La costoletta alla milanese, tra vitelli e bufale

La costoletta alla milanese, tra vitelli e bufale

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I temi del cibo e della sua storia paiono fornire un impareggiabile campo di tiro per la proverbiale propensione milanese a spararla grossa. Se ne ha evidenza sin dal XIII secolo, quando Bonvesin de la Riva, sbandierando l’opulenza dei consumi alimentari della metropoli lombarda, enumerava la bellezza di 300 forni del pane, 440 botteghe di beccaio ed oltre mille bottiglierie.

Combinazione vuole che in quegli anni a Parigi, le cui mura fornivano asilo ad una popolazione più che doppia di quella residente in riva ai navigli, fosse documentata la presenza di soli 62 panettieri, 42 macellai e 130 osti. Trascorrono poco più di due secoli, ed il repertorio delle frottole gastronomiche meneghine si rimpingua ulteriormente grazie all’eccentrica penna di Ortensio Lando. A quella che è a buon titolo considerata la capostipite delle guide enogastronomiche del Bel Paese, l’eclettico poligrafo allega invero uno scherzoso catalogo de gli inventori delle cose che si mangiano e beveno i cui nomi – superfluo precisarlo – sono dal primo all’ultimo inventati di sana pianta.

Ma le iperboli di Bonvesin e le fantasiose congetture del Lando quasi svaniscono dinnanzi all’alluvione di fanfaluche che negli ultimi 50 anni ha inondato la discussione sulle origini della costoletta alla milanese, e che ancor oggi stenta a rientrare negli argini. Il tema, va riconosciuto, è piuttosto delicato. La pietanza è stata infatti elevata ad emblema culinario del nostro Risorgimento e la questione della sua paternità è divenuta un punto d’orgoglio nazionale. Su un fronte si schiera chi poco patriotticamente insinua che si tratti di un imprestito austriaco, dato che a Vienna si cucina una scaloppa impanata alla quale, checché se ne dica, la vivanda meneghina somiglia parecchio. Dall’altro lato della barricata v’è invece chi ritiene che tali illazioni vadano controbattute con ogni mezzo, senza lesinare il ricorso a colpi bassi.

La sarabanda delle mistificazioni ha inizio nel 1963, anno in cui Felice Cunsolo – pubblicista siciliano autoelettosi paladino della gastronomia padana – dà alle stampe un volumetto celebrativo della tradizione culinaria lombarda. Nel testo si fa menzione di un fantomatico rapporto da Milano del Feldmaresciallo Radetzky a beneficio di tale conte Attems, qualificato come attendente del Kaiser Francesco Giuseppe. Nella relazione, apparentemente conservata all’Archivio di Stato di Vienna, si “informava l’imperial governo che i milanesi sapevano cucinare qualcosa di veramente straordinario, la costoletta di vitello intinta nell’uovo, impanata e fritta nel burro”. Peccato che nella capitale austriaca non vi sia traccia della missiva, ed ancor meno si abbia evidenza di alcun Attems che all’epoca figurasse tra i ruoli di vertice dell’esercito asburgico. D’altronde parrebbe quantomeno singolare che il serioso governatore militare del Lombardo-Veneto osasse addentrarsi in frivole digressioni gastronomiche nel relazionare il proprio quartier generale da uno dei punti più caldi dell’Impero.

Ancorché fabbricata ad arte, la storiella di Radetzky suona comunque apparentemente credibile: il Feldmaresciallo, buona forchetta ed impenitente donnaiolo, non manca di suscitare sottaciute simpatie anche tra gli avversari. Ci casca il Comune di Milano, che presta credito alla bubbola inserendola nella delibera di attribuzione della DE.CO alla ricetta. La bevono persino gli austriaci, i quali, facendo sfoggio di afflato cosmopolita, paiono finanche onorati di attribuire ascendenze d’oltreconfine alla loro schnitzel.

Dalla frottola si lascia abbindolare anche Gianni Brera, ben lieto di poter fare da grancassa alle rivendicazioni milanesi. Non pago, l’ineffabile elzevirista, a propria volta tutt’altro che schivo della boutade, rincara la dose millantando la testimonianza nientemeno che di Stendhal. Secondo Brera il grande scrittore francese, nel resoconto di una scampagnata effettuata nel 1818, avrebbe infatti encomiato la succulenza della fettina impanata degustata nell’agro a nord di Milano. Ma in realtà negli appunti brianzoli di Henri Beyle, tra scurrili allusioni alla facilità di costumi delle donne locali e didascaliche divagazioni sull’architettura delle dimore patrizie, della pietanza non v’è neppure l’ombra.

Screditata proditoriamente la comunque dubbia lectio della paternità asburgica, il fronte nazionale della costoletta deve quindi misurarsi con la ben più problematica assegnazione di un passato remoto alla vivanda. Vi si cimenta tale Romano Bracalini, che tra le pieghe dell’autorevole Storia di Milano di Pietro Verri scova un pranzo monastico del 1148 nel corso del quale furono serviti dei lombulos cum panitio. Ancorché intaccato dalla corruzione maccheronizzante del basso medioevo, è comune consenso che il latinorum dell’inciso ponga la parola fine al dibattito sulle origini. Ma, ancora una volta, le cose non stanno esattamente così.

Se invero sussistono pochi dubbi a riguardo della lombata cui allude il testo – ed ancor meno sulla sua cottura allo spiedo in un unico trancio – la decifrazione di panitio è altresì un rompicapo cui non riesce a fornire una soluzione definitiva neppure lo stesso Verri. L’eminente storico propone diverse glosse: una piuttosto improbabile polentina di panìco – o delle pagnottelle di fior di farina – da accompagnarsi al piatto, o ancora del pangrattato con cui, come illustrato da Martino da Como nel Quattrocento, si spolverizzavano gli arrosti sul finire della cottura. Certo è che, tra le diverse alternative, occorre far esercizio di assai fervida immaginazione anche solo per approssimarsi alla fattispecie di una braciola dorata nel burro.

Sgombrato il campo da forzature ed aperte falsificazioni, viene dunque da interrogarsi su quali siano le effettive radici della vivanda. La più accreditata tra le ricostruzioni provviste di serio fondamento storiografico è quella elaborata da Massimo Alberini, che menziona un celebre trattato del francese Menon – La Science du Maître d’Hôtel cuisinier, pubblicato nel 1749 – nel quale è racchiusa la ricetta delle cotelettes de veau frites. Da Parigi la piccata di vitello impanata sarebbe quindi giunta a Milano sotto il nome di cotoletta rivoluzione francese.

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Bartolomeo Scappi

Il colpo è di quelli che manderebbero al tappeto l’orgoglio gastronomico di un intero paese. Ma il fronte nazionale della costoletta può tirare un sospiro di sollievo: sussiste invero solida evidenza che la tecnica dell’impanatura delle carni sia di irrefutabili origini italiane. La sua prima codificazione è infatti riportata nella cinquecentesca Opera di Bartolomeo Scappi, che la propone per la preparazione di alcune frattaglie bovine. Alcuni decenni più tardi è il magistrato bolognese Vincenzo Tanara ne L’economia del cittadino in villa a ribadirne l’utilizzo per l’accomodamento di rigaglie ed altri tagli.

Tutt’altro che occasionalmente, entrambe le segnalazioni paiono convergere sulla città di San Petronio: se il Tanara spese l’intera esistenza all’ombra delle due torri, anche lo Scappi, prima della sua nomina a cuciniere pontificio, prestò a lungo servizio nel capoluogo emiliano alle dipendenze del Cardinal Campeggio. E combinazione vuole che Bologna sia parimenti patria di una rinomata scaloppa impanata, ancor oggi fritta nello strutto così come raccomandato cinque secoli fa dal cuoco secreto di Pio V. Scampato quindi il pericolo di un’indigesta affiliazione parigina, con ogni verosimiglianza la costoletta alla milanese deve comunque rassegnarsi a veder consegnato in mani forestiere – ancorché non straniere – il proprio titolo di primogenitura.