Da modesto cultore di storia del cibo, non riesco che a sorridere dinnanzi all’inflessibilità dei disciplinari gastronomici del nostro tempo. Il cuoco che azzardi l’inserimento di un velo di cipolla nella ricetta dei bucatini alla gricia, o di uno spicchio d’aglio in camicia nel condimento degli spaghetti all’amatriciana, assai difficilmente sfugge ad un processo per iconoclastia. Eppure in passato tra i fornelli regnava la più spensierata approssimazione. Del biancomangiare – a buon titolo la più celebre pietanza medievale – l’illustre studioso Jean Luis Flandrin ha censito oltre trenta versioni, tutte significativamente divergenti. Descrivendo poi la preparazione di una vivanda di pollo al melograno, il Liber de Coquina – capostipite trecentesco dei ricettari di cucina del nostro paese – suggerisce che, in sostituzione dell’agrume, il piatto possa essere insaporito con un tutt’altro che pertinente brodo d’erbe. E la sequenza degli esempi potrebbe protrarsi all’infinito.
Non sorprende dunque la fresca manifestazione di intransigenza gastronomica che giusto in queste settimane è trapelata dalla nuova edizione de “La tradizione a tavola”, curata dalla prestigiosa Accademia Italiana della Cucina per i tipi delle Edizioni Bolis. Dalla ponderosa raccolta di ricette – ben tremila, a compendio degli usi alimentari della Penisola – si apprende infatti che è stato depennato il risotto con le rane perché i piccoli anfibi “ormai non sono più quelli del territorio, vengono dall’estero”. Ad esempio – si puntualizza – dalla Romania.
Di primo acchito, l’impulso a dare privilegio alle ricette contraddistinte da chiaro vincolo di territorialità delle materie prime parrebbe del tutto commendevole. E del resto quello del “chilometro zero” è uno dei temi oggi più in voga. Ma, a ben vedere, si tratta di un profondo equivoco. Da un canto, la nostra tradizione gastronomica – anche quella che affonda le proprie radici nelle epoche più remote – si è sempre tenuta ben lungi dall’autarchia. E’ vero che alcuni degli ingredienti di più chiara derivazione allogena sono passati attraverso un prolungato processo di assimilazione produttiva – è il caso del pomodoro, della patata, del mais, dello stesso riso. Ma altri, come aringhe, stoccafisso e baccalà, sono sempre stati e sono destinati a rimanere inderogabilmente forestieri.
Dall’altro, la morfologia stessa delle materie prime di cucina è tutt’altro che statica. Se l’intendimento dell’Accademia Italiana della Cucina è semplicemente quello di preservare i sapori di “una volta”, è bene precisare che ci si trova nel dominio delle imprese irrealizzabili. Secoli di incroci ed ibridazioni hanno irrimediabilmente modificato aspetto e profilo gustativo di tutte le specie coltivate ed allevate per l’alimentazione umana. Si prenda il caso del maiale: i capi oggi presenti sul territorio nazionale appartengono per lo più a varietà straniere il cui bagaglio genetico ha ben poco in comune con quello del suino di ceppo italico dei nostri antenati. Ma nessuno si sognerebbe mai di proporre il bando delle specialità di norcineria ricavate dalle carni dell’anglosassone large white dall’albo dei prodotti tipici Italiani.
Il depennamento del risotto con le rane – ancorché rumene – dalle ricette della nostra tradizione culinaria pare dunque un poco opportuno esercizio di purismo. Ed il pensiero corre inevitabilmente ad un memorabile apologo in dialetto milanese di Carlo Maria Maggi, vecchio di oltre tre secoli ma pur sempre attualissimo: el poverett leccard (di bocca buona), che no possend fà i verz co’l cervellaè (cervellato) no’l se contenta de mangiai co’l lard.