Il giudice di Masterchef e Home Restaurant fa il punto sul futuro della ristorazione in un’intervista a tutto campo
Entriamo in scivolata a freddo, nel mezzo di un soleggiato pomeriggio londinese. In Inghilterra, come in Italia, tanti ristoranti sono chiusi il lunedì, ed è il giorno di “corta” anche per Giorgio Locatelli che, tra un set televisivo e l’altro, ci risponde dalla sua Locanda – primo ristorante italiano stellato all’estero – dove ha appena provato a convincere l’addetto alla spesa di un albergo di lusso, cui lui fa consulenza, che se un Parmigiano Reggiano invecchiato 36 mesi costa il doppio di un 12 mesi, è del tutto normale. «La qualità dei prodotti italiani è altissima – dice – ma bisogna ancora insegnare alla gente come riconoscerli, purtroppo anche agli addetti ai lavori». Il takle, però, è in agguato e arriva subito alla prima domanda sul successo della trasmissione “Home restaurant” condotta dallo chef su TV8.
Lo sa quanti nemici si è fatto, in Italia, tra i suoi colleghi, sponsorizzando gli home restaurant in televisione?
Dice davvero? No, non penso: stiamo parlando di due esperienze completamente diverse, quasi agli opposti. L’home restaurant è andare a trovare qualcuno, volerlo conoscere, vedere cosa succede in casa; non c’è una carta, o una proposta internazionale, ma un menù già deciso, che è l’espressione della persona che vive in quella casa.
L’atmosfera è diversa, su questo siamo d’accordo. Resta però un’alternativa al ristorante.
Non credo che l’home restaurant possa cannibalizzare i clienti dei locali. Dopotutto, sono talmente poche le persone che si possono trovare a cena in un appartamento, che il problema non esiste. L’idea è quella di passare una serata diversa e di esplorare un modo nuovo di stare insieme. E per chi cucina non può essere un business: di soldi ne circolano pochi.
Un hobby, più che una nuova occupazione?
Sì. Io per esempio ho incontrato persone che sapevano tutto di whisky, o che andavano matte per un ingrediente, o una ricetta. Il contesto è molto personale, familiare, anche nel servizio.
Lo sviluppo degli home restaurant può essere legato alla riscoperta della cucina che tutti noi abbiamo vissuto durante il lockdown?
Sì, sicuramente il Covid ci ha cambiato tantissimo, anche nella maniera con cui facciamo la spesa. Ha avuto un impatto sulla nostra vita che forse capiremo bene solo tra qualche anno. Un tempo a Londra gli home restaurant venivano organizzati perlopiù dai giovani che, non avendo tanti soldi, facevano una colletta, andavano a fare la spesa e tornavano a cucinare quello che avevano comprato. Adesso si sono evoluti e ce ne sono di più. Ma non possiamo parlare di vere e proprie aziende.
Ha mai mangiato male nelle case che ha visitato per la sua trasmissione?
Ne ho provate 25 in giro per l’Italia e devo dire che lo standard è molto buono. Il programma è nato da una cosa che accomuna tutti gli chef: nessuno li invita mai a cena, per paura delle critiche. Questo però è sbagliato perché quando i cuochi vanno a cena da qualcuno, piuttosto che fare una lamentela, si mettono qualcosa in tasca, se proprio non è buona da mangiare. A me l’idea è piaciuta subito: entrare nelle case degli italiani è un po’ come prendere il polso della cucina familiare tradizionale, e raccontare uno spaccato della cultura del mangiare in Italia, che ci contraddistingue nel mondo. Nessuno cucina meglio della mamma, e questo è un valore grande che noi italiani abbiamo ancora. Altrove la gente non fa più da mangiare, mentre da noi questa passione per la cucina fa parte della nostra identità. E devo dire che sono rimasto lusingato e a volte straordinariamente colpito da pranzi o cene molto piacevoli. Qualcuno ha preparato piatti che potrebbero essere serviti in un ristorante stellato.
La cucina familiare resta la spina dorsale della ristorazione italiana che però in questi anni ha sofferto tanto.
Chi ha subito di più gli effetti della crisi sono i ristoratori in affitto. Le attività storiche, quelle a conduzione familiare, i cui titolari sono proprietari anche dei locali, hanno sofferto meno e in percentuale sono quelli che sono sopravvissuti di più.
Ci siamo risvegliati dalla pandemia con il problema del personale. Oggi sembra che più nessuno voglia lavorare nei ristoranti.
È un problema che abbiamo anche noi: la Brexit ha fermato il flusso di talento europeo, e specialmente italiano, di persone che venivano anche per imparare l’inglese. Oggi è più difficile che i ragazzi arrivino solo per lavorare.
Anche in Italia i ristoratori fanno fatica ad assumere. Com’è possibile?
Oggi si criticano tanto i giovani, ma credo che questa sia un’idiozia: i ragazzi di oggi sono molto più intelligenti, maturi, onesti e aperti al mondo. Arrivano a lavorare dopo aver studiato e la qualità è altissima. Dobbiamo solo invogliarli; c’è chi dice che non vogliono lavorare il sabato e la domenica, ma non credo che sia così. Chi nasce con la passione della cucina, sa che il fine settimana si lavora: se io non lavoro a Natale mi sento male.
E allora, dov’è il problema?
Serve motivare il proprio personale e fargli intravvedere una carriera. Io, per esempio, non ho problemi in cucina, ma nel servizio. Dobbiamo entrare nell’ottica che il nostro non dev’essere un lavoro da matti. Oggi è un po’ così: si parte alle 9 del mattino e si rientra alle 2 di notte. Se vogliamo farla diventare una professione seria, dobbiamo accettare il fatto che la gente sia pagata bene per lavorare il giusto. Dobbiamo vendere ai giovani questo mestiere come una carriera.
Senza alzare i prezzi, come si fa?
Bisogna far pagare ai clienti per il servizio che riusciamo a dare. Il mondo è cambiato e oggi la vita media di un ristorante a Londra è molto più breve che in passato: il 40% fallisce entro un anno e gli altri chiudono quasi tutti prima dei 5 anni di attività. Chi riesce ad andare avanti è spesso finanziato da qualcuno.
I giovani che entrano in cucina sono meno improvvisati di un tempo?
Sicuramente. Gli improvvisati sono di più in sala: si inizia un po’ così, poi si scopre che si può fare carriera e si prosegue. Noi cuochi e maȋtre d’hotel dobbiamo lavorare proprio su questo: far diventare questo mestiere una professione.
Manca la formazione per il personale di sala?
No, manca la gente che vuole diventare cameriere, perché in tanti lo vedono come un lavoro che non dà un futuro. Non a caso gli istituti alberghieri hanno diminuito le classi di sala e aumentato quelle di cucina.
Questo grazie anche a voi di Masterchef.
Grazie a noi, forse, ma anche al “sistema Italia” che in 20 anni è cambiato molto. Siamo in un momento molto positivo per quanto riguarda, per esempio, i prodotti di qualità e dobbiamo cercare di cavalcarlo, questo momento. Le copie, l’Italian sounding, purtroppo ci saranno sempre. Noi però dobbiamo cercare di far capire alle persone qual è la differenza, e ciò può arrivare con la serietà nel trattare il prodotto e con l’insegnamento. Dopodiché, quando fai da mangiare bene, la gente se ne accorge e se lo ricorda. Sappiamo tutti riconoscere qualcosa di buono.
E qui torniamo ai prezzi, che secondo alcuni ristoratori andrebbero alzati.
Non lo so, dipende dai locali e dalle proposte: io pago mezzo milione di sterline all’anno di affitto, faccio 50 mila coperti e so che ogni cliente mi costa 10 sterline solo d’affitto. Poi c’è chi è proprietario del suo locale e chi riesce a mantenere un prezzo competitivo perché è più bravo degli altri. Certo, invece di proporre una carta con 30 piatti, ne bastano 5 fatti bene, e questo è un trend che ho notato molto in questi anni. Oppure ci sono ristoranti che propongono dei menù degustazione, magari anche di 15-16 portate, o altri che si specializzano in qualcosa. Così si possono tagliare costi di personale e di approvvigionamento.
La soluzione sta nei menù più corti?
Sì, magari focalizzati sul prodotto stagionale, per risparmiare ed evitare gli sprechi. Ognuno, poi, deve trovare il suo parametro e bisogna tenere conto anche della tipologia di ristorante: il mio è in centro a Londra e quando un mese fa ho tolto il pollo dalla carta – perché il nostro fornitore, che li alleva solo per il mio ristorante, non riusciva a starmi dietro – ho dovuto discutere con mia moglie, perché giustamente mi diceva che in un posto internazionale come il nostro, non possiamo obbligare la gente a mangiare solo carne rossa. Altrimenti, ripeto, bisogna specializzarsi ed è quello che stanno facendo tanti nuovi ristoranti stellati italiani.
E i clienti come reagiscono?
Sinceramente non so se la gente è pronta a capire questo passaggio; certo sarebbe molto più semplice se tutti i ristoratori si orientassero in questo senso.