – a sorpresa – nonostante le lunghe cotture, i consumi. Giovanni Rota, chef per professione e docente per passione, dall’Accademia del Gusto all’Accademia Gualtiero Marchesi, dal 2019 executive chef de La cucina italiana, invita a guardare alle vasche di cottura con una nuova prospettiva: «Il Roner come altri macchinari per la cottura in sottovuoto a bassa temperatura hanno consumi decisamente inferiori, attorno ai 2 kilowatt, rispetto a un forno professionale che ne richiede in media 18. È errato pensare che sia una tecnologia dispendiosa. Senza contare i vantaggi indiretti che porta con sé, a partire da quello più evidente di triplicare se non quadruplicare la vita dei prodotti». Con una buona organizzazione i costi si abbattono ulteriormente, per non parlare dell’annullamento pressochè totale degli sprechi: «Si possono concentrare gli acquisti, con un risparmio notevole sulla spesa e organizzare il lavoro in cucina in modo di avere pronte salse, porzioni di pesce o carne, basi per dolci… Non ci sono limiti alle preparazioni: dalla salsa alla carbonara alla base per gelati, dal pollo succulento al punto giusto per una Ceasar’s salad a un arrosto di vitello». Oltre al miglioramento della gestione di acquisti e dispensa, a trarre enormi vantaggi è la programmazione del lavoro: «Si possono ottimizzare i tempi, programmando la cottura quando la cucina non è operativa, oltre a sfruttare al meglio gli spazi- continua Rota-. Si migliorano i tempi di servizio grazie alla diminuzione dei vari passaggi se possiamo contare su una buona “scorta” di basi pronte o cotture solo da ultimare o, ancora, rigenerare. Non mancano i vantaggi indotti, dal minor quantitativo di attrezzature da lavare alla migliore salubrità dell’aria e dell’ambiente in cucina». La cottura avvenendo per conduzione e in sottovuoto, con un’ulteriore garanzia rispetto alla prevenzione di possibili contaminazione batteriche e in atmosfera modificata, esalta  in particolare le carni ricche di collagene o a muscolatura mista: «Tagli come la spalla o il reale stupiscono in morbidezza- continua-. La cottura lentissima fa coagulare lentamente le proteine e rende morbido il collagene. Si esaltano così anche tagli meno pregiati che, grazie a questa tecnica, nulla hanno da invidiare alle parti più nobili. Si possono quindi ampliare le scelte all’interno del menù con tagli desueti ed economici, difficili da lavorare con tecniche tradizionali». La cottura a bassa temperatura può essere sostitutiva e migliore rispetto alle tecniche tradizionali per arrosti o bolliti, alternativa per la preparazione di alcune verdure o ricette di mare, con i vantaggi però di una maggiore vita e conservazione perfetta: «L’ossidazione è azzerata e i colori risultano così vivi e brillanti, una vera gioia per gli occhi- continua lo chef-. Non si disperdono i profumi che sprigioneranno tutta la loro invitante carica quando si aprirà il sacchetto. A essere garantita è anche la compattezza degli alimenti. Il mantenimento dei succhi del pesce sorprende il palato e, tra i plus, c’è la possibilità di cotture confit o in liquidi di governo. Nel caso delle verdure si può andare a migliorare la texture, oltre al taglio e al colore; è particolarmente interessante anche l’aromatizzazione con l’osmosi».  I vantaggi sono considerevoli sul fronte della sicurezza alimentare:«Viene totalmente inibita la proliferazione batterica aerobica e si azzerano anche i rischi di contaminazione incrociata». Per arrivare a ottenere il meglio da questa tecnica di cottura serve però investire tempo e risorse in sperimentazioni: «Il superamento del punto di cottura è difficile con questa tecnica, ma non impossibile- spiega il docente-. Può capitare più frequentemente con le carni bianche o grigie che in overcooking subiscono in modo deciso la denaturazione delle proteine, risultando spappolate al palato. La conoscenza della materia prima è fondamentale, penso all’età dell’animale, al tipo di allevamento e alla frollatura nel caso delle carni. Ad essere insostituibile è però la bilancia oltre al metro: va sempre valutata con cura la pezzatura che si va a cuocere, non solo in termini di peso, ma, ovviamente di spessore. Una volta messi a punto tempi e modalità non resta che vivere in un certo senso di rendita, perché si possono avviare con successo diverse preparazioni incrementando in modo considerevole l’efficienza in cucina». Molta attenzione va prestata nella preparazione che precede il tuffo in vasca in sottovuoto: via libera quindi a marinature, affumicature e all’utilizzo di grassi neutri o aromatizzati:«Un limite, se così lo si può definire, della cottura a bassa temperatura è che le spezie per esprimersi al meglio vanno tostate: un escamotage di successo può essere il ricorso  a oli speziati- precisa Rota-. Anche vini e altri alcol vanno de-alcolati preventivamente tramite bollitura, per scongiurare il rischio di trasmettere aromi amari o sgradevoli. Vanno usati con cura anche succhi ricchi di enzimi, in particolare zenzero, kiwi e ananas, che possono andare ad alterare o scomporre le fibre proteiche». La stessa cura della preparazione va posta nella conservazione: «Una volta che il nostro alimento è stato cotto se non viene consumato immediatamente si può scegliere se cuocere e abbattere a temperature positive (comprese tra 0 e 2 gradi), abbattere e freezare a 18 o 20 gradi sottozero oppure decidere dopo opportuna abbattitura di lavorare l’alimento a freddo e successivamente congelare (cook,chill and freeze)». Nonostante i benefit superino di gran lunga le difficoltà, non manca ancora una certa resistenza da parte della ristorazione: «Persuadere gli chef a volte non è semplice- allarga le braccia Rota-. Sono comunque sempre più i cuochi ad annoverare la tecnica tra quelle insostituibili. Fatta eccezione per i cereali e i suoi derivati che non risultano così gradevoli cotti a bassa temperatura e tagli di carne che richiedono cotture rapide e ad elevate temperature, i plus sono davvero tanti. E non solo per il gusto, ma per la resa, l’azzeramento degli sprechi, il miglioramento di spesa e dispensa e un notevole risparmio sul combustibile». 




Gennaro Esposito: “Ricerca e avanguardia, con Città Alta nel cuore”

È un rinomatissimo chef napoletano, diventato famoso al grande pubblico per la partecipazione a tanti programmi televisivi dedicati ai fornelli. Gennaro Esposito, classe 1970, si avvicina alla cucina da giovanissimo: dopo il diploma alla scuola alberghiera, comincia a studiare con Giancarlo Vissani,  incontrato casualmente per i corridoi di Vinitaly. Lo chef umbro invita Gennaro a fare uno stage presso di lui: è la scoperta di un mondo nuovo, fatto di creatività. Poi il napoletano passa a lavorare nei ristoranti dell’alta cucina di Montecarlo e Parigi di Franck Cerutti e Alain Ducasse, imparandone i segreti. Decide di tornare nella sua terra per mettere in pratica gli insegnamenti acquisiti all’estero e, nel 1992, inaugura il ristorante La Torre del Saracino alla Marina di Seiano, frazione di Vico Equense, che conquista due stelle Michelin e tre forchette Gambero Rosso. Il suo talento è riconosciuto nel forte binomio tra veracità e innovazione. Ma Gennaro Esposito ha anche un passato e ricordi legati a Bergamo.

Esposito, quando ha vissuto a Bergamo e quali sono i suoi ricordi?

Io e la mia famiglia abbiamo vissuto nel cuore di Città Alta, quando allora era considerata un sobborgo e il sogno dei bergamaschi era vivere nei palazzi, nei condomini. Eravamo emigranti, io ero un bambino e mio papà lavorava all’Italcementi. Non era facile integrarsi nel tessuto sociale, ma poi ricordo che ce ne siamo andati piangendo. Si era creata una bellissima chimica. Mia mamma, armata di coraggio e amore, cucinava tanto, per lei era un modo per farci sentire il calore in un momento difficile lontano da casa e dai nostri cari. Ricordo i panini imbottiti che prevarava a me e mio fratello e i panini dei nostri compagni.

E’ stata sua mamma ad appassionarla alla cucina?

Era una bravissima cuoca, come tante mamme, che ti emozionano con poco, anche solo un uovo e una lattuga, con quelle piccole dotazioni che riescono a rendere grande la cucina italiana, caratterizzata da prodotti semplici e interpreti che la rendono incredibile. Bastano fagioli, patate, cipolle e tanta intelligenza e abilità. La nostra è la cucina dei due dopoguerra, del poco e del sacrificio. Oggi deve essere recuperata nel segno della sostenibilita, del rispetto degli ingredienti e contro lo spreco.

A proposito, secondo lei, contano di più gli ingredienti o la fantasia e le idee?

La buona tavola è una magia di tutte queste cose. C’è chi, con gli stessi ingredienti, prepara dieci piatti, chi non riesce a farne nessuno. I prodotti ti danno tanti spunti, però la tecnica, la conoscenza, la sapienza ti aiutano a dipingere degli acquerelli fatti di sapori meravigliosi.

Veniamo all’eterno dilemma: pasta liscia o rigata e perché?

Viviamo nell’epoca delle percezioni e, a volte,  questo porta a credere che la pasta rigata trattenga meglio il sugo. In realtà, la pasta rigata è imperfetta per sua natura perché il rigo, se lo guardiamo al microscopio, ha una punta e una base: quando le punte saranno cotte, la pasta all’interno sarà ancora cruda e quando le punte saranno perfettamente cotte,  all’interno la pasta si sfalderà inevitabilmente nella salsa e appesantirà la magia dell’incontro della salsa con la pasta. E’ come andare a un incontro galante con una bella donna, riempiendosi di profumo. Il troppo storpia, l’eccessiva presenza di amido rende tutto greve, meno elegante e più pesante.

Però, negli scaffali dei supermercati abbonda la pasta rigata, la liscia è quasi introvabile…

Il supermercato compra quello che il consumatore vuole. Si è perso il ruolo della gastronomia e della salumeria, luoghi dove il cliente comprava ciò che veniva selezionato; il salumiere, da persona esperta e competente, ti avrebbe consigliato la pasta liscia, mentre  nella grande distribuzione il tempo è poco, si asseconda il gusto, se ti lasci trasportare dalla corrente non ottieni niente di interessante. Oggi comanda la pubblicità che non ha nulla a che vedere con la qualità. Gli investimenti riguardano il target più ammiccante, lo spot più divertente o che resti più impresso.

Una influencer australiana ha scatenato una polemica per un menù “blind”, ovvero senza i prezzi per le donne in un ristorante a Venezia, bollandolo come sessista. Cosa ne pensa?

Abbiamo ereditato un catalogo delle buone maniere, lo stesso galateo oggi appare superato, anche se sono regole che hanno un loro fascino. Non ne farei una polemica, conoscere il prezzo è un’informazione che completa la visione di un ristorante, però, se invito una signora a pranzo o cena, vorrei farle capire che non voglio volgarmente mostrare quanto spenderò per lei, ma voglio semplicemente che si senta bene. Se andiamo io e lei a gustarci uno spaghetto in un locale la situazione è diversa e può starci che portino a entrambi il menù con i prezzi. Non esiste un modo, ma esistono tanti modi, purché abbiano a che fare con intelligenza, coerenza e un proprio modo di vedere la vita».

Ha cucinato per i Rolling Stones 

Sì tutto è nato in occasione del concerto evento al Lucca Summer Festival del 2017, quando ci siamo occupati della parte “family and friends”. C’erano ospiti stravip come Madonna e Vasco Rossi che assaggiavano i piatti del nostro brunch (in particolare ci chiesero un pasticcio di carne o shepherd’s pie e della limonata). Mick Jagger, da divo quale è, non uscì dal camerino. A un certo punto, uno dei suoi assistenti gli portò, prima del concerto, un piatto con il mio risotto agli agrumi, zafferano, gamberi e salsa al finocchietto. Quando iniziò il live e i fan si scatenarono sotto le note della storica rock band inglese, mi avvicinò un collaboratore dei Rolling Stones, domandandomi se avessi cucinato io il risotto. Venne da me con un tegamino con il coperchio, tipo schiscetta, chiedendomi quanto ci volesse per ripetere il piatto, risposi 20 minuti. Allora mi disse: “Quando sentirai “I can’t get no satisfaction”, la quart’ultima canzone, vai a prepararlo perché il signor Jagger vuole portarselo via e gustarselo durante il viaggio”. Ha voluto una vaschetta da tre porzioni, la band era rimasta talmente soddisfatta che ha voluto, quest’anno, fortemente ripetere il servizio di catering.

Chi le piacerebbe avere come ospite nel suo ristorante? E cosa gli preparerebbe?

Avevo promesso a Gualtiero Marchesi di cucinargli uno spaghetto alle vongole in bianco e, quando ci sentivamo al telefono, continuavamo a fare tutta una serie di teorie su come andava fatto e cosa bisognasse evitare di fare, perché è un piatto di grande semplicità e di una raffinatezza estrema. Mi dispiace moltissimo non esserci riuscito. Sarebbe stata un’occasione piacevole. Resta, per me, un grande rimpianto.

Lei è stato giudice di “Junior MasterChef Italia”, “Cuochi d’’Italia”, “Piatto Ricco”, conquistando con la sua simpatia il grande pubblico. Quando la rivedremo in tv?

Dico solo che ci sono diversi progetti, ma mi va anche bene dedicarmi di più al mio ristorante.

Qual è il piatto di Gennaro Esposito da provare almeno una volta nella vita?

Adoro la ricerca, l’avanguardia, la tecnica. Mi piace provare accostamenti diversi, anche con gusti a volte estremi, non “diritti”. Ma ho anche un’anima tradizionale che mi scalda tanto, ho un posto nel mio cuore, dove conservo gelosamente le mie visioni di come si interpreta la tradizione, ho sempre provato a migliorarla anche di un millesimo perché mi diverte centrare il gusto primordiale di una ricetta. In tal senso, se pensiamo alla tradizione, potrebbe essere la genovese, il ragù con cipolla e stracotto di carne, piatti che mi ha divertito tanto recuperare. E poi vale la pena sicuramente provare la zuppa di pesce “minestra di pasta mista” con crostacei e diverse varietà di pesce di scoglio, che quando la mangi ti sembra di averla già incontrata nella tua vita. Racconta il territorio, il pesce, la zuppa. Conquista il palato di un bambino come quello di un ottantenne. E tutti sono felici.




Vincanto, una targa in ricordo di Gian Battista Bolognini, patròn della “Trattoria Bolognini”

Omaggio al ristoratore, promotore della tipicità e ambasciatore dei prodotti locali,  scomparso all’improvviso

«A ricordo di Gianbattista Bolognini. Ristoratore e viticoltore (6 gennaio 1950-19 febbraio 2022). Per la sua passione, dedizione e umanità nel promuovere il territorio»: è questo il messaggio inciso sulla targa alla memoria del ristoratore Bolognini che sabato 25 giugno è stata consegnata alla famiglia nella Sala consigliare del Municipio di Carvico, ex palazzo Medolago Albani, in occasione della manifestazione “Vincanto – Percorso d’avvicinamento e degustazioni dei vini del Monte Canto”. La manifestazione , nata con l’obiettivo di valorizzare l’enogastronomia locale, è stata l’occasione per rendere omaggio al ristoratore Gian Battista Bolognini scomparso nei mesi scorsi all’età di 72 anni. Una morte improvvisa, che ha destato profondo dolore nei tanti che lo conoscevano e non solo nella moglie Grazia e nei figli Cristian e Romina (e i quattro nipoti) con cui Bolognini portava avanti la storica trattoria omonimia, a due passi da Sotto il Monte, da oltre 70 anni punto di riferimento per la cucina bergamasca dell’Isola, non a caso insignita nel 2017 del riconoscimento di Attività storica della Regione Lombardia.

«Battista era un uomo semplice e perbene, schietto, sempre sincero, attento e rispettoso delle istituzioni. Si faceva voler bene dappertutto, anche in Ascom – ricorda Oscar Fusini, direttore di Ascom Confcommercio Bergamo -. Era una persona semplice ma intelligente e, a suo modo, geniale. Fu il primo con i figli Cristian e Romina a capire come il prodotto tipico potesse fare la differenza a tavola, facendo il percorso inverso dell’agriturismo, cioè da ristoratore ad agricoltore, per fornire i propri prodotti a km 0 in cucina e coronando con questo anche quella sua grande passione per la terra che lo portava a lavorare nella sua vigna. Alla sua amata famiglia rivolgiamo un grande abbraccio da tutta la nostra Associazione e questa targa è un modo per mantenere vivo il ricordo di un grande uomo».




Vincanto: a Carvico protagonista tutto il buono dell’Isola e della Valle San Martino

Da domani a domenica al Parco Serraglio degustazioni dei vini del Monte Canto e menù tipici del territorio.

Vino e buon gusto a km 0 per mettere in mostra tutto il buono dell’Isola e della Valle San Martino. Da oggi a domenica al Parco Serraglio di Carvico si alza il sipario su Vincanto, Percorso d’avvicinamento e degustazioni dei vini del Monte Canto con vini e menù tipici del territorio. Alla sua prima edizione, Vincanto è un evento focalizzato sul territorio, pensato dalle Proloco di Carvico, Sotto il Monte e Villa D’Adda e con il patrocino dei tre Comuni coinvolti che hanno deciso di unire idee e forze per proporre una quattro giorni dedicata all’enogastronomia locale.
Al parco saranno infatti ospiti le cantine e i ristoratori dei paesi del territorio che ogni sera proporranno menù e vini tipici: i piatti degli chef (del Ristorante La Corte del Noce, Ristorante Cà Maitino, Trattoria Visconti, Locanda Mandelli, Dolceria Fatur Cisano, Hotel Ristorante Fatur, Cascina Rigurida, Taverna Covo dell’Artista, Yoog-Le Golosità Sotto il Monte) saranno accompagnati dai vini delle cantine locali (Azienda agricola La Cà, Azienda Agricola Tosca, MezzaRipa, La Cantina Il Vigneto La Cascina, Cantina Val San Martino, La Rossera azienda agricola, Azienda Agricola Sant’Egidio, Azienda Agricola Tassodine).

Sarà possibile anche partecipare ad un percorso di avvicinamento ai vini che si terrà per tre serate (ore 20.30 – 22.00) a numero chiuso (costo iscrizione 50 euro per tre serate: vini rossi, vini bianchi, spumanti. Iscrizione presso Ca’Bùsa Social bar 34929637909). Sempre presso Ca’ Busa Social Bar tutte le sere, dalle 19 alle 23, accesso libero alla degustazione di vini, ad un costo di 10 euro. Ad accompagnare ogni serata anche musica ed eventi culturali.

La consegna della targa alla famiglia Bolognini

Durante «Vincanto» anche la cultura farà la sua parte e la Sala consigliare del Municipio di Carvico, ex palazzo Medolago Albani, ospiterà diverse serate: si comincia giovedì (ore 21.30) con la consegna della targa di riconoscimenti agli eredi del viticoltore Riccardo Terzi, mentre sabato (ore 18) alla famiglia Bolognini della storica trattoria omonima. “A ricordo di Gianbattista Bolognini. Ristoratore e viticoltore (6 gennaio 1950-19 febbraio 2022). Per la sua passione, dedizione e umanità nel promuovere il territorio” è il messaggio inciso sulla targa.

“Battista era un uomo semplice e perbene, schietto, sempre sincero, attento e rispettoso delle istituzioni. Si faceva voler bene dappertutto, anche in Ascom – ricorda Oscar Fusini, direttore di Ascom Confcommercio Bergamo -. Era una persona semplice ma intelligente e, a suo modo, geniale. Fu il primo con i figli Cristian e Romina a capire come il prodotto tipico potesse fare la differenza a tavola, facendo il percorso inverso dell’agriturismo, cioè da ristoratore ad agricoltore, per fornire i propri prodotti a km 0 in cucina e coronando con questo anche quella sua grande passione per la terra che lo portava a lavorare nella sua vigna. Alla sua amata famiglia rivolgiamo un grande abbraccio da tutta la nostra Associazione e questa targa è un modo per mantenere vivo il ricordo di un grande uomo”.

Tra le altre iniziative si ricorda anche la presentazione dei volumi “Casoncelli” e “Stracchini” editi dal Centro Studi Valle Imagna dell’autrice Irene Foresti (venerdì ore 17.30). Si chiude domenica (ore 10.30) con la presentazione del volume “Oltre il confine, narrare la Val San Martino” – completamente tradotto in inglese – in collaborazione con la storica Cantina Val San Martino di Pontida, la prima costituita nella Bergamasca.

Orari: giovedì, venerdì e sabato dalle 19 alle 23; domenica dalle 10 alle 16.30. L’ingresso al parco è libero.

 

 

 

 

 




Addio a Pierangelo Cornaro, lo chef-ristoratore che ha fatto scuola

Bergamo saluta l’indimenticato chef-patron della Taverna Colleoni e Dell’Angelo

Bergamo saluta Pierangelo Cornaro, chef-patron che ha fatto grande la ristorazione, promuovendo l’arte dell’accoglienza e della cucina gourmet. Con il suo savor faire inconfondibile sapeva accogliere ai tavoli e illustrare al meglio ogni singola portata. E in cucina, dopo aver collezionato importanti esperienze all’estero, portava innovazione e respiro internazionale. Dopo il diploma, negli anni Sessanta, partì per lavorare all’estero in importanti strutture ricettive e ristoranti in Germania, a partire dal Kempisky di Berlino, e poi in Polonia, Danimarca, Svezia, Francia ed Egitto. Tornò a Bergamo nel 1973, richiamato all’ordine da papà Giuseppe, che gli affidò la gestione della storica insegna di famiglia, il “Dell’Angelo” di Borgo Santa Caterina, ristorante apprezzato per la cucina tipica tradizionale. Con la sua gestione il locale si trasforma, si sgancia dalla tradizione e vira su una cucina gourmet di respiro internazionale. Dopo due anni, nel 1978, conquista la prima stella Michelin, riconoscimento riconfermato fino al trasferimento in Piazza Vecchia, dove inizia il successo della “Taverna Colleoni dell’Angelo”. Pierangelo Cornaro, che avrebbe compiuto ad agosto 77 anni, è stato un rappresentante impegnato della ristorazione, ricoprendo per molti anni e mandati consecutivi il ruolo di consigliere del Gruppo Ristoratori Ascom, fino al 2016. “Era sempre pronto a collaborare con l’associazione e a mettere al servizio dei colleghi la sua esperienza, senza mai risparmiarsi- lo ricorda così il direttore Ascom Oscar Fusini-. Ha cresciuto e fatto diventare grandi chef e maitre che ora tengono alta la bandiera della ristorazione bergamasca nel mondo”. Petronilla Frosio, presidente del Gruppo Ristoratori Ascom lo ricorda come “un maestro”. “Molti ragazzi che hanno iniziato da lui hanno avuto carriere davvero brillanti- sottolinea Petronilla Frosio, che non dimentica come tra gli chef in erba diventati illustri, cresciuti con Cornaro, ci sia anche suo fratello Paolo, una stella Michelin “Da Frosio” ad Almè-. Ha anticipato i tempi, svecchiando e rivoluzionando la cucina bergamasca, con piatti dal respiro internazionale. Non si è mai risparmiato per la categoria, contribuendo a tutelare, oltre che a fare grande, la nostra ristorazione”. I funerali di Pierangelo Cornaro, che lascia la moglie Ivana e il figlio Nevio, suo braccio destro, da sempre a fianco alla Taverna del Colleoni, si svolgeranno oggi, 16 giugno, alle 15 in Duomo, in Città Alta.

*nella foto, scattata per Ingruppo, Pierangelo Cornaro a sinistra con il figlio Nevio