Battuta d’arresto per il Pd. E l’altro Matteo esulta

Renzi e la moglie Agnese
Matteo Renzi al voto con la moglie Agnese

Diceva Enrico Cuccia che le azioni non si contano, si “pesano”. Converrà seguire le orme del padre nobile di Mediobanca se si vuole analizzare il risultato delle elezioni regionali rifuggendo dalle dichiarazioni di parte, di tutte le parti, che hanno contrassegnato le ore immediatamente successive all’apertura delle urne. Lasciamo da parte il 5-2 con cui molti hanno sintetizzato il responso popolare. E’ una formula che serve ai giornali per scattare una fotografia immediata ma aiuta solo in parte a comprendere quel che è successo. Se fosse solo una questione di bandierine piantate, il premier e segretario del Pd Matteo Renzi potrebbe ergersi a vincitore della tornata elettorale. Ma la conquista della Campania con Vincenzo De Luca, l’impresentabile dell’Antimafia inseguito anche dalla legge Severino, si porterà dietro un caos istituzionale e politico che non renderà agevole, almeno nei prossimi mesi, il governo di una delle Regioni più sofferenti del Paese. In Umbria la presidente uscente Catiuscia Marini si è salvata per il rotto della cuffia. Ma in Liguria e in Veneto per il Pd è stata una vera e propria Waterloo. In Riviera si è consumata una spaccatura a sinistra che ha portato alla fuoriuscita di un candidato che ha portato via i voti che, forse, avrebbero consentito a Raffaella Paita di battere Giovanni Toti. Ma se quest’ultimo ha vinto lo deve anche al fatto che la candidata imposta dal presidente uscente della Regione Claudio Burlando, per storia personale e gravami (è indagata per disastro colposo), non era probabilmente la migliore da schierare al via. In Veneto, la trottola Alessandra Moretti (in tre anni passata da deputata a europarlamentare a candidata alla Regione) è stata, come si dice adesso, asfaltata da Zaia. Una figuraccia che ha pochi precedenti a livello nazionale. Se dai singoli concorrenti, si passa al dato politico, va constatato che il Pd del 40 per cento delle Europee, che tanto aveva fatto gonfiare il petto al bulimico presidente del Consiglio, è ritornato intorno a quel 25% medio che tanto faceva ribrezzo al medesimo Giovin signore fiorentino. C’è di che riflettere per chi ritiene di essere investito del ruolo di salvatore della Patria contro e a dispetto di tutti. Dall’altra parte della barricata, non è che Forza Italia sia uscita in forma smagliante dalle urne. Sì, è riuscita a strappare la Liguria, ma lo deve ai guai del Pd e alla forza della Lega (di cui diremo dopo). Per il resto, in Puglia sono volati gli stracci e anche chi voleva fare la faccia feroce, come Raffaele Fitto, si è dovuto accontentare della sconfitta dei propri amici azzurri. Sai che consolazione. In Veneto ha stravinto Zaia, ma Forza Italia si è ridotta a poco più del 5 per cento. In Campania, nonostante la sfida provenisse da un candidato impresentabile, ha dovuto cedere la presidenza. Se l’è cavata, pur perdendo, in Umbria. Un bilancio pesante, che segnerà probabilmente la fine di una leadership e una svolta radicale nei rapporti di forza all’interno dello schieramento moderato o, più genericamente, di centrodestra. E qui veniamo ai vincitori. Difficile negare che alla Lega spetti il ruolo di forza trionfante. Di Zaia si è detto e Toti se è stato eletto lo deve al 20 per cento portato in dote dal Carroccio. Ma il 20 per cento conquistato in Toscana e nelle Marche (poco meno) dicono quanto Matteo Salvini sia stato capace, pur sulle ali di una campagna dai toni forsennati (o proprio grazie a questa), di portare sul simbolo di Alberto da Giussano, anche lui finora considerato impresentabile, messe di consensi che nemmeno il Bossi dei tempi d’oro riuscì a meritarsi. Quella Lega lì non esiste più, questa che esce dalle Regionali è un movimento in buona parte nuovo, anche nel corredo ideologico, pronto a giocarsi una partita di primo piano anche sul livello nazionale e non più nel ristretto arco pedemontano. Lo si diceva alla vigilia, ma ora è più chiaro: la sfida si restringe ai due Matteo. Il ruolo di terzo incomodo potrebbe giocarlo il Movimento 5 Stelle, l’altro vincitore delle Regionali al di là del fatto di non aver conquistato nessuna presidenza. Sul piano dei voti il consenso dei grillini è tornato a crescere e a consolidarsi dopo la battuta d’arresto delle Europee dello scorso anno. Certo, questa fiducia va spesa utilmente, disponendosi se necessario a sporcarsi le mani con gli altri partiti, a partire dai temi concreti come ha detto qualche candidato, perché altrimenti si rischia di consegnare alla pura testimonianza una voglia di cambiamento e di innovazione che va ascoltato e compreso.


“Buonascuola”? No, grazie. Non mi fido più di nessuno

InsegnanteIo non sono un grosso esperto di politica: ogni volta che ho dato retta ad un politico, anche se era un amico di vecchia data, ho preso sonore fregature. Però, con il mestiere che faccio, sono diventato un discreto esperto di ciarlatani. E vi posso garantire che quel progettone di rinnovamento e di miglioria della scuola italiana che passa sotto il nome di “Buonascuola” è l’evidente prodotto di una ciarlataneria assurta a dimensione ideologica. Perché, purtroppo, la cosa che manca di più a questo Paese, e massime in materia di pubblica istruzione, è il semplice buon senso. Quel buon senso che ci porterebbe a preferire una serena gestione della normalità a proposte da jimmy il fenomeno, in una materia in cui mancano perfino i soldi per comprare i pennarelli. Non entro nello specifico delle proposte, più o meno rimaneggiate a forza di emendamenti, di questa sedicente riforma della scuola: parlerò della sostanza, se me lo permettete, perché di chiacchiere e di teorie la scuola italiana ne ha messe in cascina già a sufficienza. E la sostanza sono le persone: la qualità delle persone, intendo. Perché il mondo della scuola ha una sua prerogativa essenziale: gli entusiasti sono quasi sempre i cialtroni, le mezze calzette, i miracolati da qualche infornata sanatoria. Invece, quelli bravi, quelli seri, quelli anche solo normali, a forza di piattume, di calci nel preterito, di palesi soprusi, hanno perso la voglia: vorrei vedere voi, se vi pagassero allo stesso modo del vostro collega assenteista, fancazzista o del tutto incapace.

Dunque, mi direte, la “Buonascuola” va nella direzione giusta: valutazione dei docenti, meritocrazia e alè hop! Adesso vi spiego come funzionerà, ammesso e non concesso che la leggina entri mai in vigore: funzionerà come la recente legge sui vitalizi. All’apparenza, si tagliano i vitalizi ai condannati: nella realtà, tali e tante sono le eccezioni, che, di fatto, il provvedimento colpirà soltanto i casi più eclatanti o i poveri fessi che non contano nulla. Così andrà per la valutazione: a chi pensate che sarà affidato l’arduo compito di valutare gli insegnanti? Nella migliore delle ipotesi, si valuteranno dei titoli scolastici risibili: una certificazione di uso del computer, un corso di inglese per principianti, tutti organizzati dai soliti sindacati e di nessun reale valore culturale o professionale. Nella peggiore, invece, a valutare saranno gli uomini: gli uomini del ministero, per intenderci.

Avete mai sentito parlare un ispettore del MIUR? Un dirigente, un funzionario di un CSA? La prima impressione, di solito, è di essere al cospetto di creature che appartengano ad un’isoglossa aliena: il primo scoglio, normalmente, è di tipo banalmente denotativo. Qualunque argomento, sia pure il più generale, in bocca a questi signori si trasforma in un’inestricabile accumulazione di tecnicismi insensati, di forme idiomatiche in italian-english e di fumosi concetti didattici. Poi, subentra la sensazione imbarazzante di trovarsi al cospetto di una persona culturalmente svantaggiata: un po’ come quando ti arrivano in casa i Testimoni di Geova ed iniziano a spiegarti la Bibbia, non sapendo che sei laureato in teologia a Tubinga. Insomma, queste figure di riferimento del comparto educativo, il più delle volte sembrano appartenere alla commedia all’italiana e non ad una burocrazia moderna. E, presumibilmente, i dinamici ed acuti esaminatori delle qualità culturali e didattiche del corpo docente nazionale saranno selezionati in questa brillantissima compagine: a meno che si voglia istituire una “task force” di insegnanti d’élite, delle “Stosstruppen” che si dedichino a questa lodevole operazione di selezione dei propri colleghi. Quod deus avertat. Già me le vedo, le truppe cammellate del ministero, coi loro completini di cattivo taglio, con le loro giacchettine striminzite, tutte orgogliose delle proprie vantardigie, che esaminano con sussiego curricula e candidati e poi scrivono sul verbale “innoquo” e “disdicievole”.

Me li vedo, perché li vedo, tutti i giorni, questi aspiranti superprofessori: dei poveracci sottopagati, cui rimane, ormai, soltanto l’alterigia del nobile decaduto, con la sua marsina rattoppata. E sono gli uomini che devono giudicare gli uomini, alla fine. E io di questi uomini, scusate tanto, non mi fido. Come non mi fido di Renzi con la sua lavagnetta e gli errori in streaming. Come non mi fido dei sindacati, che mantengono uno stuolo di distacchi inutili, che ci costano un capitale. Come non mi fido di questa scuola, né buona né cattiva, perché è proprio dalla scuola che parte il nostro disastro educativo e sociale. Dalla scuola degli uomini: non da quella delle parole, che da cinquant’anni è sempre bella e buona e brava, ad ogni farsesca riforma che Dio o chi per lui manda in terra. Sono gli uomini il problema dell’Italia: gli uomini sbagliati nei posti sbagliati. Gli imbroglioni a fare i politici, i cioccolatai a fare i professori. Non è che ci manchi il materiale migliore, è che da noi vige semplicemente la peggiocrazia: e che te ne fai di una buona scuola pensata da pessime persone?


Expo a rischio sagra, ma farà comunque bene al Pil

EXpo abc (2)Forse neanche il primo novembre, quando l’Expo sarà definitivamente chiusa, ci sarà un giudizio univoco se sia stato un successo o meno. Del resto, a esposizione iniziata, ci sono ancora commenti discordi sul fatto che si sia arrivati in tempo. Questione di punti di vista, ovviamente: che il più sia stato fatto è indubbio, ma è innegabile che all’inaugurazione non tutti i padiglioni fossero pronti e che a due settimane dall’inaugurazione ci siano ancora cantieri aperti. Tutto è molto relativo e la propaganda cerca di allontanare gli sguardi dai dettagli, che però sono quelli che contano.

A rendere più complicato il giudizio è che neanche adesso che l’Expo è iniziato si è riusciti a capire esattamente cosa sia e soprattutto a cosa punti. In un contenitore così vasto dove sono entrate aspettative di tutti i tipi si confronteranno soddisfazioni e inevitabili speranze deluse. Sono ovviamente contente le aziende che hanno lavorato e incassato per la costruzione, piuttosto mogi sono invece, almeno per ora, quanti si illudevano di avere vagonate di turisti stranieri da ospitare.

Intanto c’è il silenzio stampa su quello che alla fine dovrebbe essere il metro del successo dell’esposizione: il numero di visitatori. Dopo i primi due giorni di grancassa (200 mila presenze all’inaugurazione, 220 mila il giorno dopo, nel ponte del Primo Maggio) è stata messa la sordina sulle informazioni, salvo sporadici flash, sempre in positivo, come le code nel fine settimana, per gli ingressi serali a cinque euro, che onestamente vanno collegati all’interesse per i ristoranti (e magari in prospettiva allo spettacolo del Cirque du Soleil) più che alla visita dei padiglioni. Più che legittimo, comunque, perché in questa confusione di obiettivi non è escluso che i padiglioni che avrebbero dovuto essere il cuore e la ragione dell’Expo alla fine siano soltanto i fondali del palcoscenico.

Il commissario unico di Expo Giuseppe Sala ha dichiarato in occasione della prima conferenza di bilancio a 13 giorni dall’apertura dell’Esposizione, che “per la non facile verificabilità dei numeri giornalieri” (alla faccia della perfetta organizzazione !) non è possibile comunicare dati certi, ma continua ad ostentare sicurezza, parlando di un bilancio “più che positivo”. L’obiettivo dei 20 milioni di visitatori e 24 milioni di biglietti viene confermato anche se diversi commentatori hanno esultato per il raggiungimento del primo milione di ingressi (“ufficiosi”) dopo poco più di dieci giorni. Un ritmo che proietterebbe nei sei mesi a 18 milioni.

Anche sugli unici dati ufficiali ci sarebbe poco da esultare. Dopo che all’inaugurazione aveva dichiarato la prenotazione di 11 milioni di biglietti, il 13 maggio Sala ha comunicato che Expo può contare su undici milioni e trecentomila biglietti già emessi, fatturati o contro-garantiti da una fideiussione bancaria per gli accordi con i tour operator». Una crescita di soli 300 mila biglietti che appare piuttosto magra. Sala ha rilevato che “sono già più di 100 mila i biglietti venduti dal primo maggio per gli ingressi serali (al prezzo di 5 euro)”, così che la sua puntualizzazione che «Expo la sera è un successo» sembra essere per negazione l’ammissione che di giorno non lo è altrettanto.

Intanto degli 11,3 milioni di biglietti staccati, quelli effettivamente “incassati” sono cinque milioni, mentre il resto è garantito da prenotazioni in particolare di agenzie di viaggio. Complessivamente, 8 milioni sono stati venduti a 11 grandi distributori, 700 mila sul sito e con la distribuzione diretta di Expo, 350 mila alle scuole (ma con 700 mila prenotazioni). Ma ci sono biglietti e biglietti: via web costa 34 euro, ma vari rivenditori fanno prezzi più bassi e si possono trovare anche a 20. Si può comunque confidare che alla fine i numeri saranno raggiunti in un modo o nell’altro, ma dato che si sta parlando di un’esposizione universale non è solo una questione di quantità. C’è qualità differente nel visitatore e non solo per la capacità di spesa: un conto è uno straniero che deve pernottare, un conto è un milanese che torna a casa, un conto è uno studente, un conto è uno scolaro attrezzato di panino nella cartella, un conto è chi è interessato solo ai ristoranti. C’è la possibilità che alla fine l’Esposizione universale si riduca a un’estemporanea sagra regionale, frequentata soprattutto da lombardi e con una grande abbondanza di scolaresche. Ma poco male. Resteranno infrastrutture realizzate per 2 miliardi di euro, alcune di utilità generale, altre funzionali solo a un’area dalla destinazione incerta. E in ogni caso si darà data una scossa, come nelle migliori tradizioni delle politiche keynesiane, dove scavare una buca e poi riempirla muove comunque il Pil. Secondo Euler Hermes (gruppo Allianz) Expo darà un contributo dello 0,1% al Pil Italiano del 2015: con queste crescite a dimensione virgola non è da buttar via.

 


Il trionfo del “Tengo famiglia” in un Paese senza etica

tengofamiglia“La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Tengo famiglia”. La celebre battuta di Leo Longanesi ha più di 60 anni ma non perde mai d’attualità. Con un aforisma ha tradotto in immagine quello che la sociologia ha ribattezzato “familismo amorale”. Quello che si ritrova, così ci capiamo, nelle vicende che nei giorni scorsi hanno travolto il presidente delle Ferrovie Nord Milano, Norberto Achille, e il direttore generale dell’azienda ospedaliera Bolognini di Seriate, Amedeo Amadeo. Due storie che non si possono sovrapporre, ma che in comune hanno molto. A partire dall’accusa, da dimostrare in sede penale, di peculato. Cioè l’uso a fini privati di mezzi e soldi pubblici.

Le responsabilità eventuali le accerterà la magistratura. Limitiamoci a ricordare che ad Achille vengono contestate spese pazze per decine di migliaia di euro (dalle cene in ristoranti di lusso all’abbonamento Sky con acquisto di film porno per sollazzare le serate tristi fino a 125 mila euro di multe collezionate dai figli con l’auto blu aziendale) e ad Amadeo di essersi fatto prelevare in Croazia dall’autista (due volte) mentre era in ferie, di aver consentito che la figlia avesse forniture di latte in polvere dalla farmacia dell’ospedale, di aver fatto pagare dall’azienda una collaboratrice usata per la campagna elettorale delle Comunali 2014.

Ciò che rileva, ancor prima degli aspetti penali, è l’etica, specie per chi è un amministratore pubblico. I comportamenti che emergono dalle indagini e dalle intercettazioni mostrano una disinvoltura che fa strame di un valore cardine della società civile. Quel che più sconcerta (ma non stupisce), per tornare al motto “Tengo famiglia”, è vedere come non ci si accontenti di garantire a sé i privilegi connessi ad una carica pubblica già lautamente retribuita. Nella grande mangiatoia ci devono essere briciole anche per i figli, “pezz ‘e core” da pascere finché si può.

E’ un risvolto secondario, se volete. Dice molto, però, di quanto il nostro Paese non riesca a cambiare, a diventare grande. Sono le stesse inchieste di cui stiamo parlando che dimostrano come, a più di vent’anni da Mani Pulite, e dopo le tante clamorose vicende di corruzione e malaffare emerse praticamente in ogni angolo d’Italia, siamo sempre al punto di partenza.

C’è ancora tanta, troppa, gente che considera le regole un orpello inutile, che non s’accontenta di gestire posizioni di potere e guadagnare uno sfracco di soldi, che ritiene che tutto gli sia dovuto, che pensa che sull’altare di buone performance aziendali si possano chiudere gli occhi sui vizietti privati. E purtroppo, sconforta constatarlo, tocca sempre alla magistratura sollevare il velo sui comportamenti disinvolti.

Anche nei casi citati, nessuno si è mai accorto di nulla, nessuno ha visto o sentito niente. I preposti ai controlli non c’erano e se c’erano dormivano. Anche quando, com’è successo con Achille, i giornali hanno dato evidenza alle spese pazze. Fino all’assurdità, per voler essere generosi, del presidente della Regione Roberto Maroni, che è riuscito a dire di non poter fare nulla rispetto agli amministratori di una società controllata al 57 per cento dal Pirellone. Salvo nominare, appena il presidente indagato si è fatto da parte, personaggi con la targa di partito (il suo) sul sedere. Siamo sempre là: il “Tengo famiglia”, politica in questo caso, ha trionfato un’altra volta.


Centenario della prima guerra, che amarezza i silenzi di PalaFrizzoni

Palazzo FrizzoniCi ritorno, ossessivamente, ripetitivamente: è la cimminite, da cui non mi riesce di liberarmi. E’ una fissa che vi infliggo: gira che ti rigira, a questa faccenda del centenario della prima guerra mondiale, prima o poi, devo ritornarci. Sono malato di guerra, inebetito dagli ormoni del patriottismo, assuefatto alle più indigeribili cicalate storico-rievocative. D’altronde, sono un sopravvissuto anch’io: sono un reduce, in un certo senso. Mia mamma, anziché portarmi con gli altri bambini a sdilinquirmi per i daini del parco Suardi, mi trainava, un giorno sì ed uno no, al museo del Risorgimento: e si vede che di fiato ne aveva da vendere, perché, salendo in Città Alta, mi cantava tutto il tempo “Cara biondina capricciosa garibaldina, trullallà…” o “Il Piave mormorava…”. E io metabolizzavo: inghiottivo e peptonizzavo quel popò di manzo fagiano, e ne traevo succhi, linfe e questa inguaribile sindrome guerrofila.

Cosa pretendete da uno tirato su a capricciose garibaldine e fiumi mormoranti? Dunque, mi sono detto che, in questo anno di grazia 2015, la mia bramosia sarebbe stata, finalmente, placata. E, in un certo senso, il Padreterno mi ha concesso la proverbiale troppa grazia: non c’è settimana in cui non mi ritrovi in qualche posto a parlare di questa guerra, Trentino, Abruzzo, Veneto. Ieri, ad esempio, sono stato a Maserà, paesino sulla Conselvana, in provincia di Padova: oggi sarò dalle suore, settimana prossima a Gorizia e poi a Calalzo. Insomma, posso ben dire di essere degno di quella trottola patriottarda che era mia madre, quando la gamba la sosteneva.

Anche nella nostra provincia è tutto un fiorire di iniziative, qualcuna meglio strutturata, qualcun’altra, magari, un po’ tirata per i capelli, ma tutte lodevoli, se non altro per l’impegno: Alzano e Piazza Brembana, Peia e Carvico, Seriate e Gorle, insomma, non c’è paese che non organizzi qualcosina sul tema della prima guerra mondiale. Bravi i sindaci, brave le associazioni e bravi i cittadini, che, anziché guardarsi la De Filippi in tv, vengono ad ascoltarsi le mie bubbole. Si va dai temi più generali, come le ragioni della guerra o dell’intervento italiano, fino a temi specifici: i ragazzi del ’99, gli arditi, Caporetto o, addirittura, strettamente territoriali, come i Bergamaschi in guerra o i fratelli Calvi. Tutto fa brodo: onestamente, purchè ci si ricordi di questa fettazza della nostra storia, da tempo vilipesa e trascurata, andrei a parlare anche dell’uso delle gavette sul fronte di Salonicco.

Chi latita, purtroppo, sono i pesci grossi: la regione Lombardia e il comune di Bergamo. La prima, a guida centrodestra, mi pare che consideri questo centenario un po’ come un fastidioso obbligo, da levarsi dai piedi il più in fretta possibile: una specie di vezzo passatista che rischia di distrarre un po’ di attenzione dal carrozzone dell’Expo e che è più un danno che un’opportunità. Tanto è vero che il comitato scientifico che dovrebbe occuparsi della valorizzazione del patrimonio storico regionale della Grande Guerra (e di cui, immeritatamente, faccio parte), si è riunito una sola volta, giusto per eleggere il presidente e il vice. Questo mentre Trentino, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, ossia le altre regioni interessate dall’evento, da anni stanno lavorando per celebrare, ristrutturare e valorizzare il proprio bagaglio storico.

Lo stesso dicasi per il comune di Bergamo, a guida centrosinistra: a parte l’inaugurazione della torre dei caduti, ristrutturata a spese di un istituto di credito, è il nulla pneumatico. Incompetenza? Cattiva volontà? Mancanza di idee? Eppure, a Bergamo ci sarebbero numerose iniziative di interesse nazionale ed internazionale da proporre: io ne avrei una decina nel cassetto. Ma nessuno me le chiede, perché, evidentemente, qui da noi gli storici della prima guerra mondiale crescono come funghi. Oppure perché, in un contesto che vorrebbe spostare tutta l’attenzione sul coincidente settantesimo della Liberazione, uno storico vero potrebbe infastidire le smanie di protagonismo di qualche storico fasullo. Da una parte, la totale ignoranza della materia 1915-18 e, dall’altra, la protervia nel voler monotematizzare, a proprio vantaggio, la storia contemporanea, evidentemente, fanno sì che si cerchi di cancellare la, passatemi il termine, concorrenza. Solo che chi ci rimette è la città.

Come noterete, ho il dentino un pelo avvelenato: va bene che “nemo propheta in patria”, però, un colpetto di telefono, una mail, la richiesta di un suggerimento, mi pare che avrebbero potuto arrivarmi, stante, soprattutto, il rigor mortis culturale sul tema. Così, continuo a girare per l’Italia, con l’amarezza di non poter fare nulla per casa mia: mi sento un po’ come un leone in gabbia. Ovverosia, leggermente incazzato. Ecco, questo volevo dirvi sul tema del centenario: il rospaccio rospo lo dovevo recere. E’ più forte di me. E, credetemi, non è questione di lavoro: di quello, ahimè, ne ho fin troppo. E’ questione di amore per la propria terra. E, un pochino, per la propria mamma. Ma questa è un’altra storia.


L’analisi / Le relazioni industriali alla prova degli scioperi

Scioperodi Davide Mosca*

La Germania sta conoscendo in questi giorni lo sciopero più lungo della sua storia. Il braccio di ferro, questa volta, non interessa la categoria dei piloti e la compagnia Lufthansa, bensì i macchinisti dei treni (sia merci che passeggeri) e la nota società tedesca Deutsche Bahn.

La sigla sindacale tedesca GDL (Gewerkschaft Deutscher Lokomotivführer), che conta poco meno di 20.000 iscritti (approssimativamente il 9-10% del totale dei dipendenti della DB), ha avanzato alla società ferroviaria tre importanti rivendicazioni: una riduzione dell’orario di lavoro settimanale (da 39 a 37 ore), un aumento in busta paga del 5% e la possibilità di rappresentare anche le altre categorie di lavoratori delle ferrovie. In tutta risposta Deutsche Bahn ha fatto notare l’inammissibilità della piattaforma sindacale, rilanciando il confronto con la controproposta di un aumento salariale più contenuto (del 4,7% anziché del 5%, con un’erogazione “una tantum” aggiuntiva di 1.000 euro) unitamente a una risoluzione arbitrale della controversia.

Il negoziato ha però condotto ad un punto morto. Le parti non hanno raggiunto un’intesa e le accuse, reciproche, non sono mancate. Il vero pomo della discordia è consistito nel rifiuto dell’azienda di permettere alla GDL di siglare accordi anche per lavoratori diversi dai macchinisti. Il risultato è stato lo sciopero indetto proprio in questi giorni dal sindacato. La società ferroviaria, dal canto suo, è stata costretta a preparare repentinamente un “piano di emergenza”, che, stando alle promesse, dovrebbe garantire almeno il 30% delle corse. Quel che pare comunque certo è che le ripercussioni sugli utenti saranno inevitabili.

Ad essere messa a dura prova non è solo la pazienza di pendolari e viaggiatori, ma altresì lo sviluppo economico di un intero paese. L’economista Stefan Kipar ha affermato che questo conflitto potrebbe costare al sistema tedesco più di 700 milioni di euro. Oltre il danno si rischia la beffa, sicché l’evento potrebbe minare la reputazione della Germania agli occhi degli investitori stranieri e implicare, inoltre, una revisione al ribasso delle stime di crescita.

Il fronte politico non sta a guardare. Il ministro dell’economia Sigmar Gabriel ha voluto evidenziare l’irresponsabilità della (minoritaria) sigla sindacale GDL, rea di mobilitare le maestranze solo ed esclusivamente per una lotta di potere all’interno della rappresentanza sindacale di categoria. La cancelliera Angela Merkel, dal canto suo, si è resa disponibile per un tentativo di mediazione, auspicando una repentina soluzione. Persino il segretario generale della DBB (Deutscher Beamtenbund), Klaus Dauderstaedt, spera in un accordo tra le parti, invitando a non mostrare pregiudizi verso la possibilità di arbitrato.

Un’assonanza con il caso italiano è innegabile, soprattutto alla luce delle vicende più recenti. Si pensi alla mobilitazione nei trasporti locali che, promossa dai Cub, nei giorni scorsi ha bloccato la città di Milano. Eventi quali l’Expo amplificano il bacino di utenza colpito da azioni conflittuali di tal genere e garantiscono alle sigle sindacali, anche minori, una visibilità sicuramente amplificata. A queste condizioni, il ricorso allo sciopero è quindi ancor più appetibile. Forse sin troppo appetibile se il risultato è un calderone di rivendicazioni che spesso cercano soltanto risonanza. L’Italia non è certo il Far West, una norma di contemperamento tra il diritto allo sciopero (art. 40 Cost.) e i diritti della persona costituzionalmente tutelati c’è ed è la legge 12 giugno 1990, n. 146. Pur tuttavia la coperta è corta, non pochi servizi sfuggono dalla definizione di essenzialità e anche le più piccole sigle sindacali possono tenere in scacco una moltitudine di utenti.

Il trade-off è il seguente: come conciliare il potere rivendicativo in capo alle organizzazioni sindacali con le necessità degli utenti? Nel parere di chi scrive, la vera soluzione passa per le relazioni industriali. In questo senso, le parti devono essere incentivate a ricorrere a incontri di confronto e composizione dei conflitti direttamente in azienda, ad esempio puntando sull’istituzione di commissioni paritetiche a ciò obbligatoriamente preposte, così da raggiungere in tali sedi aggiustamenti contrattuali e trovare reciproca soddisfazione.

Da un punto di vista giuridico, potrebbe essere utile legare la proclamazione dello sciopero ad una soglia di rappresentatività minima. A questo accorgimento, senza cadere in una burocratizzazione dell’azione collettiva, seguirebbe l’organizzazione dei cosiddetti “pre-strike ballots”, proprio sul modello anglosassone, in modo da assicurare la reale sostenibilità e legittimazione dell’azione collettiva. In caso di una prospettata elevata adesione, per di più, le aziende potrebbero essere incentivate ad andare incontro alle pretese dei lavoratori, scongiurando in alcuni casi l’esplicarsi della “prova di forza”. Qualcosa nelle aule del Parlamento c’è già. I fatti tedeschi sono probabilmente l’ennesima dimostrazione che un dibattito sul punto non è rinviabile. Fare ciò è soprattutto nell’interesse del sindacato, quello degno di questo nome, affinché eviti “effetti boomerang” e non pregiudichi se stesso.

*ADAPT, Università degli Studi di Bergamo


Albinoleffe, il grande sogno spezzato dal dna bergamasco

UC AlbinoLeffe v Reggina Calcio - Serie BE’ una storia molto bergamasca, quella dell’Albinoleffe, precipitato nei Dilettanti dopo un decennio nel calcio d’élite (con tanto di serie A sfiorata), al termine di una stagione ingloriosa. E’ la vicenda paradigmatica di chi fa del “piccolo è bello” un dogma, di chi non sa o non vuole condividere progetti con altri, di chi si chiude in una autoreferenzialità che individua in chiunque osi muovere osservazioni critiche o anche opinioni dissonanti un potenziale nemico. A suo modo, la società seriana, incarnata nel bene e nel male dal suo presidente Gianfranco Andreoletti, ha seguito una parabola simile a quella di molti altre realtà, specie in campo economico, della Bergamasca. Nata da una felice intuizione, mettendo a fattor comune l’esperienza di due sodalizi storici del calcio orobico (Leffe e Albinese) e chiamando alla gestione alcuni dei principali imprenditori della Valle Seriana, ha smarrito nel corso del tempo la filosofia che l’aveva portata ad essere presa a modello in campo nazionale. Una favola, la si era dipinta ad un certo punto, con quel di più di facile retorica che nel giornalismo, non solo sportivo, si spreca nell’illusione di catturare attenzioni facili. E forse lo avrebbe potuto essere davvero se chi ne era alla guida, persona di specchiata onestà e gran lavoratore, non si fosse fatto cogliere dal virus del solipsismo tipico del “one man show”. Eppure, c’erano tutte le condizioni per consolidare l’esperienza, farle mettere radici e aiutarla nella crescita. Sarebbe bastato, si fa per dire, capire che in una realtà come quella bergamasca non era possibile, per nessuno, rubare la scena all’Atalanta. Sì, c’è il caso Chievo che dimostra la possibile coesistenza ad alto livello di due società calcistiche in una città non metropolitana. Ma Verona è grande due volte e mezzo Bergamo. E comunque, è l’eccezione che conferma la regola. L’Albinoleffe avrebbe dovuto stringere un rapporto di collaborazione con l’Atalanta. Di qua una società con un fiorente settore giovanile che ha bisogno di mandare le sue promesse a farsi le ossa. Di là, un’altra società che non ha grandi risorse e che può quindi mettere a disposizione spazi per talenti in erba. Come unire due opportunità, insomma. Semplice come bere un bicchier d’acqua. Ovunque, forse, ma non a Bergamo dove in tanti anni, per ragioni e responsabilità che è vano cercare di individuare, non si è riusciti a tenere aperto nemmeno un canale di formale dialogo (basti ricordare le beghe sull’uso dello stadio e sulle spese di ristrutturazione). Meglio andare avanti ciascuno per la propria strada, e pazienza se tanti risorse vanno sprecate. Nessuno stupore, sia chiaro. L’individualismo sta scritto nel codice genetico dei bergamaschi. Quante realtà sono state spazzate via dalla crisi perché non si è stati capaci di unire le forze, di aprire il capitale ad altri soci, di affrontare il mercato in mare aperto, come pure altrove avviene d’abitudine? Si dirà: ma non si può prendere l’Albinoleffe come modello e generalizzare. Beh, che dire, allora, della situazione in cui versa, cambiando sport, la Foppapedretti? Qui abbiamo la controprova. Il presidente Luciano Bonetti, anche lui per indole un discreto accentratore ma non al punto da non comprendere la necessità di condividere gli impegni di una impresa sportiva di alto livello, nelle scorse settimane si è sgolato per far comprendere anche ai sordi che il volley femminile a Bergamo può avere un futuro solo se si farà avanti qualcuno disposto a dare una mano. Bene, ne ha avuto come risposta un silenzio assordante. Interrotto solo dall’indiscrezione, che pare piuttosto fondata, su un possibile interessamento di Antonio Percassi come sponsor, grazie anche agli auspici di autorevoli personaggi. Un’ottima soluzione, intendiamoci, ma rivedere in prima linea un soggetto già sovraesposto come il presidente dell’Atalanta, conferma la desolante mancanza di generosità di tanti imprenditori bergamaschi bravi ad applaudire i successi di calciatori e pallavoliste salvo non chieder loro di aprire il portafogli. Oggi si ammaina. Almeno a certi livelli, la bandiera dell’Albinoleffe come ieri è toccato a quella della Virescit o del Celana nel basket. Le lacrime di coccodrillo si sprecano, la voglia di cambiare, purtroppo, non si vede.


Poveri italiani, ormai come rane a bagnomaria

rana ChomskyVi invito a leggere la splendida poesia di Baudelaire “Remords posthume” e, subito dopo, quella, assai meno felice, del nostro Olindo Guerrini, che si intitola “Il canto dell’odio” e che proprio al poeta francese si ispira: noterete immediatamente, aldilà della differenza di statura tra i due autori, che Guerrini sta a Baudelaire come un film splatter sta ad Hitchcock. Tra le due opere sono trascorsi vent’anni esatti: una è del 1857 e l’altra del 1877. In questo breve lasso di tempo, qualcosa è accaduto, nel gusto del pubblico. Entrambi i poeti avevano l’intenzione di “épater le bourgeois”, di scandalizzare il benpensante: ciò che, però, scandalizzava un parigino del tempo di Baudelaire, non avrebbe fatto né caldo né freddo ad un milanese contemporaneo di Guerrini. E, quindi, le parole, le immagini, le tonalità del poeta forlivese, risultano assai più violente, rispetto a quelle del suo modello. Perché la gente si abitua: poco alla volta, metabolizza, gramola, si adegua. E, alla fine, non reagisce più agli stimoli, a meno che questi stimoli non divengano sempre più esasperati, in un gioco al rialzo che, spesso, è un gioco al ribasso, come nel caso della poesia di Guerrini.

Un esperimento che rende benissimo l’idea del comportamento della folla nei confronti dei cambiamenti graduali, è quello della rana di Chomsky. In questo apologo, il celebre linguista descrive il comportamento di una rana, immersa in una bacinella che venga progressivamente riscaldata: poco alla volta, il povero batrace s’intorpidisce, e, alla fine, quando l’acqua diventa bollente, non è più in grado di reagire, come farebbe, invece, se lo si gettasse direttamente nell’acqua calda, e muore bollito. La gente, dice Chomsky, si comporta proprio come la ranocchia: se le si propina una novità troppo bruscamente, reagisce, s’imbizza, s’impenna. Se, però, le cose vengono modificate un pochettino alla volta, ci si abitua: la reattività sociale e quella politica si addormentano e, alla fine, ci si ritrova impacchettati, senza nemmeno capire come sia accaduto. Da noi, è successo esattemente questo: tante volte, mi sono chiesto e vi ho chiesto come siamo arrivati a questo punto. Ebbene, la risposta consiste, probabilmente, proprio in questa caratteristica degli esseri umani: in questo essere come una rana a bagnomaria. Quello che trenta o quarant’anni fa sarebbe stato considerato inaccettabile, inaccoglibile, addirittura illegale, oggi viene universalmente, se non accettato, perlomeno sopportato. Noi, oggi, sopportiamo vulnerazioni alla civiltà, alla cultura, alla morale, che mai i nostri ancestri avrebbero tollerato: ci siamo abituati, tutto qui.

Ricordo, ad esempio, perfettamente, quando Veltroni, molto tempo fa, parlava di ineluttabili società multietniche: non sto adesso a discutere se, allora, fosse un visionario o semplicemente un imbecille, ma dico che, all’epoca, venne certamente guardato dal mondo conservatore come un imbecille. Ha fatto tre anni di professionali, dicevano i benpensanti: cosa vuoi che capisca di flussi migratori? Invece, a distanza di qualche anno, eccoci qui, a convivere con una multietnicità crescente e, talora, inquietante: com’è successo? Quando ce l’hanno imposta? E’ successo un poco alla volta e nessuno ce l’ha imposta: semplicemente, giorno dopo giorno, a forza di sentir ripetere, come un mantra, che la cosa non solo era inevitabile, ma era anche buona e giusta, ci siamo ritrovati così. Lo stesso dicasi dell’ideologia gender: una volta, purtroppo, gli omosessuali erano seriamente discriminati. Poi, un poco alla volta, hanno cominciato a venire allo scoperto e a rivendicare i propri giusti diritti: oggi, però, si discute seriamente circa l’abolizione della festa della mamma, in quanto festa sessista. E’ la religione genderiana che avanza: com’è potuto accadere? Quando questa grottesca negazione perfino della logica ha preso piede? Un passino alla volta, senza fretta: e, oggi, se tu ti limiti a dire che preferisci una famiglia composta da un padre ed una madre, rispetto a quella composta da tre uomini e un cavallo, ti becchi pure dell’omofobo e del sessista. Ci si abitua: a tutto ci si abitua, purtroppo.

Dunque, prepariamoci ad una crescita esponenziale della trasgressione, perchè, ormai, per “épater le bourgeois” ci vuole la dinamite: la storia, come ci spiega i meccanismi dell’adeguamento, ci preannuncia anche l’esito del processo. Le dinamiche storiche si giocano sempre sullo stesso tavolo, che è quello sul quale si scontrano la capacità di sopportazione e l’istinto di conservazione. Come nel caso della rana di Chomsky, l’acqua si sta scaldando, poco a poco: tutto dipende dalla nostra reazione. Se sapremo saltar fuori dalla pentola, ci saranno tensioni e lacerazioni enormi, prima di tornare ad una condizione relativamente pacifica: se non ne saremo capaci, scompariremo, addormentandoci pian piano. L’alternativa, insomma, è tra una brutta vita ed una bella morte. Amen.


Troppi elogi al bilancio preventivo di Gori

45453frizz.jpgE’ il sogno di ogni amministratore pubblico (e allo stesso tempo di ogni amministrato) poter presentare ai propri cittadini una riduzione delle tasse e un aumento dei servizi. In un periodo di spending review e di tagli ai trasferimenti agli enti pubblici sembrava un sogno particolarmente impossibile anche solo da accarezzare. Ma Giorgio Gori alla sua prima prova sul campo, dato che l’anno scorso aveva ereditato quanto impostato dalla precedente amministrazione, ci prova. Nel suo bilancio preventivo non alza le aliquote delle imposte esistenti, ma anzi riduce del 5% la Tari, la tassa sui rifiuti, uno sconto da 900 mila euro che permette, in chiave politica, di tenere alta la bandiera. Curiosamente, almeno nella presentazione pubblica, non si è fatto cenno ai minori introiti, almeno iniziali, nella prospettiva di un successivo rientro negli anni successivi, previsti per gli sgravi all’insediamento di nuove attività in città, una politica oggetto di molta buona stampa, anche nazionale, ma che a questo punto, nel concreto, non sembra avrà almeno per questo bilancio grande impatto.

Già la riduzione della Tari, seppure simbolica (900mila euro per quasi 120 mila residenti, fa circa 8 euro a testa), però fa meditare. Se è stato possibile diminuire le tasse in presenza di un ulteriore taglio dei trasferimenti di 4,6 milioni vuol dire che forse si poteva fare anche l’anno scorso quando il bilancio era più ricco. E se si possono tagliare le tasse nonostante tutti i tagli alle entrate fatti finora e i nuovi che si aggiungono, riuscendo comunque a tenere botta, viene il dubbio che le lamentele degli enti pubblici sulla riduzione dei trasferimenti non siano poi così motivate.

Ma questo è il primo bilancio di Gori e forse questo preventivo generoso serve soprattutto politicamente proprio per marcare la differenza con il passato. E quindi non guardiamo indietro, ma in avanti e dentro le cifre. La prima impressione è che questo bilancio risenta del male tipico dei conti pubblici italiani. Da una parte ci sono riduzioni certe, come i mancati trasferimenti, dall’altra parte ci sono entrate compensative piuttosto aleatorie. Esponenti della stessa giunta hanno parlato di un miracolo per il risultato. Ma dato che la contabilità è una scienza laica, c’è da diffidare di un bilancio che si richiama al trascendente. Alla fine i conti vengono fatti tornare grazie ai lumini (formalmente una tassa, dall’introito previsto di 640 mila euro) e alle multe. Come principio può anche essere condivisibile quello di puntare, con misura, su meno imposte (che interessano l’intera collettività) e più tasse (pagate da chi ottiene un servizio, in questo caso cimiteriale) e più sanzioni (che colpiscono chi compie violazioni, in questo caso stradali), ma basare un bilancio in buona parte sull’aspettativa di consumi (in particolare di ceri funebri) e di una crescita dei comportamenti irregolari è ad altro rischio di scostamento dalla realtà.

E se i contribuenti decidessero che in fondo, a babbo morto, sulla luce pseudoeterna, così come di tanti orpelli funebri, si può anche fare a meno? E se gli automobilisti bergamaschi iniziassero a guidare come gli svizzeri sulle strade elvetiche? Sarà anche una questione tecnica, come ha spiegato l’assessore competente, ma vedere la voce delle multe salire in un anno da 5 a 9 milioni sembra l’auspicio di un boom della trasgressione stradale. Si giustifica che i nove milioni sono dovuti a un meccanismo contabile che impone ai Comuni di indicare le sanzioni accertate, anche se non è certa la riscossione. Appunto, non è certa, al di là del fatto che accanto alla previsione di un maggiore potenziale di sanzioni, viene inserito un fondo di svalutazione pari a 2,6 milioni euro, a garanzie delle somme non riscosse. Questo vuol dire, a stare larghi, che già ora una multa su quattro non viene incassata. Ci saranno errori corretti che gonfiano il numero, ma sarebbe interessante capire il perché degli altri mancati incassi.

Così come sarebbe interessante capire nel dettaglio cosa si intende quando si dice che quasi metà delle minori risorse versate dall’amministrazione centrale saranno recuperate (2,1 milioni) con “un utilizzo efficace delle regole contabili”. C’è il paradosso dell’architetto Gori che dà bacchettate al commercialista Tentorio che quest’utilizzo efficace non ha evidentemente fatto o è solo un altro modo di definire la tremontiana finanza creativa?

In ogni caso non va dimenticato che quello appena presentato dal Comune di Bergamo è solo un preventivo, per sua natura destinato ad avere aggiustamenti. Viene presentato come un bilancio chiaro, ma lascia qualche dubbio sulla carenza di un altro principio fondamentale nella redazione, quello della prudenza. Non è solo una soddisfazione da contabile quella di riuscire ad evitare ripensamenti: è anche la dimostrazione di un saldo controllo della situazione, per quanto possibile. I conti, anche quelli politici, si fanno a consuntivo. Se la squadra di Gori riuscirà a presentare il bilancio finale in equilibrio senza tagliare investimenti o servizi oltre a quanto previsto, senza dover cercare risorse in tasse o cessioni dell’ultimo momento e senza rimandare all’anno prossimo, magari con gli interessi, quanto sarebbe servito fare in questo, gliene sarà dato merito. Buona l’intenzione, ma un po’ di sana prudenza non guasta: troppi elogi preventivi sanno di propaganda.


Perché qui la febbre dell’Expo non è salita

LondraCi sarà cibo, design e cultura. La stampa inglese non ha dato spazio all’apertura dell’Expo 2015, forse troppo preoccupata dell’arrivo della principessa Charlotte e a fare pronostici sui nomi della bambina. Come al solito le cattive notizie viaggiano veloci e i disordini di alcuni giorni fa, hanno risvegliato l’attenzione dei corrispondenti dei giornali inglesi dall’Italia, che non hanno risparmiato righe di inchiostro per descrivere i disordini dei no Expo, che stentano a comprendere. Non tanto che ci siano i manifestanti, quanto che le autorità cittadine autorizzino una manifestazione in un momento come questo.

Oltre a cibo e vino, gli inglesi visualizzano l’Expo come un Salone del Mobile al quadrato, arricchito dal bel canto di Andrea Bocelli e della musica sublime del pianista Lang Lang. Se poi a questo si aggiunge la mostra dei disegni di Leonardo da Vinci a Palazzo Reale, e i musei-fondazioni aperti dalle case di moda italiane, e le memorie del Salone ancora fresche nella mente, Milano si presenta come il luogo dove, in questo momento ed in Europa, accadono cose, e sono interessanti.

Nelle ultime settimane, dopo lo choc provocato dalla sparatoria al tribunale, abbiamo visto non soltanto l’apertura dell’Expo, con le alte cariche a ripararsi dalla pioggia con i poncho usa e getta, ma soprattutto il maestro Giorgio Armani che festeggia i 40 anni di onoratissima carriera e apre Armani/Silos. La famiglia Prada ha fatto lo stesso, portando a nuova vita un’ex area industriale grazie al lavoro di Rem Koolhaas. La Fondazione Prada ospiterà mostre e darà una nuova casa alla loro estesa collezione d’arte. Stampa e amici della famiglia Prada-Bertelli hanno già curiosato e messo foto e video sui social media, per il piacere e gli occhi di noi curiosi, chi ha reso omaggio a re Giorgio lo abbiamo visto su tutte le gallerie fotografiche dei giornali. Io guardavo e dicevo tra me – I wish I was there!

Ma torniamo all’Expo e ai motivi per cui è passato in sordina. L’assenza di pubblicità e di comunicazione è il primo che mi viene in mente. Mi sarebbe piaciuto vedere qualche pubblicità in giro per Londra, nei luoghi frequentati dagli italiani a Londra e negli aeroporti, magari sulle tratte che collegano Londra a Milano e Bergamo. Mi viene inevitabile pensare al clamore mediatico suscitato cinque anni fa dall’Expo di Shanghai, con tanto di visite ufficiali del primo ministro David Cameron e delegazioni delle grandi multinazionali, in prima linea quella per cui lavoravo io.

L’edizione precedente dell’Expo era stata interpretata dall’Inghilterra come un’occasione per rinforzare gli accordi commerciali con la grande Cina. Se poi ci mettiamo che svariate archistar inglesi quali Thomas Heatherwick e Norman Forster ne avevano disegnato gli spettacolari padiglioni, si capisce che la stampa e l’opinione pubblica, avevano dei motivi di larga scala per interessarsi. Non dimentichiamoci anche che l’Expo in Cina era costato oltre 15 Miliardi, mentre quello di Milano non supera i 3. Stiamo a vedere che succede, per me Milano ha tutte le carte in regola per stupirci.

Alessandra Canavesi

www.italiangirlinlondon.com