Il lecca lecca? Fu inventato a Bergamo

La fioritura di denominazioni e di presìdi a designare le eccellenze gastronomiche del nostro Paese non è certo esclusivo vezzo dei nostri giorni. Risale infatti a cinque secoli fa la compilazione da parte del poligrafo milanese Ortensio Lando – eccentricamente temerario al punto di imbarcarsi, tra le cruente reprimende della controriforma, nella prima traduzione in Italiano delle opere di Martin Lutero – del più antico tra i repertori delle specialità della Penisola. Poco più di cent’anni dopo toccava all’incisore bolognese Giuseppe Maria Mitelli redigere un memorabile censimento grafico delle principali prerogative di molte città d’Italia circa le robe mangiative, racchiuso nella stampa di una singolare riffa seicentesca intitolata gioco di cucagna.

Non stupisce che una così puntuale rassegna figurativa di leccornie risalga al secolo che, nell’arco dell’ultimo millennio, contende all’undicesimo la poco invidiabile palma dei picchi storici di indigenza e di inedia. Più del pugno di quatrini che il succinto regolamento della scommessa metteva in palio, non v’è dubbio che ai giocatori dell’epoca stesse a cuore l’onirico approdo alle maggiormente ambite tra le caselle del percorso ludo-gastronomico. Del resto, non è mistero che il mito del paese del bengodi abbia attinto i vertici di popolarità proprio allorché le generali condizioni di vita si adagiavano sui livelli più miserevoli.

Il seicentesco gioco della cuccagna
Il seicentesco gioco della cuccagna

L’opera d’arte, destinata in origine a far da tappeto al lancio dei dadi sui tavolacci di qualche taverna piuttosto che da decoro alle pareti dei palazzi patrizi, contiene una gran copia di rivelazioni assai preziose per gli storici dell’alimentazione. In essa si provvede ben più di un’asettica elencazione di prelibatezze – espressione per giunta di un’Italia monca che vedeva tracciato a Napoli il proprio limitare meridionale. Ogni specialità vi è difatti ritratta con apprezzabile grado di dettaglio, esibendo con precisione la morfologia da cui era contraddistinta quattro secoli or sono.

Alcune delle leccornie sono icone tutt’oggi vitali ed immediatamente distinguibili dei patrimoni alimentari regionali: è il caso dei cantuchi (cantucci) di Pisa e della rosolia – attualmente chiamata ratafià – sabauda; delle persiche (pesche) di Verona e del turone cremonese, della busecha meneghina e delle spongate di Reggio Emilia. Non meno attuale è il lustro degli insaccati parmensi e modenesi, nonché della mortadella di Bologna, la cui centralità nella tavola da gioco trova presumibilmente ragione nei natali petroniani dell’incisore.

Altre tra le ghiottonerie illustrate dal Mitelli sono passate attraverso secolari processi evolutivi, che ne hanno più o meno profondamente modificato denominazione e caratteristiche. Delle gatafure genovesi – antesignane delle celebri torte liguri di verdura – scriveva nel cinquecento il già menzionato Ortensio Lando, chiosando che così erano denominate perché le gatte volentieri le furano (rubano) e vaghe ne sono. Non è dato di sapere quale i felini dell’era moderna prediligessero tra la versione alle biete e quella alla cipolla, di cui Bartolomeo Scappi forniva le ricette nella coeva Opera. Nelle provature romane non è altresì arduo individuare le progenitrici di mozzarelle e scamorze dell’Agro Pontino, mentre il cuore del distretto di produzione dell’antico formaggio di Piacenza è negli ultimi secoli migrato a sud-est di qualche miglio, fondendosi con quello del parmigiano.

L’aldilà delle memorie gastronomiche ha, infine, ineluttabilmente accolto tra le sue brume un buon numero delle specialità vagheggiate lungo la tratta della seicentesca cuccagna. La tardiva comparsa dei broccoli napoletani scandiva ormai il crepuscolo dell’era, protrattasi appunto sino al termine del XVII secolo, nella quale la civiltà alimentare partenopea era designata come quella dei mangiafoglie, spianando la strada alla calata dei mangiamaccheroni. Delle trote che sguazzavano nei laghi di Mantova, così come della persicata ferrarese e dei pinoli ravennati – all’epoca rinomati al punto da meritare alla città rivierasca l’eponimo di bolla dil pignoli – oggi si serbano solo sbiadite rimembranze. Eguale sorte è toccata al pane di Padova, del quale già nel XIX secolo il clinico patavino Antonio Faggiani lamentava l’irreversibile decadenza. Irrimediabilmente trapassata è anche la prelibatezza a celebrazione della quale il Mitelli aveva riservato a Bergamo una tappa del suo itinerario. Si tratta del cinamomo confetto, a riguardo del quale già ci si è dilungati nel numero di Affari di Gola del novembre 2014. È comunque d’uopo tornare brevemente sul tema, giacché dall’incisione emergono nuovi ed interessanti particolari.

Il "lecca solo" bergamasco raffigurato nel seicentesco gioco della cuccagna
Il “lecca solo” bergamasco raffigurato nel seicentesco gioco della cuccagna

Colpisce anzitutto la singolare conformazione dello storico dolciume. In virtù della sua appartenenza al dominio della confetteria, ci si sarebbe attesi un morselletto oblungo o tondeggiante. Ma la raffigurazione che ne fornisce la stampa è quella di un sottile stecco di scorza di cannella, che da fonti del tempo sappiamo rivestito di zucchero. Quanto poi alle modalità del suo consumo, è affatto eloquente l’indicazione lecca solo che correda l’icona.

Questi indizi paiono convergere verso una curiosa conclusione. La letteratura gastronomica tende ad individuare nella Gran Bretagna del XVII secolo la culla di quello che nel mondo anglosassone è chiamato lollypop. In realtà il più antico lecca-lecca di cui si abbiano dettagliate notizie è proprio il cinamomo confetto di Bergamo, i cui natali sono da collocarsi nella prima metà del cinquecento. È indiscutibile che si trattasse di un prototipo ingegnosamente atipico, di un mangetout del quale nulla andava perduto. L’asticciola di legno aromatico che ne costituiva lo stelo – ed al contempo l’anima – era infatti da sgranocchiarsi dopo che la glassa che la ricopriva si era dissolta. In un’epoca di fiatelle pestilenziali, vieppiù appesantite dal largo consumo di agli e cipolle crudi e da condizioni di igiene orale sulle quali è preferibile glissare, la cannella d’altronde rappresentava uno dei più efficaci palliativi per le problematiche di alitosi.

Al di là di queste contingenze, spiccano le benemerenze della Consorteria degli Speziali ed Aromatari di Bergamo. Oltre ad aver dato vita alla prima specialità locale di autentica fama planetaria, la leggendaria corporazione ha infatti titolo ad annoverare, tra le proprie patenti di invenzione, anche quella dell’archetipo di uno tra i più popolari dolciumi di ogni tempo.


Quante cantonate sulla storia del riso. Pure Cracco ne ha presa una

riso-spiga

«Qual è il piatto che unisce l’Italia?» – tuona Carlo Cracco in una delle puntate d’apertura dell’ultima edizione di Hell’s Kitchen. Schierata dinnanzi all’impudente mattatore, la spaurita brigata di cucina appare ancor più esitante del solito. «Il riso» – azzarda un commis di chiare origini sicule. Per quanto assai più pertinente della pizza che lo chef vicentino vorrebbe sentirsi suggerire, la risposta è da questi accolta con un’irridente canzonatura: “Certo, chi non conosce le celebri piantagioni siciliane di riso?”. La frecciata del nume televisivo dei fornelli sibila tra i risolini di condiscendenza degli astanti. “Ma gli arancini?” – si schermisce l’ingiustamente sbeffeggiato concorrente, cui nessuno presta però più attenzione.

Pur senza ubique coltivazioni, è in realtà indiscutibile che il riso sia profondamente radicato nella tradizione culinaria di quasi ogni angolo del nostro paese. E proprio la Sicilia fu il portale attraverso il quale, su impulso arabo, il cereale fece nel cuore del medioevo il suo definitivo approdo alla gastronomia della Penisola. Oltre che dai famosi arancini, questo importante passaggio storico è eloquentemente documentato da un manicaretto tutt’oggi in voga nel levante della Trinacria: la tummala, un timballo strettamente imparentato con i polow della cucina persiana. La singolare denominazione della vivanda è legata all’emiro-gourmet Mohamed Ibn Thumma, reggente di Catania nell’XI secolo, che nell’epopea dei paladini ha estorto discutibili simpatie tradendo i correligionari per stringere alleanza con il normanno Ruggero I d’Altavilla.

Quella su cui è sdrucciolato l’ineffabile Cracco non è certo la prima – ed a fortiori neppure la più illustre – delle topiche nelle quali, discettando di riso, sono incappati gastronomi e uomini di scienza. Già nel I secolo d.c. Plinio il Vecchio scriveva che lo stelo della graminacea è corredato di «foglie carnose, simili a quelle del porro, ma più grandi». Tale descrizione appare, ad essere generosi, quantomeno fantasiosa. A discolpa dell’illustre naturalista, v’è da precisare che all’epoca il cereale non era ancora coltivato in Europa e che dunque, con ogni probabilità, mai lo studioso aveva avuto facoltà di ammirarne una pianticella con i propri occhi. Diciassette secoli più tardi toccò nientemeno che al sommo Carlo Linneo, padre della moderna classificazione degli esseri viventi, prendere un veniale granchio collocando in Etiopia – e non, come successivamente assodato, in estremo oriente – la località d’originaria provenienza dell’oryza sativa.

Di minor indulgenza sono invece meritevoli gli svarioni dei quali sono zeppe parecchie pagine a stampa dei nostri giorni. Scrivendo ad esempio del vialone nano veronese, tal Marino Melissano, compilatore di una trattato dall’ampollosa titolazione di “Alimentologia”, sostiene che «la sua coltivazione fu spinta dalla Repubblica Serenissima di Venezia». Peccato che la celebre varietà risicola fu ottenuta per ibridazione presso la Stazione Sperimentale di Vercelli solo nel 1937 – ovverosia quasi un secolo e mezzo dopo la caduta dello Stato Veneto per mano del Bonaparte. A rincarare la dose ci pensa Rosalba Gioffré in un libello dedicato al “Vegano Italiano”. Nel trattare di risi e bisi – piatto che il giorno di San Marco era servito sulle mense dei Dogi – l’immaginifica gastronoma si spinge addirittura a speculare sul cru della graminacea di cui si sarebbero approvvigionati gli antichi cucinieri di Palazzo Ducale, azzardando chimericamente che «il riso utilizzato è sempre stato il vialone nano di Grumolo delle Abbadesse».

In effetti, le varietà risicole attualmente in voga nella nostra cucina hanno alle spalle una storia relativamente recente. Sino alla fine del XVIII secolo di fatto se ne conosceva solamente una – l’ormai estinta nostrale – appartenente alla sottospecie nota come indica. Si doveva trattare di un ceppo a grani cilindrici ed allungati, probabilmente simili a quelli dell’esotico basmati che oggi è agevolmente reperibile anche presso la grande distribuzione. All’inizio dell’ottocento le risaie iniziarono tuttavia a subire gli attacchi di un appestamento botanico – il cosiddetto brusone – il cui impatto sulla coltivazione della graminacea fu non meno devastante di quello che la fillossera avrebbe di lì a pochi decenni avuto sulla viticoltura. L’ottenimento di cloni cerealicoli resistenti alla patologia, che scamparono la risicoltura del nostro paese da un’altrimenti certa capitolazione, fu esclusivo merito di due autentici eroi della storia agricola Italiana, tanto schivi in vita delle luci della ribalta quanto ingiustamente relegati in un postumo oblio.

riso-carnaroli

Il primo dei due personaggi rispondeva al nome di padre Giovanni Calleri, un tenace gesuita sabaudo spedito nei primi decenni del XIX secolo ad evangelizzare i selvaggi delle Filippine. Sulla via del definitivo rientro a casa, l’ardimentoso canonico riuscì a trafugare dalla Cina le sementi di ben 43 varietà risicole endemiche, appartenenti alla sottospecie denominata japonica, la cui esportazione dal Catai era all’epoca (1839) severamente interdetta. Le pianticelle che germinarono dai chicchi arraffati dal religioso, immuni al brusone e produttive di grani pingui ed oblunghi, assicurarono le fondamenta genetiche delle principali tipologie di riso oggi coltivate nella Penisola.

La seconda figura è quella di Ettore De Vecchi, un caparbio agronomo pavese che nella prima metà del novecento dedicò la propria esistenza a selezionare nuovi cloni di elevato profilo qualitativo. Povero al punto da non potersi permettere un’automobile – perì infatti quasi ottuagenario travolto in sella alla sua vecchia motocicletta – De Vecchi fu l’indiscusso padre di molte tra le varietà d’eccellenza attualmente in dote alla risicoltura italiana. Tra queste hanno distinzione il carnaroli, cui per eccesso di modestia l’agronomo impose il nome di un collaboratore, ed il vialone, che ai nostri giorni sopravvive quasi esclusivamente nella versione ibridata con la varietà nano.

A pochi è infine noto che la coltivazione della nobile graminacea conobbe una timida quanto caduca fioritura anche nel nostro circondario. A metà dell’ottocento lo storico Gabriele Rosa censiva infatti diecimila pertiche a risaia sulla sponda meridionale del fosso bergamasco, in un distretto all’epoca vocato alla coltura del cereale per via degli acquitrini che ancora residuavano dall’antico lago Gerundo. Neppure lo stizzoso Cracco avrà dunque titolo a disconoscere che il riso sia a buon diritto da annoverarsi tra i prodotti storici della cucina di Bergamo.


Il più antico manicaretto della storia? Polenta e osei

polenta-e-uccelli-antica-osteria-il-forno-brembillaNarra Plutarco che lo spartano Pausania, comandante in capo della coalizione greca che nel 479 a.c. sconfisse i Medi a Platea, dopo il fausto epilogo della battaglia si fece imbandire negli acquartieramenti nemici un lauto banchetto alla moda dei vinti. “Per Ercole – sbottò il condottiero, stupefatto dall’opulenza dei manicaretti – questi Persiani devono proprio essere degli incorreggibili ingordi se, già disponendo di tutto questo ben di Dio, è venuta loro fame anche della nostra polenta!”.

Non sorprende affatto che il generale lacedemone, originario per giunta del centro culinariamente più retrogrado di tutta l’Ellade, fosse rimasto a bocca spalancata dinnanzi alle succulente vivande servite nell’epula. Ancorché avvolta per lo più nel mistero, quella persiana è difatti stata la più alta tra le civiltà gastronomiche dell’antichità. Del resto traspare da più fonti che i greci guardassero con malcelata ammirazione alla cultura materiale degli storici rivali. L’ateniese Senofonte, ad esempio, annotava come i figli dell’impero Achemenide si astenessero dallo scatarrare, soffiarsi il naso per terra e prodursi pubblicamente in flatulenze. Abitudini che, vien da presumere, a quei tempi dovessero essere tutt’altro che desuete presso i concittadini dell’autorevole storico. Erodoto riferiva altresì che fosse costume del jet set di Persepoli e di Susa celebrare il genetliaco offrendo ai convitati un cammello arrostito tutto intero. Per quanto kitsch possa apparire la portata, è indiscutibile che da quelle parti già ai tempi di Ciro il Grande le cucine nobiliari fossero assai ben attrezzate.

Facezie a parte, è assodato che molte delle vivande-cardine della gastronomia europea moderna e contemporanea, tra cui alcuni capisaldi della tanto celebrata dieta mediterranea, rechino chiaramente impresso il marchio dell’antica Persia. E l’elenco si apre nulladimeno che con la pasta. Giunta in Europa nel cuore del medio evo grazie alla mediazione di arabi ed ebrei, la versatile vivanda ha assai probabilmente visto la luce nell’altopiano iranico o nel bacino mesopotamico. Le principali voci utilizzate nel lessico moresco e giudaico per designare l’alimento – reshteh ed itrya – sono infatti di diretta derivazione persiano-aramaica. D’altronde, come evidenziato nello scorso numero di Affari di Gola, pare che persino il casoncello bergamasco sia legato da vincoli di remota parentela ai kushkusnai dell’impero Sasanide.

La feconda vena degli arcaici cucinieri dell’Asia centrale nel dominio di quelli che sono oggi definiti primi piatti è confermata da un’altra invenzione destinata a lasciare un profondo segno nelle vicende del cibo: quella del risotto. È noto che la coltivazione del riso si sia storicamente diffusa dall’estremo oriente, prendendo piede in Persia ai tempi della dinastia Achemenide. Ed è con certezza sulle sponde meridionali del mar Caspio che si è realizzata la cruciale trasfigurazione culinaria del cereale. Qui la graminacea è in effetti passata dall’accomodamento minimalista ancor oggi prevalente in Indocina – semplicemente lessata senza alcun condimento – alle elaborazioni riccamente ammannite della gastronomia persiana, successivamente riprese in occidente su impulso arabo e salutate da secolare successo.

È del tutto perspicuo che una tanto cospicua dotazione di competenze tecniche non possa certo essere germinata dal nulla. Recenti rinvenimenti hanno restituito evidenza a quella che l’archeologo Jean Bottero ha a buon titolo definito la prima grande cucina del passato remoto, cui la cultura gastronomica persiana ha generosamente attinto. Si tratta della civiltà alimentare mesopotamica, il cui inimmaginabile grado di raffinatezza e perfezione tecnica è attestato da alcuni ricettari in lingua accadica risalenti addirittura al 1700 a.c.. È risaputo che le popolazioni di stanza tra Tigri ed Eufrate intrattennero relazioni ed interscambi privilegiati – ancorché a tratti inevitabilmente burrascosi – con gli agguerriti vicini d’oriente. E nel 539 a.c. Babilonia divenne addirittura una satrapia persiana, per successivamente restarlo, salvo brevi interruzioni, lungo l’arco di oltre un millennio.

Tra le antichissime ricette mesopotaniche a noi pervenute spicca quella di una vivanda che rivela sorprendenti analogie con la polenta e osei della nostra tradizione. Il procedimento per la sua preparazione prevedeva che degli uccelletti, con il corredo dei loro ventrigli, passassero per un’elaborata cottura in due fasi: dapprima saltati velocemente in una padella di metallo, quindi stufati a lungo in una casseruola di terracotta con l’aggiunta di erbe aromatiche, porro ed aglio su una base liquida di acqua e latte (ancora ai nostri giorni talune versioni azzardano il complemento, esecrato dai puristi, della panna). Così approntata, la cacciagione minuta veniva distribuita con la sua salsa nell’incavo di una pagnotta impastata con farina, porro, aglio ed un po’ di grasso di cottura dei volatili. Una volta farcito, il timballo veniva richiuso da un opercolo ricavato panificando la medesima massa dalla quale era stata ottenuta la base.

È impossibile non restare sbigottiti dinnanzi all’ingegnosità di questa portata, vecchia quasi di quaranta secoli. E sarebbe ingeneroso rimarcare che agli uccelletti assai meglio convenga, in luogo dell’arcaico accomodamento in crosta di pane, un morbido giaciglio di polenta. È nondimeno scherzosamente suggestivo congetturare che l’arcigno Pausania non si ingannasse di troppo quando insinuava che l’imperatore Serse I ed il suo luogotenente Mardonio, nella seconda campagna persiana in Ellade, fossero davvero mossi dalla curiosità verso l’umile eppur leggendaria farinata greco-romana. Passi per la pastasciutta e per il risotto, ma è incontrovertibile che almeno la polenta sia affare nostro sin dalla notte dei tempi.


La costoletta alla milanese, tra vitelli e bufale

I temi del cibo e della sua storia paiono fornire un impareggiabile campo di tiro per la proverbiale propensione milanese a spararla grossa. Se ne ha evidenza sin dal XIII secolo, quando Bonvesin de la Riva, sbandierando l’opulenza dei consumi alimentari della metropoli lombarda, enumerava la bellezza di 300 forni del pane, 440 botteghe di beccaio ed oltre mille bottiglierie.

Combinazione vuole che in quegli anni a Parigi, le cui mura fornivano asilo ad una popolazione più che doppia di quella residente in riva ai navigli, fosse documentata la presenza di soli 62 panettieri, 42 macellai e 130 osti. Trascorrono poco più di due secoli, ed il repertorio delle frottole gastronomiche meneghine si rimpingua ulteriormente grazie all’eccentrica penna di Ortensio Lando. A quella che è a buon titolo considerata la capostipite delle guide enogastronomiche del Bel Paese, l’eclettico poligrafo allega invero uno scherzoso catalogo de gli inventori delle cose che si mangiano e beveno i cui nomi – superfluo precisarlo – sono dal primo all’ultimo inventati di sana pianta.

Ma le iperboli di Bonvesin e le fantasiose congetture del Lando quasi svaniscono dinnanzi all’alluvione di fanfaluche che negli ultimi 50 anni ha inondato la discussione sulle origini della costoletta alla milanese, e che ancor oggi stenta a rientrare negli argini. Il tema, va riconosciuto, è piuttosto delicato. La pietanza è stata infatti elevata ad emblema culinario del nostro Risorgimento e la questione della sua paternità è divenuta un punto d’orgoglio nazionale. Su un fronte si schiera chi poco patriotticamente insinua che si tratti di un imprestito austriaco, dato che a Vienna si cucina una scaloppa impanata alla quale, checché se ne dica, la vivanda meneghina somiglia parecchio. Dall’altro lato della barricata v’è invece chi ritiene che tali illazioni vadano controbattute con ogni mezzo, senza lesinare il ricorso a colpi bassi.

La sarabanda delle mistificazioni ha inizio nel 1963, anno in cui Felice Cunsolo – pubblicista siciliano autoelettosi paladino della gastronomia padana – dà alle stampe un volumetto celebrativo della tradizione culinaria lombarda. Nel testo si fa menzione di un fantomatico rapporto da Milano del Feldmaresciallo Radetzky a beneficio di tale conte Attems, qualificato come attendente del Kaiser Francesco Giuseppe. Nella relazione, apparentemente conservata all’Archivio di Stato di Vienna, si “informava l’imperial governo che i milanesi sapevano cucinare qualcosa di veramente straordinario, la costoletta di vitello intinta nell’uovo, impanata e fritta nel burro”. Peccato che nella capitale austriaca non vi sia traccia della missiva, ed ancor meno si abbia evidenza di alcun Attems che all’epoca figurasse tra i ruoli di vertice dell’esercito asburgico. D’altronde parrebbe quantomeno singolare che il serioso governatore militare del Lombardo-Veneto osasse addentrarsi in frivole digressioni gastronomiche nel relazionare il proprio quartier generale da uno dei punti più caldi dell’Impero.

Ancorché fabbricata ad arte, la storiella di Radetzky suona comunque apparentemente credibile: il Feldmaresciallo, buona forchetta ed impenitente donnaiolo, non manca di suscitare sottaciute simpatie anche tra gli avversari. Ci casca il Comune di Milano, che presta credito alla bubbola inserendola nella delibera di attribuzione della DE.CO alla ricetta. La bevono persino gli austriaci, i quali, facendo sfoggio di afflato cosmopolita, paiono finanche onorati di attribuire ascendenze d’oltreconfine alla loro schnitzel.

Dalla frottola si lascia abbindolare anche Gianni Brera, ben lieto di poter fare da grancassa alle rivendicazioni milanesi. Non pago, l’ineffabile elzevirista, a propria volta tutt’altro che schivo della boutade, rincara la dose millantando la testimonianza nientemeno che di Stendhal. Secondo Brera il grande scrittore francese, nel resoconto di una scampagnata effettuata nel 1818, avrebbe infatti encomiato la succulenza della fettina impanata degustata nell’agro a nord di Milano. Ma in realtà negli appunti brianzoli di Henri Beyle, tra scurrili allusioni alla facilità di costumi delle donne locali e didascaliche divagazioni sull’architettura delle dimore patrizie, della pietanza non v’è neppure l’ombra.

Screditata proditoriamente la comunque dubbia lectio della paternità asburgica, il fronte nazionale della costoletta deve quindi misurarsi con la ben più problematica assegnazione di un passato remoto alla vivanda. Vi si cimenta tale Romano Bracalini, che tra le pieghe dell’autorevole Storia di Milano di Pietro Verri scova un pranzo monastico del 1148 nel corso del quale furono serviti dei lombulos cum panitio. Ancorché intaccato dalla corruzione maccheronizzante del basso medioevo, è comune consenso che il latinorum dell’inciso ponga la parola fine al dibattito sulle origini. Ma, ancora una volta, le cose non stanno esattamente così.

Se invero sussistono pochi dubbi a riguardo della lombata cui allude il testo – ed ancor meno sulla sua cottura allo spiedo in un unico trancio – la decifrazione di panitio è altresì un rompicapo cui non riesce a fornire una soluzione definitiva neppure lo stesso Verri. L’eminente storico propone diverse glosse: una piuttosto improbabile polentina di panìco – o delle pagnottelle di fior di farina – da accompagnarsi al piatto, o ancora del pangrattato con cui, come illustrato da Martino da Como nel Quattrocento, si spolverizzavano gli arrosti sul finire della cottura. Certo è che, tra le diverse alternative, occorre far esercizio di assai fervida immaginazione anche solo per approssimarsi alla fattispecie di una braciola dorata nel burro.

Sgombrato il campo da forzature ed aperte falsificazioni, viene dunque da interrogarsi su quali siano le effettive radici della vivanda. La più accreditata tra le ricostruzioni provviste di serio fondamento storiografico è quella elaborata da Massimo Alberini, che menziona un celebre trattato del francese Menon – La Science du Maître d’Hôtel cuisinier, pubblicato nel 1749 – nel quale è racchiusa la ricetta delle cotelettes de veau frites. Da Parigi la piccata di vitello impanata sarebbe quindi giunta a Milano sotto il nome di cotoletta rivoluzione francese.

Il colpo è di quelli che manderebbero al tappeto l’orgoglio gastronomico di un intero paese. Ma il fronte nazionale della costoletta può tirare un sospiro di sollievo: sussiste invero solida evidenza che la tecnica dell’impanatura delle carni sia di irrefutabili origini italiane. La sua prima codificazione è infatti riportata nella cinquecentesca Opera di Bartolomeo Scappi, che la propone per la preparazione di alcune frattaglie bovine. Alcuni decenni più tardi è il magistrato bolognese Vincenzo Tanara ne L’economia del cittadino in villa a ribadirne l’utilizzo per l’accomodamento di rigaglie ed altri tagli.

Tutt’altro che occasionalmente, entrambe le segnalazioni paiono convergere sulla città di San Petronio: se il Tanara spese l’intera esistenza all’ombra delle due torri, anche lo Scappi, prima della sua nomina a cuciniere pontificio, prestò a lungo servizio nel capoluogo emiliano alle dipendenze del Cardinal Campeggio. E combinazione vuole che Bologna sia parimenti patria di una rinomata scaloppa impanata, ancor oggi fritta nello strutto così come raccomandato cinque secoli fa dal cuoco secreto di Pio V. Scampato quindi il pericolo di un’indigesta affiliazione parigina, con ogni verosimiglianza la costoletta alla milanese deve comunque rassegnarsi a veder consegnato in mani forestiere – ancorché non straniere – il proprio titolo di primogenitura.