Graziani: «Cari studenti, non
scoraggiatevi pensando al futuro»

Con la campanella di sabato 8 giugno sono terminate le lezioni nelle scuole lombarde e per molti studenti sono iniziate le vacanze, mentre i docenti sono impegnati negli adempimenti di fine anno tra scrutini e pagelle. Dopodiché inizieranno gli esami di Stato per 18.984 studenti delle scuole bergamasche. A cominciare per primi sono gli 11.312 alunni di terza della scuola secondaria di primo grado che affronteranno le prove appena conclusi gli scrutini finali e il 17 giugno lo scritto nazionale Invalsi, di italiano e matematica, alla sesta edizione e uguale in tutta Italia.
Per i 7.672 candidati di quinta superiore cominciano via agli esami di Stato. Si sta quindi concludendo un anno di lavoro molto intenso, che ha visto le scuole bergamasche impegnate ogni giorno nell’offrire un servizio altamente qualitativo dal punto di vista didattico, educativo e formativo, attento alle istanze dell’utenza e volto alla valorizzazione di conoscenze, abilità personali e competenze di ciascuno studente.
Ragazzi, siate vincenti e non scoraggiatevi di fronte al delicato periodo economico e sociale attuale, perché il merito premia sempre. Il mio augurio è che il clima di sfiducia generale non scoraggi voi studenti, facendovi temere per il vostro domani.
A voi ragazze e ragazzi è richiesto un maggiore impegno in modo da poter affrontare le sfide con cui dovrete confrontarvi ora e nei prossimi anni. Mostrate con coraggio quanto valete ed esprimete il meglio di voi stessi, con serietà e impegno, vivendo l’appuntamento con gli esami di Stato, sia al termine della scuola media sia del quinquennio superiore, come un momento formativo irrinunciabile, un punto di arrivo ma soprattutto di partenza per le vostre scelte future, di studio o di lavoro. 
Gli esami sono ormai alle porte. Ci siamo. Affrontate dunque con la vostra consueta energia e con motivazione quest’ultimo periodo di preparazione, evitando la corsa sfrenata alle ultime conoscenze. Si sta per concludere un percorso che vi ha fatto crescere come persone e come cittadini. Ecco, pensate positivo e investite sul vostro futuro da protagonisti!
Ai commissari e ai presidenti di commissione raccomando di operare con rigore e serietà, uniti ad un atteggiamento di accoglienza e attenzione, per valorizzare gli elementi positivi di tutti gli studenti. Sono certa che svolgerete un buon lavoro, con elevata professionalità e spirito di dedizione. Buon esame e buon lavoro

Patrizia Graziani. dirigente dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Bergamo


“Senza un Sistema Paese efficiente per le imprese sarà sempre dura”

Andrea Paganelli, milanese, 46 anni, laurea in Ingegneria delle tecnologie industriali al Politecnico, dal 1996 al 2001 ha lavorato per la New Holland, marchio che appartiene al gruppo Fiat. Dal 2002 al 2004 ha diretto gli stabilimenti di montaggio della Bonfiglioli Riduttori. Da nove anni è alla Same Deutz-Fahr di Treviglio, dove oggi ricopre il ruolo di direttore industriale del gruppo. L’azienda, fondata nel 1927 dai fratelli Cassani, impiega 1.280 lavoratori ed è quarta nel mondo per la produzione di trattori e macchine agricole. Il 90% delle vendite avviene all’estero.
Ingegner, la contrazione del mercato italiano spinge per forza a cercare uno sbocco al di fuori dei confini nazionali?
“In Italia, da tre-quattro anni, la situazione economica è disastrosa. E’ necessario puntare ai nuovi mercati, dell’Est asiatico e del Sudamerica. Anche se in Europa stanno funzionando bene quelli di Germania e Polonia”.
Si produce anche nei Paesi in via di sviluppo per il minor costo della manodopera?
“Assolutamente no, sì produce lì per aggredire quel mercato con un prodotto adatto alle richieste domestiche. E spesso, ma non sempre, può significare la creazione di macchinari dalla qualità low cost”.
La sua visione sull’Italia è pessimistica?
“Se vuoi vendere, da noi, è un problema. Da sola un’azienda non ce la fa. Manca un sistema Paese che agevoli l’imprenditoria. Se l’economia non si rimette presto in moto vedo poche speranze per il futuro”.
Stiamo seguendo le sorti di Spagna e Grecia?
“Nei Paesi del Mediterraneo le difficoltà economiche sono acuite. Anche per questo la nostra forza è lo stabilimento tedesco di Lauingen. Ma dal gennaio del 2014 apriremo anche in Cina, con il via produttivo dello stabilimento nello Shandong”.
Perché i tedeschi non hanno subìto gli effetti della crisi?
“E’ una ruota che gira. La Germania investe nella piccola e media impresa che a sua volta traina l’agricoltura. In questo modo i contadini riescono ad accedere ai finanziamenti pubblici e gli operai possono ottenere, facilmente, mutui o prestiti in banca”.
Quanto influisce il costo del lavoro?
“Il prezzo di un prodotto è dato per l’85 per cento dal materiale, la manodopera incide per il 15 per cento”.
Ma il salario in Germania è tra i più alti.
“Un operaio tedesco medio, di quarto livello, costa all’azienda 36-38 euro all’ora. Il collega italiano 27 euro. In un anno i primi scioperano, se capita, al massimo quattro ore, gli italiani cinquanta ore, a volte con picchi di otto al mese, facendo lievitare il costo del lavoro. Dunque, conviene produrre in Germania”.
La colpa è del sindacato?
“No, è uno strumento importante che porta a raggiungere accordi per mantenere i giusti equilibri tra le parti. Diverso il giudizio per la Fiom, troppo estremista”.
Cosa può fare lo Stato italiano per agevolare le imprese?
“La tassazione è esagerata e ci sono pochi finanziamenti a fondo perduto. Mio papà è stato un industriale nel settore della falegnameria. Ricordo che quando ha iniziato aveva acquistato i macchinari grazie alle agevolazioni statali. Ed è stato possibile farlo fino a quindici anni fa. Oggi non più. E poi, se le imprese non sono in parte defiscalizzate, non possono permettersi di investire”.
Cosa pensa dell’Imu?
“Lo Stato deve pur reperire i soldi da qualche parte, purché in modo giusto. A giugno, la Same per il sito produttivo di Treviglio, pagherà una cifra davvero spropositata”.
La ricetta contro la crisi?
“Solo con la ricerca e lo sviluppo si progredisce. Nel quinquennio 2006-2011 noi abbiamo speso per investimenti 100 milioni di euro, in quello successivo oltre il doppio, 250 milioni. Chi ha tirato la cinghia alle prime avvisaglie della crisi oggi è fuori dal mercato”.
Cosa abbiamo, invece, noi italiani, che gli altri ci invidiano?
“La flessibilità. Siamo dei camaleonti, bravi ad adeguarci quando cambiano le carte in tavola. Noi siamo esperti nel crearci i problemi, ma sappiamo anche come risolverli. In questo diamo del filo da torcere ai tedeschi, che fanno fatica ad affrontare gli imprevisti. Sono troppo rigidi e inquadrati”.
C’è chi propone la staffetta generazionale: un lavoratore più anziano accetta meno ore in cambio dell’assunzione di un giovane, è d’accordo?
“Mi trovo bene con i dipendenti di lungo corso perché hanno esperienza. Ma abbiamo anche il management più giovane, con una media di ingegneri trentacinquenni. E quattro sono donne”.
Quale differenza c’è tra i due sessi nel modo di lavorare?
“Le ingegnere sono più brave. Sono più pignole, determinate. E sanno come farsi rispettare dal resto del personale”.
In un colloquio di lavoro, c’è un errore da con commettere?
“Sì, il millantare esperienze e capacità. Chi bara con un curriculum esagerato, viene scoperto subito. La sincerità e la trasparenza sono le doti che più apprezzo”.
Chi riesce a far carriera?
“Chi ha voglia di fare. Di solito individuo i più capaci e li chiamo gli “alti potenziali”. Un’azienda deve saper offrire opportunità, spianando loro la strada, magari con dei corsi di leadership o gestione del personale, a seconda delle lacune che possono avere”.
Ci sono però ragazzi che non trovano sbocchi e sono costretti a cercare fortuna all’estero.
“Se l’Italia può assorbire mille ingegneri e ce ne sono diecimila, l’unica soluzione è scappare. Ma anche fuori dai confini nazionali, chi possiede le qualità giuste riesce a emergere. Anche dal basso, da un semplice stage, in qualche anno si può raggiungere una buona posizione”.
Spesso però c’è chi aspetta fino a quarant’anni perché non trova il lavoro che ritiene più adatto a sé.
“Questo è un problema di eccessive aspettative. Tutti sognano di diventare top manager. Però non ci sono solo generali, ma anche caporali, tenenti e soldati semplici. E ognuno può concorrere al bene della sua azienda”.


Il fenomeno dei Neet, come
“recuperare” i giovani senza speranza

Egregio Bergamaschi
leggo con attenzione la sua rubrica e mi rendo conto che la mia e-mail è forse fuori luogo. Le scrivo perché il figlio di mia sorella, 21enne, ha abbandonato gli studi, non ha intenzione di riprenderli, non è interessato a nulla e neppure sta cercando un lavoro, dice che tanto è inutile. Sta sprecando gli anni migliori della crescita e mia sorella non si dà pace.
Chi può darci una mano?
                                                                              e-mail, Bergamo

L’attuale crisi economico-finanziaria ha confermato due fatti che erano già tristemente noti a tutti: il tasso di disoccupazione giovanile (considerando i giovani sino a 30 anni) è costantemente superiore al doppio del tasso di disoccupazione complessivo e la categoria dei giovani è massicciamente esposta ad un costante peggioramento delle occupazionali. In questo periodo sono quindi i “giovani” a soffrire maggiormente la crisi, non solo perché non hanno accesso ad un mondo del lavoro che non conoscono, ma perché si ritrovano a vivere demoralizzati una quotidianità senza aspettativa; sono individui rassegnati e demotivati, privi di stimolo anche solo per fare il minimo sindacale e cambiare la propria vita. E’ un fenomeno nuovo che preoccupa l’Europa e ovviamente l’Italia e che racconta di una generazione che si ritiene “senza speranza”, che vive alla giornata o sulle spalle della famiglia di origine e non riesce a realizzare piani per costruirsi una vita personale e professionale autonoma. Ma non solo: è una fetta di popolazione con meno di trentacinque anni che non solo non possiede un lavoro, ma non lo sta nemmeno cercando e non frequenta corsi di aggiornamento; i sociologi si sono persino scomodati a declinare un nome per loro e oggi sono conosciuti come “neet”, acronimo che nella lingua inglese significa “not in education, employment or training” e che identifica una generazione di giovani disoccupati al di fuori di ogni ciclo di istruzione e formazione, che ha abbandonato i percorsi scolastici, non ha un impiego, non segue corsi di formazione e vive alla giornata senza un reale progetto di vita. E se pensiamo al nostro paese, gli ultimi dati non sono confortanti: i “neet” italiani hanno dai 15 ai 29 anni e nel 2012 sono arrivati a 2 milioni 250mila; ciò significa che in Italia un giovane di quella fascia di età su 4 si trova in questa terribile condizione. Il dato potrebbe essere meno negativo se ci trovassimo di fronte a una realtà in movimento, di giovani che non hanno lavoro al momento, ma si stanno attrezzando per mettersi in gioco, non appena ci sarà l’inversione della curva, ma purtroppo non è così. L’appartenenza alla categoria “neet”, oltre ad essere uno spreco del potenziale dei giovani, ha ripercussioni negative per l’economia e la società. Trascorrere dei periodi di tempo come “neet”  può condurre all’isolamento, all’insicurezza, alla criminalità, ad avere problemi di salute fisica e mentale; e ognuna di queste conseguenza implica un costo sociale. Pertanto appartenere al gruppo “neet” non costituisce solo un problema individuale, ma anche un problema per la società e l’economia nel suo complesso. Non si pensi che il problema sia recente: basti pensare che l’acronimo “neet” è nato nel Regno Unito alla fine degli anni 80, per definire una modalità alternativa di classificazione dei giovani a seguito dei cambiamenti avvenuti nelle politiche in materia di indennità di disoccupazione; da allora l’interesse per i “neet” è cresciuto a livello politico europeo e definizioni equivalenti a questa sono state create in quasi tutti gli Stati membri. Magari avrebbe avuto più senso anticipare delle strategie per gestire una situazione che aveva già tutte le caratteristiche dell’urgenza. Negli ultimi anni gli Stati membri dell’Unione Europea hanno predisposto politiche nazionali ed europee destinate ad aumentare l’occupabilità giovanile e a promuovere maggiore partecipazione all’occupazione da parte dei giovani, sia attraverso misure relative all’istruzione, come il prevenire e ridurre l’abbandono scolastico e incrementare i corsi di istruzione e formazione professionale, sia attraverso misure che facilitano la transizione dalla scuola al lavoro. Inoltre molti paesi hanno introdotto una serie di incentivi, di agevolazioni fiscali e sovvenzioni al fine di incoraggiare le aziende ad assumere, formare i giovani e a creare occupazioni supplementari destinate a loro, ma non sempre sono state strategie vincenti. Certo è che il lavoro da fare è ancora lungo e oltre allo Stato, è importante anche l’intervento della famiglia e dei genitori, che hanno il dovere di trasmettere il desiderio di una vita “realizzata” e appagante e non devono mai legittimare atteggiamenti di stallo e di rinuncia; ma purtroppo in molti casi non è così. Infine, una riflessione: chiunque sia entrato negli “anta” ricorda sicuramente che quando si era ragazzi, non si provava nessun timore per il futuro, anzi si era convinti che, in un modo o nell’altro, avrebbe trovato un’occupazione e uno stipendio; magari non il mestiere dei sogni, ma non c’erano dubbi che avrebbe vissuto una vita dignitosa. Avevamo “speranza e voglia di sognare” e francamente ci piacerebbe che la stessa fortuna l’avessero anche i giovani di oggi.


Ferrari:
«Il successo
di un prodotto?
Parte
dal nome»

di Raffaella Trigona

Si è tenuta a Bergamo una giornata di “scuola” di brand naming, insegnante d’eccezione Béatrice Ferrari, esperta indiscussa della materia in Italia. Béatrice è un puzzle di origini, nata in Italia ma vissuta in Francia, dotata – come lei stessa dice – di una personalità eclettica e curiosa. Da anni si occupa di “far esistere le cose” perché “se una cosa non ha nome non esiste…”.
D’altra parte dare un nome a qualcosa è un’azione di grande rilevanza in tutti i contesti culturali umani, per quanto differenti. Per fare qualche esempio, nel ceppo linguistico indoeuropeo “nominare” significa creare una cosa e avere potere su di essa. Nella lingua cinese è accordata un’importanza capitale alla denominazione, che vuole dire assegnare un ordine al mondo. 
Ma perché oggi è ancora più importante “dare un nome”? E’ possibile trovare un nome “giusto”? In che modo? Quale ruolo svolge la creatività in questo processo?
Per poter rispondere a queste domande occorre fare una breve riflessione sulla contemporaneità. La nostra età globale è, infatti, caratterizzata da un forte incremento di complessità negli ambienti, nelle organizzazioni, nelle conoscenze stesse. E’ difficile dire se sia diventato più complesso il mondo o se sia diventato più complesso il nostro modo di guardarlo. Di fatto, abbiamo bisogno di un circolo virtuoso in cui il nostro sguardo sul mondo sia all’altezza delle sfide poste ogni giorno anche nel campo professionale.
Le pratiche formative, in questo caso particolare l’attività di “naming”, possono essere uno strumento validissimo per dissolvere modi ormai inadeguati di comunicare un “brand” e per costruire nuove strategie di comunicazione di quel brand. Un’azione mirata può consentire la scoperta e la costruzione di intrecci sempre più profondi tra il prodotto e il contesto nel quale è inserito.
Il percorso proposto da Béatrice Ferrari ha messo in primo piano una nozione dinamica di creatività e di innovazione: la novità del nome non è mai predeterminata in un prodotto ma emerge da un complesso processo circolare (il “naming circle”) in cui si intrecciano l’aspetto linguistico, quello del marketing e quello giuridico.
Questo tipo di approccio evidenzia la stretta relazione che può sussistere tra creatività e innovazione. In una visione tradizionale la creatività è descritta come l’accensione di nuove idee individuali e l’innovazione è rappresentata come l’implementazione pratica di quelle idee in un certo contesto collettivo. In una prospettiva complessa emerge con forza, invece, l’idea che la creatività richieda contesti favorevoli e un definito piano strategico. 
Strategia, dunque, è la parola chiave che caratterizza questa proposta del “brand naming”, con cui si intende “ogni decisione o iniziativa relativa alla definizione di un nome commerciale (nome di prodotto, di servizio, di società, insegna, nome a dominio, etc…), cioè il nome di proprietà in grado di capitalizzare un investimento”.
In tale prospettiva il “brand name” vincente deve avere una caratteristica fondamentale: deve essere evocativo. Il nome vincente non denomina soltanto, non descrive semplicemente ma è in grado di evocare un intero mondo, ricco di significati, carico di emozioni e di suggestioni. Il nome non spiega ma indica un “senso”, sintetizza un valore. Basti pensare al Mulino Bianco di Barilla: la famiglia, la tavola, l’incontro, le relazioni, la qualità, la bontà, la quotidianità.

Le quattro mosse
per arrivare al risultato ottimale

Quali sensazioni ci evoca il nome “Häagen-dazs”? Quali immagini schiude? Quale suono ci fa sentire? Quale colore ci corrisponde? Nord Europa, viaggi, bianco, azzurro. Ed ecco che nasce una marca di gelato.
E quando pronunciamo “Kodak”? Cosa ci viene in mente? Velocità, brevità, rapidità, scatto. Ed ecco il click della fotografia.
Proprio in questi casi il nome intrinseco non è né conosciuto né riconosciuto dai consumatori… Ma non importa!
Un gioco di ritmi, una combinazione di lettere, vocali aperte o chiuse, suoni dolci o duri, alterazioni, fusioni. L’impatto fonetico è importantissimo ma non basta. Il nome vincente viene trovato ma non a caso. Occorre un processo consapevole di ricerca approfondita composto da almeno quattro tappe: 1) chiarire il bisogno; 2) elaborare i nomi in creatività, 3) scegliere i nomi più adeguati, 4) controllare la validità dei nomi scelti.
Solo al termine di questo percorso – spiega Béatrice Ferrari – possiamo dire di essere arrivati a un “brand name”. E per fare questo c’è una variabile fondamentale: il tempo. Il fattore temporale è infatti un agente produttore di novità ma dobbiamo poterne avere a disposizione a sufficienza. Deve essere ammessa la possibilità dell’errore, del vicolo cieco, del poter seguire delle molteplici linee di sviluppo, per poter giungere a quella vincente.
Il cammino , dunque, è lungo e tortuoso. Non ci resta che augurare “buon naming” a tutti!
Raffaella Trigona


Turismo in frenata, ma non per i congressi 

Come era da attendersi, anche il territorio bergamasco ha risentito nel 2012 del calo dei movimenti turistici, ma con soddisfazione la contrazione dei flussi è stata decisamente minore rispetto ai dati medi nazionali, sia in termini di presenze che di arrivi. «Per essere precisi è stata di quasi la metà – spiega Andrea Macchiavelli, direttore del Cestit, il Centro Studi per il Turismo e l'Interpretazione del Territorio dell’Università degli Studi di Bergamo, commentando i dati dell’Osservatorio della Provincia -. Il calo del 2% è poca cosa in un contesto come quello nazionale, che perde in media il 3,9%. Il dato arriva non solo in un momento di recessione economica, ma anche dopo anni di forti incrementi, particolarmente consistenti lo scorso anno, con una crescita del 6% e una variazione positiva di presenze straniere del 9%. Una battuta d’arresto che deve dunque considerarsi fisiologica». La crisi ha colpito soprattutto i turisti italiani. «Gli stranieri attutiscono il colpo – sintetizza – e difendono le posizioni, i laghi crescono con le presenze straniere, va bene la Valle Imagna, grazie alla componente business e il turismo d’affari non abbandona la pianura».
Segnano un calo le Orobie dopo due anni di ripresa: «È il segno – commenta il professore – che non si riesce ancora a sostituire la domanda solida del turismo classico di villeggiatura: ossia estiva, di over 60, dalla fortissima componente lombarda. Inizia a farsi avanti una nuova domanda turistica short-break, decisamente più giovane, attratta da enogastronomia e prodotti tipici, trekking e sport. Una nuova tipologia di turismo che consentirebbe di allungare la stagione, attraverso eventi di richiamo e nuove proposte». Le Orobie, quindi, sono destinate ad una ristrutturazione complessa e già «molti sono gli investimenti fatti, soprattutto in Val Seriana, che purtroppo, assieme alla Val di Scalve, presenta il dato più negativo».
Con la crisi si rinuncia alla forma più economica di turismo, il campeggio: «Le presenze calano – è l’analisi -, ma di fatto tramonta la forma più diffusa di camping nelle valli, basata soprattutto sugli stanziali, che ormai sono fuori mercato». Perdono quota gli alberghi, mentre decollano i bed and breakfast. «Nonostante la quantità di posti letto minore, le strutture ricettive extralberghiere sono in forte crescita, con un incremento considerevole degli stranieri – continua Macchiavelli -. Il prezzo sembra la maggiore discriminante, ma non è la sola componente a giocare un ruolo nella scelta. Il grande sviluppo di questa forme di ricettività ha senz’altro contribuito a questo travaso». Anche la città e la Grande Bergamo perdono qualche turista per strada: «In un anno di forte contrazione, Orio tiene, ma è bene interrogarsi – ammonisce – sull’impatto dei nuovi collegamenti, dalla Grecia a Cipro nell’area del Mediterraneo, alle nuove rotte con l’Est Europa».
Un turista da coccolare è quello russo: «Non si vedono ancora gli effetti dei collegamenti con la Russia, anche perché è impensabile avere una crescita con solo due voli a settimana, ma è importante attrezzarsi per accoglierli al meglio – traccia un breve identikit il docente – . Il turista russo in Europa ha di fatto sostituito il giapponese, con capacità di spesa elevata ad alti livelli. Il turista russo si contraddistingue per non avere una grande capacità selettiva ed appare di fatto più orientabile. Bergamo ha grandi potenzialità per intercettare questa nuova domanda. Anche per questo l’Università in collaborazione con Sacbo ha lanciato un progetto di accoglienza e orientamento dei turisti in arrivo ad Orio. Un altro turista a cui pensare è quello polacco, che inizia ormai ad avere un certo peso nel turismo invernale legato allo sci».
Tra le altre strategie da mettere in campo, far sì che Bergamo divenga una porta d’accesso, attraverso Orio, ad Expo: «Bergamo deve il suo sviluppo turistico all’aeroporto, ora è fondamentale che giochi al meglio le sue carte in vista dell’Esposizione Universale – rileva Macchiavelli -. Una buona parte di visitatori arriverà nel nostro scalo: sta alla città riuscire ad intercettarli, ma bisogna mettere in campo risorse e strategie. Finora si è fatto poco per creare un vero e proprio brand per il territorio. Bisogna lavorare alla creazione di un’immagine e di un marchio forte per la città, oltre a migliorare collegamenti e accoglienza».


L’allarme degli artigiani
“Il fisco si mangia tutto”

Le imprese italiane? Sembra che si faccia di tutto per spingerle all’estero per trovare condizioni normali: il fisco italiano pesa per il 68,3% degli utili lordi d'impresa, in Svizzera appena il 30,2%». Giorgio Merletti,  presidente della Confartigianato, lancia l'ennesimo allarme sul fisco che soffoca le Pmi. «Non ce la fanno più le nostre aziende a sopportare una pressione fiscale che nel 2013 toccherà il 44,6% del Pil, 2,4 punti in più sopra la media Eurozona» ha proseguito dal palco dell'assemblea dell'organizzazione. Appello raccolto dal ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato: “Sono al vostro fianco – ha assicurato – ma le cose non sono facili, non ci sono risorse e dobbiamo attivare meccanismi a costo zero per dare soddisfazione alle imprese”.
La realta è che «paghiamo 38 miliardi di maggiori imposte rispetto ai partner europei, 639 euro in più per abitante. Tra il 2005 e il 2013 l'incremento delle entrate fiscali è stato pari ai 132 miliardi di incremento del Pil. Così non si esce dal tunnel della crisi» ha incalzato Merletti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nei 600 giorni da novembre 2011 a oggi si sono perse 60mila imprese, la disoccupazione giovanile è cresciuta di oltre 8 punti, il Pil calato del 3,4%, la pressione fiscale è aumentata di quasi 2 punti e il credito alle imprese è diminuito di 65 miliardi. Nel frattempo si sono avvicendati il governo tecnico supplente e poi lo «stallo alla messicana». Numeri da brivido, per questo le imprese non vogliono più promesse dalla politica. «Adesso tocca a voi, chi governa rispetti il mandato, fate il vostro dovere» ha detto il numero uno degli artigiani, particolarmente applaudito su fisco, burocrazia («ci costa 31 miliardi l'anno»), da spellarsi le mani sul «disastro Sistri». «Una amministrazione pubblica che non paga è una vergogna. Mi impegno al vostro fianco per il completo azzeramento dello stock dei debiti scaduti» ha assicurato Zanonato, consapevole di dover dare tempi certi alle Pmi artigiane, di cui ha lodato a più ripresa tenacia, talento, «qualità e materia grigia» ha detto citando Einstein. Revisione dell'Imu, perché «è contraddittorio tassare un tornio o una pressa, così gli immobili strumentali». Promette misure per la ripresa e semplificazioni entro giugno, via le complicazioni inutili, ha detto, e più risorse anche per il credito attraverso il Fondo centrale di garanzia, grazie al supporto di Cassa depositi e prestiti. Fino a una nuova legge Sabatini, in tandem con l'Economia, per dare il via a una misura per il rinnovo del processo produttivo e per acquisire beni strumentali. E anche i costi dell'energia (le Pmi pagano il 37,8% in più della media Ue) devono essere abbassati ai livelli degli altri paesi competitori europei. «Stiamo valutando misure di sostegno agli investimenti delle pmi che operi con modalità snelle».


Reti d’impresa, così
la Valle Imagna cerca il rilancio

Il progetto di Bergamo Sviluppo coinvolge sia Organizzazioni di categoria, sia una serie di partner territoriali.  “L’iniziativa – afferma Angelo Carrara, presidente di Bergamo Sviluppo – ben si inserisce nella logica della mission di Bergamo Sviluppo, che sta operando per lo sviluppo dell’intero territorio in una logica sempre più di rete, che oggi coinvolge non solo il sistema associativo locale, ma anche i territori, dai quali raccogliamo richieste che poi cerchiamo di trasferire in proposte progettuali come questa, nata dal dialogo e dal confronto”.
L’animazione profusa da Bergamo Sviluppo in Valle Imagna per la creazione di reti d’impresa ha puntato sulla crescita delle attività tradizionali e l’introduzione di nuove forme di imprenditoria. Ne è testimone Giacomo Invernizzi, segretario dell’Azienda Speciale Consortile Valle Imagna, partner territoriale del progetto camerale, coordinatore del tavolo “Lavorinvalle” che riunisce il gruppo promotore delle iniziative imprenditoriali valdimagnine, nonché portavoce della Rete Agrimagna che coinvolge dieci imprese del settore agroalimentare.
“Il tavolo ha iniziato a lavorare ipotizzando quale avrebbe potuto essere il futuro della valle sotto l’aspetto imprenditoriale e su quali risorse potesse contare per sviluppare nuove idee. E’ stato naturale fare riferimento alle vocazioni tradizionali dei luoghi e sviluppare una filiera che punti alla valorizzazione dell’ambiente”.
Il progetto di accompagnamento delle reti di imprese in Valle Imagna riguarda attualmente ecoturismo, agricoltura, legno e biomasse. Il dato interessante è che queste iniziative coinvolgono soggetti di età compresa tra 25 a 40 anni. L’intero progetto, promosso da Bergamo Sviluppo, coinvolge le associazioni di categoria, che hanno realizzato forme di accompagnamento in accordo e con il sostegno della Camera di Commercio di Bergamo che ha permesso i relativi finanziamenti. Le voci delle possibili iniziative sono interessanti e già praticabili: ecoturismo, produzione di energia da biomasse, promozione dei prodotti agricoli e zootecnici locali, manutenzione boschiva che consenta di evitare l’impoverimento di pascoli e terrazzamenti e aiuti a prevenire danni al sistema idrogeologico.
“C’è un bel pezzo di economia da ricreare – sottolinea Invernizzi -. Si tratta di rendere il territorio abitabile e quindi più ricco perché in grado di sostenersi con le proprie risorse. Si deve puntare al risveglio di talune professionalità che richiedono preparazione e cultura della qualità. Ad esempio, l’agricoltura a cui facciamo riferimento è quella tipica di montagna e non va confusa con le coltivazioni intensive. Nelle forme di aggregazione a cui stiamo pensando, turismo e impresa agricola vanno a braccetto”.
L’idea, maturata sullo slancio fornito dal progetto territoriale di Bergamo Sviluppo, è quella di sostenere le aziende molto legate alle tipicità del territorio per ricavare localmente le risorse necessarie per la produzione e per le attività. Piccole produzioni ma di qualità, con filiere dirette di vendita. E’ il caso di AgrImagna, rete costituita da dieci piccole aziende: tre zootecniche, due vinicole, due dedite alla produzione di piccoli frutti (more, lamponi, ribes), due di frutta e verdura, una che abbina l’allevamento di piccoli animali alla produzione di marmellata di castagne. Rete AgrImagna ha appena aperto un sito web (www.agrimagna.it) per la commercializzazione diretta con i gruppi di acquisto solidale.
L’edilizia è l’altra esperienza storica su cui il tavolo coordinato da Invernizzi sta lavorando. “E’ appena partita un’indagine su dieci aziende per analizzare gli elementi di forza e criticità e provare a ipotizzare una progettualità. Siamo consapevoli delle difficoltà che il settore vive, ma crediamo possibile tornare a modelli di edilizia compatibili. In Valle Imagna è presente un vasto patrimonio di case storiche, vere e proprie contrade che rappresentano potenziali luoghi di intervento, così come si potrebbe pensare al recupero di caseggiati degli anni 60 e 70 non più abitati”.


Federconsumatori: “L’area camper
una cattedrale nel deserto”

Federconsumatori,  senza dimenticare che tutti i giorni c'è qualcuno che ha la necessità di essere vicino ad un suo caro ammalato e per farlo è  costretto a dover subire l'esosità del costo di un parcheggio che lavora in esclusiva, ritiene positiva l'iniziativa messa in atto alcuni giorni fa dalla direzione del “Papa Giovanni XXIII” che, consentendo la sosta del camper a fianco dell'ingresso della struttura ospedaliera, ha permesso ad una famiglia arrivata da fuori città  di stare vicino al figlio ricoverato in ospedale.
Premesso  che  per ospitare in modo dignitoso chi usa il camper non crediamo sia sufficiente improvvisare un allacciamento elettrico in uno spazio non attrezzato, a  lasciare  perplessi è il leggere dichiarazioni rilasciate da “camperisti/amministratori pubblici” eccellenti i quali enfatizzano la situazione esistente in città. Sino a definirla “punto di riferimento per l'Europa”.
Non  dimentichiamo  che, a Bergamo, con i soldi dei contribuenti è stato realizzato un ottimo parcheggio per i camper attrezzato di tutto punto (con i lampioni accesi ogni notte),  dotato di: acqua potabile; scarico per i liquami; piazzola dedicata al lavaggio dell'automezzo;  parcheggi in spazi definiti e lastricati; servizi igienici;  servizio di sorveglianza e, soprattutto,  vicinanza con linee di trasporto pubblico urbano… che  sta diventando una “cattedrale nel deserto”.
Per la cronaca segnaliamo, assieme ad altri, che l'area camper di Bergamo si trova in Via Corridoni al civico 123. E' pronta da ormai più di un anno e sta cominciando a essere preda delle naturali intemperie oltre che degli immancabili  vandali (le porte della guardiola  sono divelte, il bagno impropriamente usato, ecc….)
Su questo tema non ha nulla da dire l’associazione dei camperisti bergamaschi, che è riuscita a fare costruire un parcheggio coi fiocchi e poi non si attiva perché il medesimo sia utilizzato, magari offrendosi con i propri associati di gestirlo direttamente pagando il dovuto canone al Comune?
Lasciamo ai Cittadini/Contribuenti valutare se questa situazione può essere portata ad esempio di efficienza in Europa. Nel frattempo dai nostri amministratori auspicheremmo un comportamento più consono al carattere bergamasco: evitino di “fare la ruota” per un  atto di accoglienza nei confronti di chi ne aveva bisogno.


Banca Popolare di Bergamo,
nominati tre nuovi consiglieri

A seguito delle dimissioni dei Consiglieri Pierpaolo Camadini, Paolo Nava e Victor Massiah, il Consiglio di Banca Popolare di Bergamo ha provveduto all’integrazione del numero dei propri componenti nominando per cooptazione Stefano Gianotti, Giuseppe Guerini e Giulio Pandini.
Stefano Gianotti, ragioniere, inizia il suo percorso professionale nel 1982 presso la società Kimco – Padana Ricambi spa. di Brescia, azienda in cui riveste ad oggi il ruolo di Amministratore Unico. Ha maturato esperienze anche in società del comparto assicurativo fra le quali Cattolica Assicurazioni e UBI Assicurazioni, e ad oggi ricopre incarichi nella Fondazione Banca S.Paolo e nella società finanziaria Mittel spa.
Giuseppe Guerini, educatore professionale, è presidente di Confcooperative Bergamo dal 2012 e presidente nazionale Federsolidarietà dal 2010, nonché membro del Comitato Economico Sociale Europeo (CESE) di Bruxelles. Dal 2012 ricopre il ruolo di presidente del Comitato Unitario delle Associazioni di Impresa, “Imprese e Territorio”. Ha collaborato in qualità di docente, in ambito universitario, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l’Università degli Studi di Bergamo ed è autore di diverse pubblicazioni. Ha maturato, inoltre, esperienze significative anche nel settore del credito.
Giulio Pandini, laureato in Ingegneria Civile Idraulica presso l’Università di Pavia ed iscritto all’Albo Professionale degli Ingegneri di Bergamo, entra nel 1987 a far parte dell’impresa di costruzioni di famiglia, fondata dal padre nel 1957, ricoprendo vari incarichi. L’azienda dispone di oltre 150 collaboratori e vanta importanti realizzazioni nel campo industriale, civile, di ristrutturazione e di restauro. Dal 1990 è componente del Consiglio Direttivo dell’Ance Bergamo, della quale è stato presidente dal 1999 al 2006. È componente del Cda dell’Università degli Studi di Bergamo per il mandato 2013-2015. E’ presidente del GAMeC Club (associazione di sostegno all’attività della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo), di cui è stato fondatore nell’aprile 2005.


Crisi, a Bergamo il 75% degli imprenditori 
ha usato i propri risparmi per l’azienda

Tre imprenditori lombardi su cinque danno fondo ai propri risparmi personali per mantenere l'impresa. Quasi la metà (43%) decide di saltare la cena fuori e uno su tre improvvisa menù low cost (34,2%). E ritorna la schiscetta per il 31,1% di chi non ha la fortuna di lavorare vicino a casa o di avere una mensa aziendale. La “dieta forzata” della crisi per le attività del tempo libero riguarda circa il 75% degli imprenditori lombardi, che riduce le uscite e sceglie hobby low cost. È quanto emerge dalla indagine della Camera di Commercio di Monza e Brianza, che ha coinvolto circa 600 imprenditori lombardi. Secondo quanto si evince dalla ricerca, uno su tre si dedica «più a famiglia e fai da te, uno su cinque guarda più tv, e l'8% si »attacca« a internet e social network». Quanto alle vacanze, un imprenditore lombardo su tre sa già che quest'estate non andrà in vacanza, così come il 35,9% taglierà il budget. Le rinunce più sentite risultano le vacanze (26,7%) e lo shopping (15,9%), dato che sale per le imprenditrici al 20%. A Brescia e Bergamo sono circa il 75% ad aver fatto ricorso al proprio patrimonio personale per far fronte alla crisi, mentre Monza e Brianza è in linea con la media lombarda (65,4%). Sempre a Bergamo e a Brescia, rispettivamente il 54% e il 47% prevede di non partire per le vacanze. Profilo low cost anche quando si tratta di impegnare il tempo libero: a Brescia il 51,5% degli imprenditori dedica più tempo alla famiglia e al 'fai da tè. A Varese, invece, si esce di meno e si passa più tempo nei «salotti virtuali» (12,8%). La fatica più grande? Secondo quanto emerge dalla ricerca della Camera di Commercio di Monza e Brianza, a Varese è «rinunciare allo shopping» (27,7%), a Bergamo ai viaggi (32,6%) e a Milano alla cura per il corpo (9,8%).