Confindustria Bergamo
va “Oltre le mura”

La prima volta di Ercole Galizzi sarà a Treviglio. Il presidente di Confindustria Bergamo presenterà al PalaFacchetti, durante l’assemblea pubblica, i piani di azione dell’associazione imprenditoriale, dopo la sua elezione avvenuta ai primi di giugno durante la sessione riservata. L’assemblea, punto di riferimento per 1300 aziende del territorio, in programma il 7 ottobre a partire dalle 14,30, sarà aperta dalla relazione di Ercole Galizzi, a cui seguirà un dibattito fra Stefano Paleari, rettore dell’Università di Bergamo, Paolo Magri, direttore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, Bernd Wurshing, director production planning assembly di Porsche AG, e Federico Magno, amministratore delegato di Porsche Consulting. Le conclusioni saranno affidate al presidente nazionale di Confindustria Giorgio Squinzi, che si ripresenta all’appuntamento bergamasco dopo essere stato ospite un anno fa alla Dalmine nell’edizione 2012.
Dal titolo “Oltre le mura”, l’assemblea richiama esplicitamente il progetto di  Bergamo capitale europea della cultura 2019 – sostenuto anche dalla locale Confindustria – che vede la nostra città proiettarsi oltre i confini provinciali su una ribalta internazionale.
Il nuovo presidente conferma, dunque, il carattere itinerante dell’assemblea pubblica donatole dal suo predecessore Carlo Mazzoleni, che aveva spostato l’appuntamento annuale all’aeroporto di Orio al Serio e successivamente allo stabilimento della Dalmine. Destinazioni dotate di un loro simbolismo: l’aeroporto, uno dei principali motori dello sviluppo, la Dalmine, icona del manifatturiero bergamasco.
L’assemblea trevigliese intende quest’anno sottolineare l’importanza cruciale di un’area resa sempre più appetibile anche in virtù dei forti investimenti in infrastrutture. Innanzitutto la Brebemi, che potrebbe aprire a novembre per un tratto, mentre il completamento è previsto nel maggio 2014, primo project financing autostradale del Paese, voluto fortemente anche dagli stessi Industriali. Un’infrastruttura che si porta dietro importanti opere di completamento alla viabilità accessoria, grazie alle quali Treviglio, interessata anche dalla futura autostrada per il capoluogo, si troverà al centro di un sistema di comunicazioni eccellente, che la faranno diventare il vero baricentro della Lombardia del futuro, un’area dove potrebbero nascere nuovi insediamenti sia industriali che legati al terziario o all’ospitalità.
Ma l’appuntamento di Confindustria Bergamo sarà anche l’occasione per riflettere a più voci sul futuro dell’industria manifatturiera, alle prese con una crisi senza precedenti, aggravata da un contesto Paese sempre più precario, e sulla ricerca di nuovi sbocchi oltre frontiera, dove tuttavia si affacciano competitori anche in ambiti prima ritenuti “sicuri”, come la meccanica, da sempre punto di forza dell’industria locale e dove la stabilità di intere aree, da quella medio-orientale a quella nord-africana, è spesso a rischio.
In particolare gli incandescenti panorami internazionali verranno delineati da Paolo Magri, bergamasco, direttore di uno dei più prestigiosi istituti di ricerca italiani in questo ambito.
Sul rapporto fra industria e territorio e sulla necessità di una visione oltre-frontiera presenterà le sue riflessioni anche Stefano Paleari, neo presidente della Conferenza dei Rettori, che ha fatto dello stretto contatto con le imprese, unito ad una spinta continua all’internazionalizzazione, uno dei punti fermi dell’Ateneo di Bergamo.
Un focus sarà anche dedicato al sistema industriale tedesco, grazie alla presenza di Bernd Wurshing e di Federico Magno. Il Paese, con una media di 1413 ore lavorate per addetto all’anno, molto meno che in Grecia, Italia, Portogallo e Spagna, realizza, in effetti, un valore del prodotto per ora lavorata fra i più alti dell’area Ocse. Un risultato a cui concorrono, oltre alla stabilità politico-finanziaria, la flessibilità del lavoro, gli investimenti in nuove tecnologie, un robusto sistema pubblico di sostegno all’innovazione orientato alle piccole imprese, percorsi formativi altamente professionalizzanti e basati sull’alternanza scuola-lavoro. Si tratterà di vedere quanto di questo modello sia esportabile nel difficile contesto italiano.


Moda, l’ira dei negozianti:
«Sull’etichettatura non siamo sceriffi»

Al tavolo, da sinistra: Massimo Torti, Diego Pedrali e Oscar Fusini

È scattato l’allarme etichettatura tra i commercianti di abbigliamento e calzature, ma Federazione Moda Italia corre in soccorso delle imprese con il “Kit Sos Etichettatura” ed un incontro dedicato ad approfondire i rischi legati al mancato rispetto delle nuove normative. A seguito dell’entrata in vigore del Regolamento dell’Unione Europea (1007 del 2011) i commercianti infatti rischiano grosso, con multe fino a 3.098 euro in caso di etichette non conformi. L’Ascom ha approfondito i dettami del nuovo regolamento europeo nel corso di un seminario che ha visto la partecipazione del segretario generale di Federazione Moda Italia, Massimo Torti, e dei vertici dell’Associazione per fugare ogni dubbio ed aiutare gli imprenditori a tutelarsi da eventuali sanzioni. L’obiettivo del progetto lanciato dalla Federazione Moda Italia è quello di creare maggiore consapevolezza tra le imprese del commercio, approfondire gli obblighi degli operatori commerciali sul controllo delle etichette dei capi venduti e sui rischi in caso di riscontri di vizi di etichettatura. Nel corso del seminario sono stati forniti consigli agli operatori commerciali per avere maggiore autorevolezza e forza contrattuale nei confronti dei fornitori.
«In un periodo già complicato per il commercio e in particolare per il settore abbigliamento e calzature, occorre evitare di subire ulteriori danni» hanno introdotto, in estrema sintesi, il presidente dell’Ascom, in rappresentanza anche della Camera di Commercio, Paolo Malvestiti, il direttore Luigi Trigona e il vicedirettore Oscar Fusini. «L’etichetta è una sorta di carta di identità di ogni prodotto tessile e accessorio e rappresenta oggi un oggetto di attenzione particolare da parte non solo del produttore, ma anche, e non con minori incombenze, dei commercianti – ha spiegato Torti -. In capo alla rete distributiva è infatti l’onere di controllo e rispetto della conformità dell’etichetta di ogni capo o accessorio venduto. È importante che i commercianti siano bene informati, le nuove regole europee, infatti, impongono alcuni criteri che, se non vengono rispettati, determinano una responsabilità del commerciante in solido con il produttore e sanzioni anche parecchio pesanti».
L’attenzione deve essere rivolta, in particolare, all’uso della lingua e dei codici meccanografici. «Per la salvaguardia e la tutela del consumatore finale è necessario che l’etichetta di un capo d’abbigliamento o accessorio sia riportata in modo chiaro e trasparente – ha aggiunto Torti -. In quest’ottica, il regolamento europeo impone che le etichette debbano riportare le denominazioni fibre tessili contenute nel capo in lingua italiana, mentre non devono essere riportate le abbreviazioni o codici meccanografici o altre formule poco trasparenti».

Il regolamento, su cui la Federazione Moda Italia si sta adoperando affinché la responsabilità della corretta etichettatura ricada – come sarebbe logico – sul produttore e non sul rivenditore, rappresenta un ulteriore obbligo per i commercianti già alle prese con contratti di fornitura sempre più pesanti. «Il rapporto con i fornitori diventa così ancora più asimmetrico, come se già non bastasse la rinuncia al diritto di rivalsa, che compare ormai tra le clausole contrattuali – evidenzia Diego Pedrali, presidente del Gruppo Abbigliamento e Calzature Ascom e consigliere nazionale di Federmoda Italia -. Ora il mancato rispetto delle regole di etichettatura si ripercuote anche sulla rete distributiva che non partecipa certo alla fase di produzione e non può far altro che limitarsi a constatare la conformità o meno di ogni singolo capo». E le tendenze moda non aiutano l’etichettatura: «Il trend di vintage e capi slavati, in voga sin dall’anno scorso, non agevola l’impresa – continua Pedrali -. Le aziende produttrici non hanno finora previsto, per ovvi motivi di costi, un passaggio ulteriore di lavorazione, così anche le etichette risultano “slavate”». Per quanto più stringente, la normativa europea tralascia tuttavia un aspetto fondamentale: la valorizzazione del “Made in Italy”, un marchio di immenso valore per la qualità e lo stile di capi e accessori che il resto del mondo ci invidia. «Purtroppo la questione del Made in Italy è rimasta ferma sui tavoli dell’Unione Europea, quando rappresenta un importante valore aggiunto per ogni abito, calzatura o borsa disegnati e realizzati in Italia – rileva il presidente -. Per ora, invece, di italiano ci sarà solo la lingua ad indicare ogni componente sull’etichetta».
Le polemiche non mancano da parte dei commercianti che hanno seguito con forte interesse il seminario. «È l’ennesima sorpresa che arriva dall’Unione Europea. Le norme ci inchiodano ogni giorno e appesantiscono il nostro lavoro, con il rischio di incorrere in pesanti sanzioni. L’etichettatura non tutela allo stato attuale né la produzione né la filiera italiana, che tanto ha investito ed investe ogni giorno nel Made in Italy – dichiara Lodovico Ruggeri, consigliere del Gruppo Abbigliamento e Calzature dell’Ascom e titolare dell’insegna che porta il suo nome a Costa di Mezzate -. Di contro non si tutelano nemmeno i consumatori, basti pensare alle dermatiti e ad altri inconvenienti riscontrati da chi ha acquistato capi, specialmente scuri, prodotti in Cina. Nell’era della globalizzazione l’italiano diventa obbligatorio solo nella lingua, non nei valori e nello stile che trasmette». «La questione dell’etichettatura è molto complicata – sottolinea Andrea Provenzi, di Provenzi Sport a Trescore Balneario, consigliere del Gruppo -. La sensazione è che le aziende produttrici abbiano scaricato il problema su di noi che nulla possiamo nella creazione delle etichette eppure abbiamo l’onere del controllo. È davvero assurdo che questo obbligo sia in capo nostro e che siamo soggetti a sanzioni, anche pesanti».
Roberto Rigoli del negozio Abitex di via Borgo Palazzo si unisce ai colleghi: «La normativa verte su questioni ridicole come l’obbligo di scrivere “cotone” anziché “cotton”, ma la cosa davvero inconcepibile è che ad essere passibili di sanzioni siamo anche noi commercianti. Sembra davvero illogico rivolgersi a noi. I controlli vanno fatti dai produttori non dai distributori e invece noi siamo in balia dei produttori».


Sacerdote: «Nell’abbigliamento
non vedo prospettive confortanti»

“Io mi chiedo, ma tutta questa gente dove era prima?”. Luca Sacerdote si interroga con una domanda a mezz’aria, intendendo con quel “prima”, tutto il tempo trascorso prima che scattassero i supersconti con messa in liquidazione del negozio, lo storico marchio che da 86 anni a questa parte campeggiava sul Sentierone. Sabato 28 settembre è stato un giorno, nel negozio superstite a quello “uomo” chiuso a dicembre di un anno fa in Galleria Santa Marta, modello “assalto al forno delle grucce”. Cachemere che è andato via come il pane.
Un avvio con il botto…
“Quello che mi premeva in questo periodo era realizzare, fare cassetto. Certo la svendita è partita con il botto, ma non nascondo una certa amarezza. Mi chiedo, tutta questa gente che è venuta in massa, dove era prima?”
Evidentemente l’occasione fa l’uomo…saldo.
“D’accordo, ma è un fatto che deve far riflettere i commercianti. Significa che la tipologia di clientela è divisa in due: quelli che vorrebbero acquistare e non possono farlo e quelli che potrebbero farlo, ma che, con gli armadi strapieni, preferiscono aspettare il saldo o, come nel mio caso, la svendita”.
Certo, la clientela fashion addicted, quella che cambia un capospalla perché largo un centimetro è in via di estinzione…
“Il 90% della clientela preferisce dare fondo ai capi che ha già, non ne acquista di nuovi perché in pochi mesi sono diventati più stretti o più larghi. La gente è piena di cose e molti meno soldi in tasca. Diluisce gli acquisti nel corso dell’anno, tanto prima o poi una qualche occasione spunta sempre. La scorsa primavera è stata la volta di Tiziana Fausti uomo, adesso tocca a me…Si tratta solo di aspettare l’occasione giusta per approfittarne”.
Più che il commercio sembra che sia cambiato il mondo…
“Il piccolo negozio sta scomparendo ed il commercio, soprattutto a gestione famigliare, fatica moltissimo. Avranno un futuro i negozianti proprietari dei muri, dal momento che il canone di locazione incide moltissimo nel far quadrare i conti. Resisterà chi è bravo a fare questo mestiere e chi ha impostato il proprio lavoro con un occhio verso i mercati esteri”.
È la fine di un certo tipo di negozio…
“Sul Sentierone c’erano moltissimi negozi medio piccoli che sono scomparsi. Anche Bergamo è piena di catene, Zara, Stefanel, Benetton…cioè i brand che si trovano dappertutto. Il centro della città è una duplicazione del centro commerciale. I negozi sono gli stessi”.
Una omologazione senza scampo?
“In Bergamo si salva Biffi, in via Tiraboschi, che ha saputo ritagliarsi uno spazio personalissimo e molto qualificato. Mentre l’unica che ha saputo dare lustro al Sentierone, insieme ai ragazzi che hanno rimesso in piedi il Colleoni, è stata Tiziana Fausti che ha saputo creare uno store di respiro internazionale. Lei fa un lavoro diverso, facendo commerce dei grandi marchi mentre io faccio il commercio al dettaglio. Si tratta di ambiti commerciali ed operativi completamente diversi, che generano flussi, canali e cash flow diversi. Riconosco alla Fausti una grande intuizione imprenditoriale, quella di aver guardato all’estero con grande anticipo sugli altri. Chapeau, ha percorso una strada innovativa. È senz’altro lei la più brava”. 
Perché non ha modificato il concept commerciale di Sacerdote? Forse sarebbe bastato quello, un restyling merceologico e di location…
“Non è una cosa così semplice. Avrebbe significato cambiare un’immagine molto tradizionale, legata indissolubilmente al passato, e con un investimento che non mi sono sentito di affrontare. In questi ultimi anni ho messo mano al patrimonio personale per ripianare le perdite di gestione. Purtroppo, nel commercio al dettaglio dell’abbigliamento, non vedo delle prospettive confortanti”.
Dove sta andando l’abbigliamento?
“Non so dove finiremo, certo è che i commercianti di abbigliamento scontano una concorrenza fortissima dei centri commerciali che assolvono anche ad una funzione, come dire, sociologica, soprattutto per le giovani generazioni. In questo senso, va detto che quando la tradizionale clientela che abbiamo conosciuto non ci sarà più, subentrerà questa new generation che non è cresciuta con la stessa “cultura commerciale”.
Altri concorrenti?
“Gli outlet, dove anche aziende di punta fanno grossi investimenti, soprattutto immobiliari. Ci sono produzioni intere pensate e realizzate per essere commercializzate negli outlet che pure, malgrado i prezzi concorrenziali, garantiscono buoni margini di guadagno. Senza dimenticare poi gli spacci aziendali, dove si può trovare anche il capo dell’ultima collezione ad un prezzo più che buono. Ovvio che anche il cliente più affezionato, ci va per risparmiare. Infine occorre mettere in conto anche la concorrenza on line. che personalmente non ho mai considerato come un’opportunità da sfruttare. Quante volte i ragazzi sono venuti a provarsi capi che poi hanno acquistato con la taglia giusta, on line”.
Last but not least, i saldi…
“È una strada dalla quale non si torna più indietro: i saldi vengono sempre più anticipati, certi negozi addirittura li avviano, con messaggi personalizzati, alla metà di novembre o a giugno quando la stagione non è ancora cominciata. Chi acquista un cappotto oggi a settembre, sapendo che a novembre lo trova a metà prezzo? Per due mesi si fa andar bene quello che si ha già nell’armadio. Solo le shopaholiche non sanno dire di no”.
È un consumo di nicchia…
“Esatto. Mancano i volumi delle vendite a prezzo pieno. Sono queste che riescono a mantenere in piedi, in vita il commercio. Se mancano quelle si chiude. Per l’abbigliamento vedo in atto un cambiamento strutturale; resteranno i negozi aziendali, quei grandi store monomarca che hanno fatto scelte commerciali radicali. Penso, ad esempio, alle grandi griffes che si trovano solo nelle vie della moda delle grandi città”.
Certo, Bergamo non è Milano…
“La clientela internazionale qui da noi è ancora una chimera. Il nostro turista è come dire low cost di nome e di fatto, arriva con il trolley e il marsupio in vita; entra, guarda, tocca i vestiti con le mani unte di pizza, ma alla fine non compra nulla. E i negozi devono fare i numeri, come tutte le aziende. Numeri e fatturati, anche grandi, altrimenti non solo non si guadagna, ma non si vive”.
Un bel quadretto…
“Attenzione, è facile trovare scusanti, dalle bancarelle alla chiusura delle strade, al tempo, ma l’elemento di fondo resta comunque l’abilità dell’imprenditore, la sua capacità di chi gestisce il negozio. Inutile dare colpe anche all’ente pubblico, al Comune, a quello che fa o non fa: c’è chi ha raddoppiato il negozio e chi come me, invece, lo ha chiuso. Occorre guardarsi un po’ dentro e fare un serio esame di coscienza. Il destino non è sempre cinico e baro”.
Che cosa c’è nel suo futuro?
“Bella domanda, sicuramente un periodo di riposo assoluto. Ho deciso di chiudere perché andare avanti così era troppo difficile. Quando un’azienda non funziona, si ha la sensazione di continuare a mettere acqua in un lavandino senza tappo. Temo, però, che ci saranno altre chiusure dolorose. Per me è un lutto, come se mi fosse morto un parente molto stretto, mi servirà tempo per elaborarlo. E poi vedrò. Domani è un altro giorno”.