Quando il panettone si fa opera d’arte

Il Panettone Marchesi 2023 sostiene i giovani artisti di Laboratorio 31 Art Gallery. All’interno di ogni Panettone per l’Arte una cartolina d’artista originale e autografata

L’edizione limitata del Panettone Marchesi 2023 – Made in Bergamo, vincitore nella scorsa edizione di Panettone Day come miglior panettone della Lombardia, sposa l’arte, grazie alla collaborazione con il Laboratorio 31 Art Gallery di Bergamo, in Via Broseta. All’interno della confezione regalo Panettone Marchesi per l’Arte infatti sarà presente una cartolina d’artista originale ed autografata, realizzata da uno dei 18 artisti emergenti. “L’Arte troppo spesso viene veicolata in modo elitario, come se non potesse rendere più bella la vita di tutti e in modo quotidiano- spiega Roberto Marchesi titolare del Panificio Marchesi di Bergamo-. Il nostro tentativo qui è quello di una contaminazione che cominci proprio con il nostro Panettone, solitamente condiviso tra persona che si vogliono bene e nel giorno più importante dell’anno. Una sorta di palcoscenico privilegiato per i nostri giovani artisti” . Un’occasione speciale per portare giovani artisti e le loro opere nelle case nei giorni di festa: “Una collaborazione che ci rende davvero orgogliosi- sottolinea Sara Bonacina, Responsabile Laboratorio 31 Art Gallery-.  Vogliamo presentare in
questo modo simpatico e originale i nostri artisti emergenti; ogni stampa all’interno dell’edizione limitata del Panettone, rappresenta l’opera dell’artista sotto forma di cartolina in edizione limitata, firmata e numerata dall’artista. Ogni cartolina rappresenta un’opera originale, sia essa una fotografia, una stampa o un’opera pittorica, che è possibile vedere dal vivo nella nostra Galleria di Bergamo”. Il Panettone Marchesi per L’Arte, disponibile in ben 9 varianti di gusto- dalla tradizionale per i puristi, ai mirtilli, da lampone e cioccolato bianco a pere e cioccolato, alla versione noir con cioccolato fondente- verrà venduto nei negozi di Borgo Palazzo e Boccaleone, presso la Galleria Laboratorio 31 e online sul sito dedicato, è vivamente consigliata la prenotazione vista la tiratura limitata.


Letture gustose: quando i romanzi parlano di cibo

Ci sono romanzi curiosi il cui il cibo, la cucina e i cuochi sono protagonisti e soddisfano non solo il palato ma anche i bisogni dell’anima. Andiamo a scoprirli.

Le pietanze raccontate conquistano i lettori. I protagonisti dei romanzi da gustare sono spesso cuochi o aspiranti tali, pasticceri o critici gastronomici. E gli eventi narrati si svolgono in buona parte tra forni e fornelli delle loro cucine. Piace il ristorante e piace la visione del cuoco come di un mago dei sensi capace di soddisfare i bisogni dell’anima. E non importa se sia uomo o donna, professionista o autodidatta, famoso o no. Il suo fascino è indiscutibile.

Ecco quali sono i libri da mettere nella vostra dispensa.

“Il ristorante dell’amore ritrovato” di Ito Ogawa

Il cibo può essere la medicina del cuore. Lo dimostra la storia raccontata dalla scrittrice giapponese nel suo romanzo d’esordio. La protagonista è Ringo, una ragazza che lavora nelle cucine di un ristorante turco di Tokyo; una sera rientra a casa e scopre che il fidanzato se ne è andato. Sconvolta, torna al villaggio natio, dove apre un ristorante per non più di una coppia al giorno con un menu ritagliato sulla fisionomia e i possibili desideri dei clienti. Con l’aiuto di Kuma-san, l’ex factotum della scuola elementare, Ringo inaugura il Lumachino. La prima cliente è la Concubina, triste amante di un influente politico locale, passato a miglior vita anni prima. Sulla tavola, in un tripudio di colori, odori e bontà senza pari, si alterneranno piatti gustosissimi che attingono alle cucine giapponese, italiana, cinese e francese su tutte. La vedova ritroverà la gioia; poi una ragazza conquisterà il cuore dell’amato, una coppia gay in fuga vivrà una luna di miele, un uomo scontroso si trasformerà in un gentiluomo. Tutto merito del ristorante dell’amore ritrovato.

“L’inconfondibile tristezza della torta al limone” di Aimée Bender

Cucinare per gli altri è una manifestazione d’affetto. Non basta la tecnica, c’è bisogno di cura e attenzione. Rose Edelstein, la protagonista del romanzo della scrittrice americana Aimée Bender, possiede un dono speciale: attraverso ogni boccone di cibo, coglie le emozioni provate da chi lo ha preparato. Lo scopre il giorno del suo nono compleanno: mentre assapora una fetta della squisita torta al limone, la sua preferita, preparata dalla mamma, sente una sorta di vuoto e inquietudine. Da quel momento, Rose entrerà in contatto con la molteplicità delle emozioni umane. Ricco di descrizioni e dettagli, il romanzo si muove con agilità su un terreno scivoloso, quello delle apparenze, dei rapporti umani e degli universi che ognuno di noi si trascina dentro, quasi sempre sconosciuti a chi ci sta accanto. E’ così che Rose scoprirà che i dolci della pasticceria vicino casa sanno di rabbia e il cibo della mensa di frustrazione e noia; l’unica soluzione è l’asettico cibo industriale.

“Ricette immorali” di Manuel Vásquez Montalbán

Un delizioso ricettario che riunisce 62 piatti, alcuni elaborati, piccanti e dalla lunga preparazione, altri semplici. Si va dagli spaghetti alla checca arrabbiata di Ugo Tognazzi, ricchi di peperoncino che devono la loro origine a una ricetta preparata per l’amante al quale si voleva far conoscere il fuoco dell’inferno nascosto nella pasta. Un omaggio a Roma sono le frittelle ai fiori di zucca. Il purè di tartufi, invece, pare sia stato utilizzato da Elisabetta II per far convogliare a nozze i suoi eredi più difficili, tra i quali Carlo con Diana. E poi ci sono le animelle di vitello Trianon (dal nome del parco di Versailles), piatto aristocratico che veniva servito nei banchetti dell’Eliseo fino a quando non ha preso piede la nouvelle cuisine. I più potenti politici lo utilizzavano per deliziare le mogli dei diplomatici al fine di ottenerne vantaggi. Ma c’è anche un gustoso e sano pane e pomodoro. Il cibo abbraccia gli aspetti sensuali della vita, spingendoci alla ricerca di un partner perfetto con cui condividere i piaceri, anche della tavola.

“Estasi culinarie” di Muriel Barbery

Monsieur Arthens, il più potente e temuto critico gastronomico del mondo, è sul letto di morte. E’ un uomo duro nei suoi giudizi, una persona arida e spietata con gli altri, di un cinismo che sfiora livelli indicibili, tanto che persino i suoi figli lo evitano. Vive con la moglie in un lussuoso appartamento parigino in rue de Grenelle. Nelle ultime ore della sua esistenza inizia un viaggio nella memoria dei sapori, tra ricordi lontani eppure così presenti, perché l’unica cosa che realmente desidera è ritrovare il sapore per eccellenza, quel sapore primitivo che vorrebbe sentire in bocca nel momento estremo. Il suo ultimo desiderio è, infatti, legato a un sapore. Esteta del gusto, Arthens ripercorre la sua vita, seguendo una mappa geografica olfattiva, tattile, gustosa, visiva e così riconquista i colori e i profumi dell’orto di sua zia, il piacere di addentare un pomodoro ancora tiepido per il sole del mattino, i sontuosi banchetti.

“Chocolat” di Joanne Harris

Ispiratore dell’omonimo film con Juliette Binoche e Johnny Depp, il romanzo racconta la storia di Vianne Rocher che, accompagnata dalla figlia Anouk, arriva a scombussolare la vita nel tranquillo villaggio nel centro della Francia di Lansquenet; in breve tempo, Vianne, simpatica e sexy, rileva una vecchia pasticceria, che ribattezza ”La celeste praline”, ma presto attirerà le attenzioni degli abitanti del paesino. I clienti che la frequentano sono i più disparati e per ognuno Vianne sa trovare il dolce preferito. L’apertura del negozio, però, suscita su Vianne anche le antipatie del sacerdote Francis Reynaud che fa di tutto per ostacolarla nella gestione del suo negozio. La donna non frequenta la chiesa ma, a modo suo, aiuta chi ha bisogno. Inevitabile lo scontro tra benpensanti e golosi, tra carnevale e Quaresima, tra le delizie terrestri offerte da Vianne e quelle celesti promesse da padre Reynaud.

“La maga delle spezie” di Chitra Banerjee Divakarun

Il romanzo è una sorta di favola ambientata a Oakland, in California. Un’anziana indiana, Tilo, è la maga delle spezie che vende nella sua bottega. Alla ricerca del sapore più squisito o del sortilegio più sottile, sfiora polveri, semi, foglie, bacche e la magia le permette di aiutare chi si è lasciato l’India alle spalle. La sua storia inizia in uno sperduto villaggio dove, quando era una bambina, i pirati la rapirono, attratti dai suoi arcani e misteriosi poteri, per portarla su un’isola stregata. Lì Tilo ha imparato la magia delle spezie che in America le permetterà di aiutare chi, come lei, ha lasciato il suo Paese. Le spezie ubbidiranno sempre alla maga, ma in cambio lei dovrà usarle solo per aiutare il prossimo e mai sé stessa, inoltre dovrà dedicare la sua vita al negozio che le è stato assegnato, senza poterlo lasciare, e senza potersi legare a nessuno. Tilo arriverà in California e trascorrerà la sua vita in tranquillità. Finché inizierà a essere affascinata da un uomo, allontanandosi dalla sua missione e le spezie inizieranno a rivoltarsi contro lei, ma soprattutto contro i suoi clienti.

“Kitchen confidential” di Anthony Bourdain

Famoso per aver incarnato genio e sregolatezza, Bourdain è stato uno dei cuochi più famosi di New York. Il suo libro, che ha ispirato una serie tv con Bradley Cooper, è il racconto di un’avventura culinaria, uno sguardo dietro le quinte che rivela gli orrori della ristorazione, gli ideali traditi e quelli realizzati. L’autore offre al lettore agghiaccianti informazioni su quanto accade all’interno di una cucina (anche quella dei ristoranti più famosi): episodi accaduti realmente, conditi da uso di droghe e soprusi, intervallati da consigli culinari, come la scelta dei coltelli da acquistare o come presentare le pietanze. Sullo sfondo, tanto cibo: dall’antipasto al primo piatto fino ai dessert, senza dimenticare caffè e sigaretta. Ma nonostante il dietro le quinte spietato, Bourdain ci ricorda che il nostro corpo non è un tempio, ma un parco divertimenti e non dobbiamo condannarlo a una vita di rigore e castità alimentare.

“Manuale di cucina sentimentale” di Martina Liverani

Leggero e ironico questo romanzo parla di amore e amicizia ai tempi dei food addicted tra scatti ai piatti con il telefonino condivisi sui social. Le trentenni protagoniste sono diversissime a tavola: Cecilia, una foodblogger imprigionata nel corpo di un avvocato, è una millefoglie di tofu marinata con crema di radice di prezzemolo e pâte di pomodori biologici che coltiva sul suo terrazzo, Agata, una giornalista di moda sovrappeso con l’ossessione della dieta, è un hamburger di fassona piemontese, con maionese light e patatine fritte (in fondo sempre verdura è) e Tessa, integralista del biologico e del chilometro zero, è una carbonara incerta sulla pancetta al posto del guanciale, sul pepe sì e il pepe no e su uovo intero o solo tuorlo. In comune, hanno un rapporto di amicizia che trova nella cena del venerdì sera, condivisa e preparata insieme, la sua forza.

“Le ricette della signora Tokue” di Durian Sukegawa

Esiste una ricetta della felicità: è una questione di spezie e calore, di ascolto e confessione, di zucchero, briciole di sogni e un pizzico di sale. «Si tratta di osservare bene l’aspetto degli azuki. Di aprirsi a ciò che hanno da dirci. Significa immaginare i giorni di pioggia e i giorni di sole che hanno vissuto. Ascoltare la storia del loro viaggio, dei venti che li hanno portati fino a noi». Questo è il segreto culinario un po’ bizzarro che custodisce l’anziana signora Tokue. Ascoltando la voce dei fagioli rossi si può imparare a fare il ripieno perfetto per i dorayaki, tipici dolcetti giapponesi che ricordano i pancakes, si sciolgono in bocca e fanno dimenticare il peso delle preoccupazioni. Tokue rivela il proprio segreto a Sentaro, un pasticciere in crisi, che accetta di assumerla nel suo laboratorio dopo aver assaggiato la sua sublime confettura di fagioli azuki che fa da ripieno per i dorayaki. E vede gli affari raddoppiare. I dolcetti giapponesi diventano il pretesto per un viaggio interiore. E Tokue rivela al pasticcere anche un altro segreto, quello del suo passato. Impartendo cosí una lezione ben piú preziosa.


Pasta corta e alta ristorazione: il cucchiaio torna di moda

Tubetti, sedanini, conchiglie eliche, maccheroncini tornano a farsi spazio tra i formati più utilizzati e conosciuti. Perché prendere la cucchiaiata di pasta ben condita è assolutamente più goloso.

Frequentando ristoranti e cucine professionali è stato facile osservare come la scelta del formato di pasta da proporre e da utilizzare per i propri piatti sia assolutamente limitata. Nonostante i formati di pasta lunga e corta siano davvero numerosi, la ristorazione di ricerca e non solo propone in prevalenza formati di pasta secca come spaghetti o linguine per quel che riguarda la pasta lunga, mentre per quanto riguarda la pasta corta, prevalgono paccheri, mezzi paccheri, calamarata e fusilli. Tutta pasta liscia, in genere artigianale e bella ruvida, che tiene bene la cottura e anche il condimento. Non è un segreto che in Italia il formato di pasta più apprezzato siano gli spaghetti e, di conseguenza, sia anche il formato più proposto. Ma il mondo della pasta secca merita di più; e cioè che anche altri formati siano valorizzati per bene. Le difficoltà da superare sono tra le più diverse, per lo più legati all’immaginario, come ad esempio il percepire erroneamente alcuni formati come industriali e di bassa qualità. Ma non è così, perché il mondo della pasta secca artigianale propone ormai prodotti di qualità eccelsa, perfetti per la preparazione di piatti tutti da godere.

Ecco che alcuni formati di pasta secca corta che stanno tornando alla ribalta, come i fusilli e i fusilloni, ormai presenti in tantissimi menu.

Si iniziano a vedere nelle carte di alcuni ristoranti anche formati inusuali, perfetti per la preparazione di primi piatti asciutti o brodosi, entrambi da mangiare con il cucchiaio, con la possibilità di gustarli nella loro interezza. Spesso lo spaghetto o il pacchero, seppur ben condito e mantecato, non permette di gustare il piatto con tutti i suoi elementi in maniera facile e immediata; mentre o permettono formati come mezze maniche, tubetti o conchiglie. Pioniere in questo, è lo chef Riccardo Camanini, con il suo ormai celebre piatto di rigatoni cacio e pepe in vescica, ove gli ingredienti vengono fatti cuocere nella vescica di maiale, regalando una cremosità e una mantecatura senza uguali. Sono comunque molti gli chef che stanno re-introducendo i formati di pasta secca corta tra i più diversi, eccezion fatta per le penne che, probabilmente piacciono ancora poco.

I maccheroncini con ragù di quaglia di Filippo Moriggi

I maccheroni sono una pasta che tutti conosciamo; uno dei simboli della cultura gastronomica italiana. La sua forma a tubo lascia penetrare il condimento al suo interno rendendo così il formato perfetto per accompagnare sughi belli cremosi e succulenti, come quello scelto da Filippo Moriggi, chef del ristorante Locanda Viola di Pagazzano (Bg). «Io da sempre scelgo la pasta secca del pastificio Regina dei Sibillini, un pastificio piccolo e artigianale marchigiano, che a me piace molto, li ho conosciuti durante la mia esperienza lavorativa al ristorante Vespasia di Norcia: una pasta che tiene la cottura in modo perfetto, buona, dalla consistenza unica» racconta lo chef. Le quagliette sono quelle selezionate dalla macelleria Cazzaniga di Canonica d’Adda (Bg). Una volta arrivate in cucina vengono pulite, disossate per bene, tagliate a tocchetti e condite con olio extravergine di oliva, sale e pepe. A parte, viene preparato un soffritto a cui viene unito del concentrato di pomodoro, del vino bianco, del Marsala e del fondo di vitello. In ultimo le carni di quaglia, che vengono poi fatte cuocere per circa un paio di ore. Il risultato? Un ragù saporito, in cui ben si percepisce la quaglia, che manteca alla perfezione i maccheroni cotti in acqua bollente. Alla base del piatto una crema di peperone giallo e, per finire, una fonduta di Castelmagno DOP.

Le conchiglie di Filippo Cammarata, metafora di casa

Le conchiglie sono un formato che “sa di casa”, perfetto per accompagnare qualsiasi condimento. Filippo Cammarata, chef dell’Osteria Tre Gobbi di Bergamo, con questo piatto racconta le sue origini, utilizzando condimenti che rappresentano la Sicilia, regione da cui proviene la sua famiglia. Un primo piatto rotondo, goloso, che ricorda, ma solo per il formato, quel piatto di pasta per il pranzo al ritorno da scuola. Le conchiglie sono cotte in acqua bollente e servite tiepide. Accolgono la golosa crema a base di pistacchio e fico d’India. E poi le vongole, mollusco tra i simboli della cucina di mare, appena scottate fino alla loro completa apertura, che si mantengono morbide e gustose. Ecco le conchiglie tiepide, con vongole, pistacchio e fico d’India: da mangiare con il cucchiaio!

Angelo Bonfitto con le eliche celebra la primavera

Angelo Bonfitto è uno dei giovani chef di cui si sente tanto parlare in questi mesi e che adora nel profondo le paste corte. «Non capisco il motivo per cui le paste corte non vengono quasi mai utilizzate nell’alta ristorazione: sono pratiche, comode da mangiare e anche molto golose» racconta lo chef che, da poche settimane, ha rilevato e riaperto lo storico ristorante Zù a Riva di Solto (Bg), sulla sponda bergamasca del Sebino. Le eliche scelte provengono da Gragnano, sono infatti grosse, dalla superficie bella ruvida e dal morso percepibile. Questo piatto ben rappresenta la mano e la sensibilità di Angelo, che all’interno di una vasta proposta a base di pesce, ha scelto di cucinare anche qualche piatto di terra, tra cui questa pasta servita tiepida e condita con una crema di piselli freschi, dei fagiolini croccanti sott’aceto tagliati a rondelle, limone, erbe e fiori. La primavera è servita, in un piatto caratterizzato dal sapore dolce, con un bel vegetale e una decisa freschezza che ne allunga il piacere.

Marco Stagi e i tubetti al ristretto di vongole e schiuma di champagne

Un piatto all’apparenza molto semplice, ma che ad ogni cucchiaiata riserva delle belle sorprese. La pasta è prodotta artigianalmente e proviene dal pastificio dei Campi di Gragnano: una pasta corta secca bella ruvida, che cuoce lentamente e si mantiene croccante anche alla masticazione. Quando affondiamo il cucchiaio nel piatto le sorprese hanno inizio. «Un piatto in cui la cremosità prevale, un modo per rendere elegante un condimento che se abbinato a uno spaghetto si scomporrebbe, creando difficoltà nel gustarlo. Poi è facile da risottare e si manteca per bene» racconta Marco Stagi, chef di Bolle Restaurant di Lallio (Bg). I tubetti, cotti alcuni minuti in acqua, vengono poi mantecati in acqua di vongole, succo di limone e olio al limone. Si uniscono quindi alle vongole cotte appena, che rimangono belle morbide e succose, e a una brunoise di gambi di costa bianca, che regala un poco di croccantezza e l’aroma vegetale. La pasta viene quindi adagiata sopra una crema al latte con orzo. La composizione del piatto termina con una schiuma di Champagne; il vino viene leggermente ridotto al fine di eliminare la parte alcolica, poi in modo molto creativo viene ossigenato e adagiato sopra la pasta, a coprirne tutta la superficie. La marinità si percepisce per bene e si sposa al meglio con il vegetale della costa. La spinta acida del limone rende il piatto fresco, la dolcezza della crema di latte e orzo lo rende ancora più piacevole al palato; per una pasta cremosa e succulenta.

 

I Tubettoni di Sandro Pittelli e il “suo” Sud

Quando Sandro Pittelli racconta delle materie prime del sud Italia, i suoi occhi si illuminano. Questo perché è letteralmente innamorato delle sue origini e dei prodotti che ne derivano. Li utilizza spesso nella creazione dei piatti nel suo Tentazioni Ristorante a Costa Volpino (Bg), che gestisce con il fratello Giacomo. Sandro non è incline all’inseguire le mode: lui cucina per i suoi ospiti, per regalare una profonda soddisfazione gastronomica. E lo fa anche con questi tubettoni lisci di Gragnano, più piccoli sia in diametro che in lunghezza dei paccheri, da mangiare con il cucchiaio. Alla base del piatto viene messa una crema di fagioli del Pollino, piccoli fagioli bianchi tutelati dal Presidio Slow Food. La pasta, dopo la cottura, viene mantecata in una bisque preparata con gli scarti della triglia di scoglio, i cui filetti vengono aggiunti al piatto sotto forma di bocconcini croccanti: le triglie fresche intere vengono sfilettate, poi tagliate a tocchi, impanate e fritte. Il tocco finale, perfetto a livello gustativo e che aggiunge infinita piacevolezza, è dato dall’aggiunta del finocchietto selvatico in polvere: una sterzata che diverte.


Il gomasio, l’alternativa al sale

È un condimento molto usato nella cucina macrobiotica e nella medicina ayurvedica sin dall’antichità. Molto diffuso nelle cucine orientali, sta prendendo piede anche in Occidente per insaporire insalate, carne, pesce, minestre, verdure cotte.

Tutti ne parlano, ma pochi sanno cosa sia. A rendere “famoso” il gomasio è Franco Berrino, ex direttore del Dipartimento di Medicina preventiva e predittiva dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che lo consiglia come valido e salutare sostituto del sale per eliminarlo (quasi) completamente. Si tratta di condimento usato nella tradizione asiatica e in quella macrobiotica, a base di semi di sesamo (goma) e sale marino integrale (shio) tostati e pestati, a volte arricchito con alghe. A svelarci preparazione e segreti del gomasio è Simonetta Barcella, originaria di Trescore Balneario, titolare del negozio NaturalBio a Bolgare e cuoca dell’associazione La grande via, fondata da Berrino ed Enrica Bortolazzi per favorire iniziative che promuovono il benessere e la longevità.

Utilizzo e bontà

Scordatevi di buttarlo nell’acqua che bolle della pasta. Il gomasio si utilizza a freddo. «Il mondo occidentale – afferma Simonetta Barcella – è abituato a condire e insaporire, talvolta per abitudine ancora prima di assaggiare e anche se non è contemplato nella ricetta originale. Infatti, il sale è sempre presente nelle nostre tavole. Il gomasio permette di diminuire la quantità di sale sugli alimenti di un ventesimo». La proporzione è, infatti, di un cucchiaino di sale su 20 di semi di sesamo. Questo significa che quando ne butti un pizzico, metti poco sale (marino integrale) e molto sesamo, saporito poiché tostato, fonte di proteine, calcio, fosforo, ferro, vitamina A, niacina e grassi buoni. Il gomasio è, inoltre, un ottimo modo per l’organismo di assorbire il sale, poiché quando viene rivestito dall’olio del sesamo viene assorbito con maggiore facilità. Viene utilizzato anche a scopi terapeutici, in particolare per migliorare la digestione, la qualità del sangue e l’assorbimento intestinale. Può inoltre alleviare la fatica e alcuni dolori come il mal di testa e di denti.

Sapore naturale ai piatti

Il gomasio ha un caratteristico sapore nocciolato dato dalla tostatura: è perfetto per condire l’insalata, il pesce alla griglia e in padella, la carne, le minestre, le verdure cotte, zuppe e vellutate e piatti a base di riso, ma anche di qualsiasi altro cereale. «Durante i corsi base di cucina – prosegue Barcella – il piatto che porto come esempio è il riso integrale con gomasio, uno dei miei preferiti per il gusto eccellente che viene esaltato, non coperto. Il gomasio è straordinario sulle foglie amare, come cicoria, catalogna, tarassaco, radicchio rosso. Una spolverata modula la percezione amara».

Facile da preparare in casa

Le regole base sono: usare una padella non antiaderente, ma di acciaio; e mescolare con cura per evitare che bruci alle alte temperature. Si lavano i semi (20 cucchiaini) e si scolano in un colino a maglie fitte, mentre la padella si scalda. Si versa il sesamo bagnato nella padella. E si inizia a mescolare con un cucchiaio di legno. «Non c’è un tempo definito – spiega la cuoca – dipende dalla grandezza della padella. Per capire se è tostato ci si affida (se si è esperti) al controllo visivo: i semi si gonfiano leggermente e appaiono imbruniti. Oppure si prende il sesamo tra indice e pollice e, se sfregando è friabile, è pronto. Si trasferisce in un mortaio zigrinato, il suribachi. Nella padella appena usata si tosta un cucchiaino raso di sale marino integrale per due minuti che poi si butta nel mortaio. Con il pestello o surikogi si compiono movimenti circolari per premere il sesamo contro le pareti, spezzando la buccia finché l’80% dei semi è sfarinata, lasciando gli altri integri». La magia più importante si compie ora: l’olio presente nel seme di sesamo esce e ingloba i granelli di sale: il cuore yang maschile è stretto abbraccio yin dell’olio femminile.

La variante con le alghe

Questa variante prevede l’aggiunta di alga nori, nota per essere utilizzata nel sushi, ricca di vitamine e minerali preziosi, che dà ancora più gusto. L’alga secca si trova in commercio e si può aggiungere nella preparazione casalinga del gomasio: una volta tostata leggermente, si riesce infatti a sminuzzare. «Le alghe sono un tesoro che proviene dal mare e che abbiamo dimenticato – afferma Simonetta Barcella -. Sono un ottimo alimento che integra nutrienti che nelle verdure di terra non troviamo. Cautela solo per chi soffre di patologie alla tiroide per il contenuto di iodio».

Dove si trova, costo e come si conserva

Il gomasio si trova in vendita nei grandi supermercati nel reparto degli aromatizzanti o del sale o in quello degli alimenti naturali o biologici. Nei negozi bio e nelle erboristerie è un prodotto presente con facilità. Il costo è sui 3 euro per 150 grammi, 5,25 per 300 grammi. Si vende in barattoli di vetro, ma sono in commercio anche le ricariche. Si conserva ben chiuso a temperatura ambiente. «Ma il mio consiglio è di provare a prepararlo – suggerisce la cuoca -. Meglio non farne in eccesso: 10 cucchiaini di semi di sesamo e mezzo di sale bastano per 4 persone per una settimana. L’operazione favorisce la meditazione e il rilassamento, si appoggia il suribachi sul grembo e si gode il momento, come le nonne quando facevano il pane. Ed è un modo per prenderci cura di noi stessi e di chi amiamo».


Un fiore nel piatto, cena di gala e premiazione vincitori lunedì 22 maggio

Fiori eduli ed erbe spontanee esaltano la cucina innovativa, rendendo omaggio alla Valle con più alta biodiversità d’Europa

Il Concorso Gastronomico «Un Fiore nel Piatto» di Darfo Boario Terme, che impegna gli chef dei ristoranti delle province di Bergamo e Brescia nella ricerca e creazione di piatti a base di fiori eduli ed erbe spontanee, è arrivato al gran finale.
Lunedì 22 maggio ore 20:00 all’Istituto Olivelli Putelli di Darfo Boario Terme , si svolgerà la Cena di Gala Gourmet : in occasione dell’incoronazione dei vincitori, sarà possibile degustare un menu composto dai quattro piatti che hanno conquistato la giuria, formata quest’anno dallo Chef Fulvio Vailati Canta – Docente della Scuola di cucina ALMA ( Presidente di Giuria ); Gina Rosalinda De Nicola – Ricercatore di ruolo presso il CREA – Centro di Ricerca Orticoltura e Florovivaismo- Roma; Claudio Porchia – Giornalista e Critico enogastronomico – Presidente Ristoranti della Tavolozza di Sanremo; Alessandro Caccia Vice presidente dell’Associazione Italiana
Sommelier; Simone Massenza -Degustatore e Critico Enogastronomico; Antonio Bravi – Fiduciario della Condotta Slow Food Oglio Franciacorta Lago d’Iseo , e per l’ISS Olivelli Putelli la Vice Preside Lucrezia Castellani e il Prof. Ivan Dossi Dall’antipasto al dolce, per stuzzicare e conquistare i palati raffinati, verranno serviti: Finocchio gratinato alla mandorla e caviale di begonia del ristorante Bella Iseo, Tortelloni di Silter, silene e segale del ristorante Aglio e Oglio di Rogno e Luccio all’olio e fiori di borragine del ristorante Tentazioni di Costa Volpino.
Il dessert Fiori rosa fiori di pesco, verrà proposto dal ristorante Bella Iseo, che si è aggiudicato quest’anno due dei premi in palio.
Il presidente della giuria ha riservato il suo premio “Coup de Coeur ” al piatto “Non si butta via niente”, del ristorante Bistrò Domenighini al Landò di Boario Terme. Il concorso “Un Fiore nel Piatto”, ideato nel 2014 da Loretta Tabarini per l’Associazione APS PromAzioni360, è giunto quest’anno all’ottava edizione in collaborazione con l’Amministrazione Comunale della Città di Darfo Boario Terme, e Comunità Montana di Valle Camonica, e per il secondo anno consecutivo ha ottenuto il prestigioso gemellaggio con il Festival Nazionale della Cucina con i Fiori patrocinato dal Comune di Alassio. Anche dopo molti anni il Concorso persegue la mission iniziale , cioè dimostrare che la grande varietà di fiori ed erbe spontanee della Valle Camonica, che è stata
dichiarata la zona con la più alta Biodiversità d’Europa, possa diventare base di una cucina innovativa, che guarda con attenzione alle tendenze senza tradire le tradizioni.


Un mondo di pomodori 

Emblema della cucina italiana, hanno una storia centenaria. In Italia si contano almeno 116 varietà. A Caravaggio un gruppo di pensionati coltiva 30 tipi di pomodori provenienti da sementi antiche 

Il pomodoro ha percorso un lunghissimo cammino dalle antiche civiltà azteche fino a diventare onnipresente nelle nostre tavole. Originario delle regioni andine, veniva coltivato in Messico: gli aztechi usarono il nome tomatl per indicare vari frutti di solanacee simili tra loro, mentre il pomodoro era chiamato xitomatl, che significa “frutto polposo”. Il pomodoro, insieme al mais, la patata, il peperone, il peperoncino e la patata dolce è arrivato in Spagna all’inizio del 1500 grazie a Cristoforo Colombo. Da Siviglia è approdato in Italia. Ma solo due secoli dopo, una volta superate diffidenze e paure, è stato utilizzato come ingrediente in cucina. La ricetta napoletana più antica di cui si è a conoscenza è la salsa di pomodoro alla spagnola e risale al 1692.

Dal Liberty bell al San Marzano: la classificazione

Classificare i pomodori non è proprio facilissimo. Se ne contano almeno 116 varietà in Italia, mentre nel mondo ne esistono migliaia. Si differenziano per il colore: ne esistono di gialli, verdi e addirittura neri. Il licopene, il carotenoide, che gioca un ruolo importante nella prevenzione dei tumori e che dà il nome scientifico alla pianta (Solanum lycopersicum), è presente in concentrazione maggiore proprio nel classico pomodoro rosso. E variano per la morfologia: tonda, allungata, a pera, a corno, ciliegino, costoluto, pizzutello, datterino. A volte il nome della cultivar, pur designando una provenienza, sottintende una forma. È il caso del San Marzano, dal nome del paese campano dove è dop, che costituisce categoria a sé con numerose sottospecie. «Un esempio di conformazione particolare è il Liberty bell, un pomodoro vuoto, dalla forma a campana, che si consuma ripieno di riso, cotto nel forno, come fosse un peperone – afferma Graziano Rossi, professore ordinario di Botanica ambientale e applicata nel Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente all’Università di Pavia  -. In Italia è arrivato dagli Stati Uniti a inizio ‘900. Lo si trova citato nel 1900 sul catalogo della ditta sementiera “Livingston’s Seed Annual”». E poi c’è la destinazione finale. «Una pubblicazione del 1958 classifica i pomodori in tre categorie: da mensa o insalata, ovvero da gustare crudi, da conserva, dunque destinati all’industria – prosegue l’esperto – e da serbo, legati alla cultura alimentare del Sud Italia che, conservati, potevano essere consumati nel periodo autunnale e invernale per arrivare fino alla primavera, grazie alla buccia più dura e a una speciale genetica che non li fa marcire».

Blush, Lidi, Coyote: ecco il “Pomo d’Oro”

Uno dei migliori è l’Aunt gertie, grosso, dorato, che deriva da un’antica varietà proveniente dallo Stato della Virginia, negli Stati Uniti. Il Blush è giallo con strisce rosse e si distingue per il sapore fruttato; somiglia al Lidi, ciliegino a grappolo, dolce e succoso. Il Coyote, selezionato in Messico, è quasi bianco. Il Dottore Carolyn è di color avorio e, maturo, diventa paglierino: è dolce e delizioso. «Il termine italiano “pomodoro” si deve al medico naturalista senese Pier Andrea Mattioli, al quale, verso la metà del ‘500, capitò di esaminare alcuni esemplari appena arrivati dall’America, che erano gialli, dunque in origine il frutto era di quel colore – spiega l’esperto -. Quelle varietà, scomparse dalla grande distribuzione, stanno tornando in commercio». Tra queste spiccano l’Azoichka, antica varietà russa dal colore limone brillante e gusto agrumato. E il Brandywine giallo platfoot con frutti grandi, dorati e leggermente a coste.

Zebra verde e cherokee nocivi? No, una delizia se fritti

I pomodori, con le melanzane, i peperoni e le patate, appartengono alla famiglia delle solanacee. Come dice il nome, foglie, radici e frutti contengono un alcaloide, la solanina, che è un glicosidico tossico perché rappresenta una difesa naturale per la piantina e il suo frutto da insetti e funghi. La sostanza, che tende a scomparire con la cottura, è contenuta in quantità più elevate nei frutti verdi come il Verde tedesco, la Zebra verde, il Cherokee.  La solanina può causare un’intossicazione solo se assunta in quantità superiore a 20 milligrammi per 100 grammi di prodotto fresco. «In Europa arrivarono varietà già selezionate da Inca e Aztechi che le mangiavano, ma, nonostante ciò, per due secoli, il pomodoro fu utilizzato esclusivamente come pianta ornamentale e veniva studiato dai botanici poiché lo si riteneva velenoso – racconta il professor Rossi -. Mia moglie, quando rimase incinta, 21 anni fa, chiese al ginecologo il permesso di mangiare le patate. Oggi, come ci ha insegnato il film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, i pomodori verdi sono buonissimi. Anche in Romagna è tradizione gustare infarinati e fritti quei frutti che, arrivati a fine stagione, non maturano. Senza dimenticare la marmellata di pomodori verdi». Sempre all’origine dell’introduzione del pomodoro in Europa, non mancarono credenze bizzarre: al pomodoro venivano attribuiti poteri afrodisiaci e veniva utilizzato per le pozioni magiche. Questo spiega i nomi dati a questa pianta in varie lingue, ricordati da Leopoldo Tommasi nel suo testo, “Vecchie e inconsuete varietà di pomodori”: Pomme d’amour in francese, Love apple in inglese, Libesapfel in tedesco, pumu d’amuri in Sicilia.

Gli antiossidanti nel Nero di Crimea e di Kiss the Sky

Anche in Italia si comincia sempre più spesso a vedere in tavola il pomodoro nero. La varietà più nota è il Nero di Crimea, che ha origine nell’isola di Krim, in Ucraina. I semi sono arrivati in Italia proprio grazie ai soldati di ritorno dalla guerra di Crimea nella prima metà dell’800. Esiste anche il Ciliegino nero, dal sapore intenso, che esplode in bocca, il Nero cinghiale con strisce verdi, dal sapore ricco, Kiss the sky, dolce come il ciliegino, ma più grande e rarissimo. Oltre a essere buono, il pomodoro nero possiede proprietà interessanti dal punto di vista nutritivo: è, infatti, ricco di antociani, sostanze dal forte potere antiossidante, che gli fanno assumere un colore nero bluastro intenso. Nel 2009, da un incrocio di specie, è nato il Sun Black. In quell’anno, un consorzio di atenei, costituito dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, la Tuscia di Viterbo e le università di Modena, Reggio Emilia e Pisa, misero in piedi il progetto di ricerca ed è attualmente sul mercato. Particolare il Nero del Canada, inizialmente chiamato P20 o Osu Blue, è un ibrido tra un pomodoro e una solanacea selvatica peruviana, ottenuto dall’Oregon State University dal professor Jim Myers, che da anni porta avanti interessanti lavori di ibridazione.

A Caravaggio si coltivano Mirtillo e Cornu del Tempestì

Il Pisanello, il Principe borghese, l’Ottombrino, il Canestrello di Lucca, il Cherokee purple, il Cornu del Tempestì sono nomi che non sentirete in un supermercato. Sono alcuni dei 30 tipi di pomodori, coltivati dal gruppo di pensionati, che hanno dato vita agli Orti Biodiversi Caravaggini, guidati dal presidente Adalberto Sironi. L’associazione si è formalizzata nel 2010 e si dedica con passione alla coltivazione di verdura e frutta, riscoprendo sementi antiche che altrimenti andrebbero perse. Gli orti sono affiliati dell’associazione nazionale Civiltà Contadina. Sironi prepara le sementi e le conserva in un barattolo a chiusura ermetica in armadio: la banca dei semi. «Tra le più particolari il Mirtillo, il cui diametro varia dai 4 agli 8 millimetri, e il Cornu del Tempestì o Corno delle Ande, che si pela e gusta come una banana – racconta Sironi -. Il Tempestì era il soprannome di Luigi Legramandi, che non c’è più, coltivava questa varietà a forma di corno portata decenni prima dal Sud della Francia, dove aveva lavorato». La sua filosofia si ispira al motto «senza cultura non si semina più». «La caratteristica comune non è la provenienza, ma che siano semi non ibridati, questo vuol dire antichi – spiega -. La biodiversità è curare varietà che magari non sono autoctone ma si sono mostrate adatte a un microclima, nel nostro caso quello della Bassa, e vi si sono stabilizzate. La prova del nove non è solo che diano un buon raccolto, ma che siano buone in tavola».


A spizzichi e bocconi: il menù che fa tendenza

Accanto alla gestione del servizio a portate classico, stanno nascendo nuove formule per il pasto al ristorante. Proposte innovative e curiose che attirano l’attenzione dei clienti più esigenti 

Il menù degustazione: c’è chi lo ama e chi lo odia. Questo tra i clienti e i commensali, ma anche tra brigate di cucina e ristoratori. Questo tipo di formula possiede indiscutibilmente dei vantaggi, ma anche degli svantaggi. Ma laddove è proposto come valida alternativa e come percorso tematico tutti gli ospiti vengono sicuramente accontentati. Il menù degustazione può essere un’opportunità per l’ospite più curioso, che avrà così la possibilità di assaggiare buona parte della proposta e avere un quadro di quello che il ristorante serve ai propri clienti. Ma forse la ristorazione si sta spingendo un poco più in là? Non sono infatti ormai così rari i locali in cui viene fatta una proposta composta da un numero di portate a scelta. Ovvio che è necessaria una buona dose di coraggio, perché sicuramente le persone meno curiose non apprezzeranno facilmente la scelta. Sono comunque possibilità da tenere in considerazione, che possono aprire le porte a diverse tipologie di clientela, anche per quei ristoranti che propongono una cucina più classica, ma che vogliono differenziarsi e accogliere anche l’appassionato curioso, che potrebbe aver la voglia di assaggiare più piatti, ma senza l’onere di dover mangiare porzioni normali. In questo senso, sono altrettante le strutture che propongono i propri piatti in mezza porzione. Infine, forse la soluzione più innovativa e contemporanea è quella di proporre tanti piccoli assaggi golosi, senza abbandonare tecnica e lavorazioni complesse, da poter gustare a scelta oppure organizzati in cucina in menù degustazione da più portate. L’approccio alla ristorazione, soprattutto a quella di alta qualità e ricerca, sta cambiando. Si avvicinano sempre più persone molto giovani, che non vanno alla ricerca dell’abbondanza, ma dell’esperienza. Disposti a spendere anche cifre consistenti. Se le generazioni con un’età più alta apprezzano meno questa direzione, non è altrettanto vero per le persone più giovani. Forse questa potrebbe essere un’opportunità per ripensare alcune parti della propria proposta anche per la ristorazione più classica e tradizionale? C’è chi l’ha già fatto, e con soddisfazione!

Bites, a Milano un menu a piccoli morsi

Un piccolo locale, una piccola cucina e tanta soddisfazione. Bites si trova nel cuore di Milano, a pochi passi da Porta Venezia. Un luogo contemporaneo sia per l’ambiente che per la proposta. Andrea Baita e Pietro Zamuner hanno osato, senza fare sconto alcuno, optando per una scelta coraggiosa: quella di stravolgere la consuetudine, soprattutto nella formula. In cucina i due giovani si divertono tra marinature, lavorazioni e cotture alla brace. La carta si compone di tanti piccoli assaggi, che poi così piccoli non sono, almeno nella complessità concettuale con cui ogni piccola portata è pensata e preparata. Tecniche differenti, materie prime tra le più disparate, usi e culture che provengono da ogni parte del mondo. I piatti sono composti al momento e, se la scelta ricade su un menu da sei o dieci portate, vengono serviti con un ritmo ben preciso, anch’esso parte del gioco. Tra le proposte ostriche al burro acido, nori arrosto e olio d’oliva; anguilla alla brace; pollo ripieno con zabaione di miso, fegato grasso; sgombro in saòr. Al Bites puoi assaggiare tutto, in poco tempo, senza appesantirti. Piccoli morsi dalla grande cultura. 

“Fa mia ol fighet”, la tradizione in degustazione

Proporre un menù degustazione della tradizione non è cosa affatto semplice, ma Claudio Rubis alla Staletta di Zogno ci ha provato con “Fa mia ol fighet”: una proposta per chi non sa mai cosa scegliere. Vengono infatti serviti assaggi di alcuni degli antipasti, a seguire alcuni primi, poi i secondi e infine i dolci. Salumi locali (con il salame intero da tagliare a fette: ne mangi quanto ne vuoi!), polpettine, formaggi, le paste fresche e ripiene, e lunghe cotture. Per i più curiosi e goduriosi: un menu da non lasciarsi sfuggire, per assaporare la cucina locale bergamasca a tutto tondo. 

Momento Clu e i suoi cluetti

Lo chef Edo Codalli non è nuovo nel panorama della ristorazione bergamasca, ma con Momento Clu si è messo personalmente in gioco (insieme a due soci, tra cui in sala Marco Cavadini) e ha aperto un ristorantino in un luogo meraviglioso, il Castello di Clanezzo, con una proposta particolare. Il menù si compone di tanti “Cluetti”, tanti assaggi che possono essere gustati nel menu degustazione “Cluettata” dove si può scegliere, per esempio,  tra Kebab di pecora gigante bergamasca, fungo porcino, ravioli di melanzana, cervo marinato, insalata di baccalà. Una cucina essenziale, che in parte pone le basi su una selezione di materie prime agricole locali e non,  interpretate magistralmente dallo chef. Non c’è un menu a portate: ti siedi e assaggi un piatto dopo l’altro. Un’esperienza di gusto e cultura. 

 


Giorgio Locatelli: “Si criticano i giovani ma credo sia un’idiozia”

Il giudice di Masterchef e Home Restaurant fa il punto sul futuro della ristorazione in un’intervista a tutto campo

Entriamo in scivolata a freddo, nel mezzo di un soleggiato pomeriggio londinese. In Inghilterra, come in Italia, tanti ristoranti sono chiusi il lunedì, ed è il giorno di “corta” anche per Giorgio Locatelli che, tra un set televisivo e l’altro, ci risponde dalla sua Locanda – primo ristorante italiano stellato all’estero – dove ha appena provato a convincere l’addetto alla spesa di un albergo di lusso, cui lui fa consulenza, che se un Parmigiano Reggiano invecchiato 36 mesi costa il doppio di un 12 mesi, è del tutto normale. «La qualità dei prodotti italiani è altissima – dice – ma bisogna ancora insegnare alla gente come riconoscerli, purtroppo anche agli addetti ai lavori». Il takle, però, è in agguato e arriva subito alla prima domanda sul successo della trasmissione “Home restaurant” condotta dallo chef su TV8.

Lo sa quanti nemici si è fatto, in Italia, tra i suoi colleghi, sponsorizzando gli home restaurant in televisione? 

Dice davvero? No, non penso: stiamo parlando di due esperienze completamente diverse, quasi agli opposti. L’home restaurant è andare a trovare qualcuno, volerlo conoscere, vedere cosa succede in casa; non c’è una carta, o una proposta internazionale, ma un menù già deciso, che è l’espressione della persona che vive in quella casa.

L’atmosfera è diversa, su questo siamo d’accordo. Resta però un’alternativa al ristorante.

Non credo che l’home restaurant possa cannibalizzare i clienti dei locali. Dopotutto, sono talmente poche le persone che si possono trovare a cena in un appartamento, che il problema non esiste. L’idea è quella di passare una serata diversa e di esplorare un modo nuovo di stare insieme. E per chi cucina non può essere un business: di soldi ne circolano pochi.

Un hobby, più che una nuova occupazione? 

Sì. Io per esempio ho incontrato persone che sapevano tutto di whisky, o che andavano matte per un ingrediente, o una ricetta. Il contesto è molto personale, familiare, anche nel servizio.

Lo sviluppo degli home restaurant può essere legato alla riscoperta della cucina che tutti noi abbiamo vissuto durante il lockdown? 

Sì, sicuramente il Covid ci ha cambiato tantissimo, anche nella maniera con cui facciamo la spesa. Ha avuto un impatto sulla nostra vita che forse capiremo bene solo tra qualche anno. Un tempo a Londra gli home restaurant venivano organizzati perlopiù dai giovani che, non avendo tanti soldi, facevano una colletta, andavano a fare la spesa e tornavano a cucinare quello che avevano comprato. Adesso si sono evoluti e ce ne sono di più. Ma non possiamo parlare di vere e proprie aziende.

Ha mai mangiato male nelle case che ha visitato per la sua trasmissione? 

Ne ho provate 25 in giro per l’Italia e devo dire che lo standard è molto buono. Il programma è nato da una cosa che accomuna tutti gli chef: nessuno li invita mai a cena, per paura delle critiche. Questo però è sbagliato perché quando i cuochi vanno a cena da qualcuno, piuttosto che fare una lamentela, si mettono qualcosa in tasca, se proprio non è buona da mangiare. A me l’idea è piaciuta subito: entrare nelle case degli italiani è un po’ come prendere il polso della cucina familiare tradizionale, e raccontare uno spaccato della cultura del mangiare in Italia, che ci contraddistingue nel mondo. Nessuno cucina meglio della mamma, e questo è un valore grande che noi italiani abbiamo ancora. Altrove la gente non fa più da mangiare, mentre da noi questa passione per la cucina fa parte della nostra identità. E devo dire che sono rimasto lusingato e a volte straordinariamente colpito da pranzi o cene molto piacevoli. Qualcuno ha preparato piatti che potrebbero essere serviti in un ristorante stellato.

La cucina familiare resta la spina dorsale della ristorazione italiana che però in questi anni ha sofferto tanto. 

Chi ha subito di più gli effetti della crisi sono i ristoratori in affitto. Le attività storiche, quelle a conduzione familiare, i cui titolari sono proprietari anche dei locali, hanno sofferto meno e in percentuale sono quelli che sono sopravvissuti di più.

Ci siamo risvegliati dalla pandemia con il problema del personale. Oggi sembra che più nessuno voglia lavorare nei ristoranti.

È un problema che abbiamo anche noi: la Brexit ha fermato il flusso di talento europeo, e specialmente italiano, di persone che venivano anche per imparare l’inglese. Oggi è più difficile che i ragazzi arrivino solo per lavorare. 

Anche in Italia i ristoratori fanno fatica ad assumere. Com’è possibile? 

Oggi si criticano tanto i giovani, ma credo che questa sia un’idiozia: i ragazzi di oggi sono molto più intelligenti, maturi, onesti e aperti al mondo. Arrivano a lavorare dopo aver studiato e la qualità è altissima. Dobbiamo solo invogliarli; c’è chi dice che non vogliono lavorare il sabato e la domenica, ma non credo che sia così. Chi nasce con la passione della cucina, sa che il fine settimana si lavora: se io non lavoro a Natale mi sento male. 

E allora, dov’è il problema?

Serve motivare il proprio personale e fargli intravvedere una carriera. Io, per esempio, non ho problemi in cucina, ma nel servizio. Dobbiamo entrare nell’ottica che il nostro non dev’essere un lavoro da matti. Oggi è un po’ così: si parte alle 9 del mattino e si rientra alle 2 di notte. Se vogliamo farla diventare una professione seria, dobbiamo accettare il fatto che la gente sia pagata bene per lavorare il giusto. Dobbiamo vendere ai giovani questo mestiere come una carriera. 

Senza alzare i prezzi, come si fa? 

Bisogna far pagare ai clienti per il servizio che riusciamo a dare. Il mondo è cambiato e oggi la vita media di un ristorante a Londra è molto più breve che in passato: il 40% fallisce entro un anno e gli altri chiudono quasi tutti prima dei 5 anni di attività. Chi riesce ad andare avanti è spesso finanziato da qualcuno. 

I giovani che entrano in cucina sono meno improvvisati di un tempo?

Sicuramente. Gli improvvisati sono di più in sala: si inizia un po’ così, poi si scopre che si può fare carriera e si prosegue. Noi cuochi e maȋtre d’hotel dobbiamo lavorare proprio su questo: far diventare questo mestiere una professione.

Manca la formazione per il personale di sala? 

No, manca la gente che vuole diventare cameriere, perché in tanti lo vedono come un lavoro che non dà un futuro. Non a caso gli istituti alberghieri hanno diminuito le classi di sala e aumentato quelle di cucina. 

Questo grazie anche a voi di Masterchef.

Grazie a noi, forse, ma anche al “sistema Italia” che in 20 anni è cambiato molto. Siamo in un momento molto positivo per quanto riguarda, per esempio, i prodotti di qualità e dobbiamo cercare di cavalcarlo, questo momento. Le copie, l’Italian sounding, purtroppo ci saranno sempre. Noi però dobbiamo cercare di far capire alle persone qual è la differenza, e ciò può arrivare con la serietà nel trattare il prodotto e con l’insegnamento. Dopodiché, quando fai da mangiare bene, la gente se ne accorge e se lo ricorda. Sappiamo tutti riconoscere qualcosa di buono.

E qui torniamo ai prezzi, che secondo alcuni ristoratori andrebbero alzati. 

Non lo so, dipende dai locali e dalle proposte: io pago mezzo milione di sterline all’anno di affitto, faccio 50 mila coperti e so che ogni cliente mi costa 10 sterline solo d’affitto. Poi c’è chi è proprietario del suo locale e chi riesce a mantenere un prezzo competitivo perché è più bravo degli altri. Certo, invece di proporre una carta con 30 piatti, ne bastano 5 fatti bene, e questo è un trend che ho notato molto in questi anni. Oppure ci sono ristoranti che propongono dei menù degustazione, magari anche di 15-16 portate, o altri che si specializzano in qualcosa. Così si possono tagliare costi di personale e di approvvigionamento. 

La soluzione sta nei menù più corti? 

Sì, magari focalizzati sul prodotto stagionale, per risparmiare ed evitare gli sprechi. Ognuno, poi, deve trovare il suo parametro e bisogna tenere conto anche della tipologia di ristorante: il mio è in centro a Londra e quando un mese fa ho tolto il pollo dalla carta – perché il nostro fornitore, che li alleva solo per il mio ristorante, non riusciva a starmi dietro – ho dovuto discutere con mia moglie, perché giustamente mi diceva che in un posto internazionale come il nostro, non possiamo obbligare la gente a mangiare solo carne rossa. Altrimenti, ripeto, bisogna specializzarsi ed è quello che stanno facendo tanti nuovi ristoranti stellati italiani.

E i clienti come reagiscono?

Sinceramente non so se la gente è pronta a capire questo passaggio; certo sarebbe molto più semplice se tutti i ristoratori si orientassero in questo senso.


Latte di alta qualità, l’oro bianco da riscoprire

Consumato fin da epoche remote, il latte è il liquido alla base dell’alimentazione dei cuccioli dei mammiferi. Un prodotto molto nutriente, che siamo abituati a consumare fin da bambini, intolleranze ed allergie permettendo. Il latte è in grado di fornire al nostro organismo molte sostanze nutrienti di cui abbiamo comunemente bisogno. E’ molto utilizzato tal quale, come bevanda fresca per una merenda genuina, ma anche per la colazione. E’ inoltre elemento base per la preparazione di numerose ricette di cucina, ma anche per la gelateria di alta qualità, contribuendo alla buona riuscita dello stesso E poi, è la materia prima alla base per la produzione del formaggio, grazie alla trasformazione della principale proteina che contiene: la caseina. Essa, in particolari condizioni (di temperatura, di pH e in presenza di un enzima), coagula e passa allo stato gel producendo quello che comunemente chiamiamo cagliata, da cui poi avrà origine il formaggio.

Negli ultimi anni però, complice anche la diffusione della diagnosi legata all’intolleranza al principale zucchero del latte, il lattosio, si è assistito a una parziale demonizzazione dell’alimento, eliminandolo dalla propria dieta o sostituendolo con  bevande, talvolta, industriali.

Ma il latte di qualità esiste e, se consumato in quantità non eccessive, può essere un vero alleato nel mantenere il nostro benessere.

Parlare di latte non è sbagliato. Infatti la legge ci dice che quando non viene segnalato l’animale da cui origina, si fa riferimento al latte vaccino. Ne esistono molti altri, ma meno diffusi e reperibili (anche se oggi l’industria alimentare propone qualsiasi tipologia di latte soprattutto nelle catene della GDO), come il latte di capra, il latte di bufala o quello di asina.

Ebbene, seppur la maggior parte di noi ha come abitudine l’acquisto di latte a lunga conservazione (intero, scremato, parzialmente scremato) che si trova comunemente sullo scaffale del supermercato, esistono filiere di qualità da valorizzare e a cui poter attingere quando si vuole consumare un prodotto diverso.

Attenzione: non bisogna confondere il latte fresco con il latte crudo. Il latte fresco subisce un trattamento termico di pastorizzazione che ha lo scopo di eliminare la flora batterica (anche quella positiva, non solo quella eventualmente patogena) dal liquido. Il latte crudo non subisce invece alcun trattamento termico preventivo, ma una filtrazione prima di essere messo in commercio.

Latte crudo: i distributori e l’utilizzo professionale

Una decina di anni fa circa la filiera del latte ha tirato un sospiro di sollievo. Sono infatti state installate numerose “casette del latte” ove è possibile acquistare il latte crudo, munto da poche ore seguendo rigide regole in fatto di igiene. Come è ovvio che sia, il latte crudo possiede un grande numero di microrganismi che fanno bene alla nostra salute, ma ne può avere anche di patogeni, seppur molto controllato. Ne è sconsigliato il consumo infatti alle persone immunodepresse e fragili, se non previa bollitura. Ma a questo prodotto è stata fatta una vera e propria guerra, tanto da mettere in guardia le persone verso il suo consumo. Ovvio che la vendita di latte crudo diretta al consumatore ad un prezzo equo per l’allevatore, ma non eccessivo per il consumatore, si è rivelata un vero successo nell’immediato, ma ha creato mal contenti nell’industria agroalimentare. La potente campagna diffamatoria verso l’utilizzo di latte crudo (“fa male”) ha sfiduciato i consumatori e in circa 10 anni la presenza dei distributori ha subito una forte flessione in negativo. Certo è che, secondo le indicazioni anche del Ministero della Salute, il latte crudo va consumato previa bollitura. Altrettanto sicuro è anche che il rischio zero, consumando latte crudo, non esiste, soprattutto per bambini, anziani e persone fragili. L’utilizzo del latte crudo in pasticceria o gelateria potrebbe essere potenzialmente interessante, anche se si potrebbe incorrere in diverse problematiche. La prima riguarda l’obbligatorietà della pastorizzazione previo utilizzo e l’effettiva autorizzazione da parte degli organi preposti al controllo. La seconda riguarda le sue caratteristiche, in termini di omogeneizzazione dei grassi e quantità di proteine: non sono stabili nel tempo, ma variano in funzione della stagione e dell’alimentazione degli animali. Infine, l’aroma. Non siamo più abituati a quei sentori di erbaceo tipici del latte crudo talvolta anche spinti; il gelato cambia letteralmente aroma, andandosi a caratterizzare in maniera importante. Utilizzare latte crudo in un laboratorio professionale è quindi una scelta importante, che richiede attenzioni particolari per la sua lavorazione.

Latte nobile, Salvaderi e latte fieno: filiere di qualità

Sono molte e diverse le aziende produttrici di latte che hanno deciso di investire risorse per proporre un latte riconoscibile e di alta qualità, al di fuori delle logiche legate alla vendita alle grandi industrie alimentari. Si tratta di aziende che hanno deciso di valorizzare il proprio prodotto, il latte, per il suo consumo tal quale. Un percorso che ha richiesto il ripensamento di intere filiere, dalla scelta della razza bovina, fino al suo allevamento, alla sua alimentazione. E’ il caso dell’azienda agricola Salvaderi, ubicata in provincia di Lodi, che ha scelto di valorizzare il proprio latte, prodotto da vacche che vivono libere al pascolo di razza Guernsey, che ha la caratteristica di possedere la proteina caseina A2A2 che non causa gonfiori e pesantezza durante il suo consumo. Il latte viene pastorizzato il minimo indispensabile per essere poi consumato senza trattamento termico alcuno. Latte nobile è invece un marchio di alta qualità che nasce dalla volontà di dare una risposta alla produzione industriale, orientata al produrre latte al minor costo possibile. E’ un progetto firmato da ANFoSC, l’Associazione nazionale formaggi sotto il cielo. Il marchio Latte Nobile identifica quindi un modello produttivo con relativo disciplinare; punta a garantire agli animali un ambiente confortevole, un’alimentazione a base di erbe e fieno con l’utilizzo di pochi mangimi naturalmente privi di OGM e insilati. E poi, dall’Alto Adige, arriva un altro marchio di qualità. E’ latte fieno, registrato anche come STG (Specialità Tradizionale Garantita) dal 2016. Un latte prodotto da animali allevati secondo alti standard di benessere e che si nutrono solo con fieno, cereali ed erba, senza integratori e mangimi fermentati. La sua produzione è disciplinata da un regolamento specifico. La produzione coinvolge oltre 4500 aziende con una presenza media di circa 15 capi ognuna.


La ristorazione e l’hotellerie guardano al futuro

Tre importanti consulenti del settore ci hanno raccontato quali sono i nuovi trend di bar, ristoranti e alberghi 

Locali sempre più specializzati, menù hi-tech e sempre più fluidi. Tra ibridazioni e contaminazioni, la ristorazione guarda al futuro, oltre la pandemia e i rincari dei prezzi, dalle materie prime all’energia. Lo fa con ritrovato entusiasmo, dopo anni da dimenticare, confidando nei segnali di ripresa e voglia di uscire a pranzo e cena. Con cicatrici e ammaccature, ci si risolleva a colpi di marketing, strategie e competenze. La pandemia ha dato un’importante spinta verso la rivoluzione digitale, che si è tradotta in un proliferare di menù con Qr code, App, siti per ordini online, pagamenti contactless e chiamate wireless per i camerieri.  La crisi economica, già in atto da anni, sommata all’emergenza Covid, ha esasperato la forbice tra locali di lusso e pop, gettando nello sconforto la ristorazione media, che rappresenta una fetta importante del comparto dei pubblici esercizi. Scricchiolano anche formule “all you can eat” e i buffet -sostanzialmente banditi durante la pandemia- non saranno più gli stessi. A vedere però decisamente in bilico la propria sopravvivenza in questa competizione evolutiva sono i locali senza specializzazione: per chi propone sia menù di terra che di mare e magari pure la pizza, sia a pranzo che a cena, la strada verso il futuro è davvero ripida e tortuosa, per non dire sbarrata. Non si arresta l’ascesa delle food court e dello street food, sempre però a caccia di autenticità, tipicità e di quel valore aggiunto che un’esperienza gastronomica deve ormai portare con sé. Sempre più attuale l’apertura di dark kitchen per far fronte alle crescenti consegne in delivery o asporto. La ristorazione in hotel diventa sempre più un asset importante, come lounge, bistrot e lobby bar.  Sono queste alcune tra le principali tendenze rilevate da tre consulenti esperti del settore, che abbiamo intervistato per fare il punto sui nuovi trend che guideranno il futuro dei pubblici esercizi e del turismo. 

Gap sempre più accentuato tra luxury e pop

Per Lorenzo Ferrari, fondatore e Ceo di Ristoratore Top, primaria azienda di marketing del settore, fare previsioni è sempre fuorviante, ma i macro trend del mercato sono abbastanza delineati ed evidenti. «Ogni volta che si fanno previsioni si toppa -afferma-. Si è parlato di sostenibilità e sembrava che non si potesse rinunciare alla svolta green, quando alla prova dei fatti risulta irrilevante nella scelta del locale». I conti si fanno soprattutto (ma, ovviamente non solo) con il portafoglio: « I cosiddetti locali accessibili per scontrino, ma percepiti come “cool”, spopolano, così come quelli “casual”. Penso all’osteria rimodernata, cui ci si affeziona sempre e comunque.  È sempre più in voga concedersi ogni tanto anche il lusso di un ristorante stellato, una gratificazione per occasioni speciali, che per molti diventa quasi un hobby, da portare avanti con passione concedendosi gite gourmet. La forbice è sempre più larga tra luxury e pop: i locali inaccessibili ai più mantengono il loro appeal e continuano a essere attrattivi. Valga il dato record di sempre di fatturato nel 2021, anno disastroso per l’economia, per lo Champagne». Se c’è chi bada a etichette, ambiente e lusso esibito, c’è ancora chi punta dritto alla sostanza: «I locali accessibili per prezzo, ma spartani e senza pretese, ottengono nuovi consensi. Basti guardare ai social: in pochi mesi dalla creazione del gruppo facebook “Mangiare bene spendendo poco” si sono ottenuti oltre 100mila iscritti in tutta Italia». A non tramontare sono i locali che restano impressi nel cuore: «Le occasioni di uscire e provare cibi diversi ed etnici si moltiplicano, ma ci sono indirizzi storici che servono intere generazioni di famiglie e che continuano a riportarci ai loro tavoli, insegnandoci il valore della fidelizzazione più spontanea e autentica». Il punto fermo per la ristorazione che verrà è che senza specializzazione non si va da nessuna parte: «Fino a dieci anni fa erano tanti gli appassionati ad aprire locali, magari investendo risparmi o liquidazione. Ora i ristoratori sono non solo professionisti ma sempre più imprenditori. La specializzazione è fondamentale anche nel format: per chi propone tutto senza specializzarsi in nulla, il futuro è in bilico. E ciò vale anche per il classico bar con espositori di prodotti industriali tutti uguali, dove si va più per reale necessità o vicinanza, che per convinzione o piacere».

 

Menù liberi e ristorazione senza orario

Giacomo Pini, amministratore di Gp Studios, società di consulenza e formazione attiva nel mondo del turismo e della ristorazione, evidenzia come tutto ruoti attorno all’esperienza e all’identità: « Le food court proposte nei centri commerciali da decenni, tornano al cuore delle città, nelle piazze, nei city walk e nei punti panoramici. I mercati coperti diventano gourmet e attrattivi. Le occasioni di consumo si moltiplicano ma esaltano sempre l’identità dei luoghi, dal cartoccio di fritto gustato per le vie di Napoli al lampredotto al mercato di Firenze». Non mancano contaminazioni interessanti: «Nei bar si trovano colazioni sempre più simili a resort e hotel e, di contro, gli alberghi guardano finalmente alla ristorazione come ad un’opportunità interessante su cui puntare. Anni fa c’era una certa resistenza ad andare in hotel a mangiare, ora è diventato un plus. Gli hotel, specie in posizioni strategiche o panoramiche, catturano sempre più l’attenzione della clientela esterna». I menù si fanno più fluidi e snelli: «Scompare la canonica successione antipasto, primo e secondo. Si punta agli assaggi, “para picar”, che favoriscono la convivialità e rappresentano un’occasione di provare più piatti, oltre ad aumentare le possibilità di consumo. Ci sono i piatti principali, abbinati come nella tradizione anglosassone dei “main course” a contorni. E poi ci sono gli irrinunciabili, signature dish: le specialità della casa sono evidenziate ormai in tutti i locali». La carta dei vini diventa più smart: «C’è sempre un certo timore nella consultazione, percepita come per super- esperti, per non dire sommelier. I menù più innovativi abbandonano la divisione per regioni dei vini e propongono icone o etichette, di più facile consultazione, che magari suggeriscono abbinamenti. Non possono mancare i vini di pronta beva e quelli “genderless” con cui iniziare e finire quasi qualsiasi pasto». Quanto alla proposta, continua il momento felice di cibo salutare: «Pokè e sushi restano sempre attrattivi e ormai sono diventati quasi un appuntamento fisso settimanale per molti. Anche in virtù di questa popolarità, per effetto-traino, il crudo, dalle carni, alle verdure al pesce sta conquistando posizioni e si concilia alla perfezione con regimi dietetici anche restrittivi». 

 

Ristorazione e food and beverage un nuovo asset per l’hotellerie 

Mauro Santinato, presidente di Teamwork, società di consulenza e formazione nell’hospitality, rileva un vero e proprio boom di dark kitchen e ghost kitchen. «È l’eredità più evidente che ci lasciano questi due anni di pandemia, con effetti opposti per altro: per alcuni rappresenta un’importante integrazione di fatturato per assicurare delivery e asporto, per altri un’inevitabile perdita di denaro. Le cucine degli alberghi, per la maggior parte poco utilizzate, si prestano a questo tipo di utilizzo fino ad assumere valori importanti per volumi d’affari: a Dubai ci sono hotel che propongono  anche quindici tipologie diverse di ristorazione per soddisfare le richieste esterne in delivery e assicurare il room service 24 ore su 24». L’hotel diventa in generale più accessibile e informale, proponendo spesso il concetto di spazi ibridi, introducendo l’all day dining, rivoluzionando la colazione e aprendo le proprie lounge e lobby bar all’esterno: «Gli spazi si moltiplicano e specializzano, con l’obiettivo di allungare la permanenza e attrarre anche una clientela esterna. Il mondo del lifestyle hotel è la tendenza attuale. Se la ristorazione ha vissuto momenti critici in passato o è stata vista come un servizio da proporre perché necessario, ma senza passione, investimenti ed entusiasmo, ora è un vero e proprio asset. E non solo per i ristoranti stellati in hotel, che hanno fatto scuola in questo. Ora gli hotel sono un punto di riferimento per i quartieri, un posto dove concedersi un aperitivo, un drink dopocena, un business lunch o un buon caffè in giardino o terrazza». Il riposizionamento dei ristoranti degli alberghi è legato al loro stesso futuro: «Prima si cenava in hotel perché era comodo, ora accade quasi l’inverso: si sceglie l’hotel per la sua ristorazione di qualità. Si vendono camere perché abbinate a cene, colazioni e pranzi gourmet». Non mancano infine proposte curiose e insolite, perché in un mercato a sempre più elevata specializzazione, le nicchie assumono una posizione di crescente interesse. «Penso al ristorante per gatti nell’hotel specializzato nell’accoglienza dei felini. O, senza arrivare a questi estremi, a chi si specializza in cibo healthy, veg o a chi punta sulla sostenibilità, un tema particolarmente attuale anche per far fronte ai rincari energetici».