Il più antico manicaretto della storia? Polenta e osei

Il più antico manicaretto della storia? Polenta e osei

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polenta-e-uccelli-antica-osteria-il-forno-brembillaNarra Plutarco che lo spartano Pausania, comandante in capo della coalizione greca che nel 479 a.c. sconfisse i Medi a Platea, dopo il fausto epilogo della battaglia si fece imbandire negli acquartieramenti nemici un lauto banchetto alla moda dei vinti. “Per Ercole – sbottò il condottiero, stupefatto dall’opulenza dei manicaretti – questi Persiani devono proprio essere degli incorreggibili ingordi se, già disponendo di tutto questo ben di Dio, è venuta loro fame anche della nostra polenta!”.

Non sorprende affatto che il generale lacedemone, originario per giunta del centro culinariamente più retrogrado di tutta l’Ellade, fosse rimasto a bocca spalancata dinnanzi alle succulente vivande servite nell’epula. Ancorché avvolta per lo più nel mistero, quella persiana è difatti stata la più alta tra le civiltà gastronomiche dell’antichità. Del resto traspare da più fonti che i greci guardassero con malcelata ammirazione alla cultura materiale degli storici rivali. L’ateniese Senofonte, ad esempio, annotava come i figli dell’impero Achemenide si astenessero dallo scatarrare, soffiarsi il naso per terra e prodursi pubblicamente in flatulenze. Abitudini che, vien da presumere, a quei tempi dovessero essere tutt’altro che desuete presso i concittadini dell’autorevole storico. Erodoto riferiva altresì che fosse costume del jet set di Persepoli e di Susa celebrare il genetliaco offrendo ai convitati un cammello arrostito tutto intero. Per quanto kitsch possa apparire la portata, è indiscutibile che da quelle parti già ai tempi di Ciro il Grande le cucine nobiliari fossero assai ben attrezzate.

Facezie a parte, è assodato che molte delle vivande-cardine della gastronomia europea moderna e contemporanea, tra cui alcuni capisaldi della tanto celebrata dieta mediterranea, rechino chiaramente impresso il marchio dell’antica Persia. E l’elenco si apre nulladimeno che con la pasta. Giunta in Europa nel cuore del medio evo grazie alla mediazione di arabi ed ebrei, la versatile vivanda ha assai probabilmente visto la luce nell’altopiano iranico o nel bacino mesopotamico. Le principali voci utilizzate nel lessico moresco e giudaico per designare l’alimento – reshteh ed itrya – sono infatti di diretta derivazione persiano-aramaica. D’altronde, come evidenziato nello scorso numero di Affari di Gola, pare che persino il casoncello bergamasco sia legato da vincoli di remota parentela ai kushkusnai dell’impero Sasanide.

La feconda vena degli arcaici cucinieri dell’Asia centrale nel dominio di quelli che sono oggi definiti primi piatti è confermata da un’altra invenzione destinata a lasciare un profondo segno nelle vicende del cibo: quella del risotto. È noto che la coltivazione del riso si sia storicamente diffusa dall’estremo oriente, prendendo piede in Persia ai tempi della dinastia Achemenide. Ed è con certezza sulle sponde meridionali del mar Caspio che si è realizzata la cruciale trasfigurazione culinaria del cereale. Qui la graminacea è in effetti passata dall’accomodamento minimalista ancor oggi prevalente in Indocina – semplicemente lessata senza alcun condimento – alle elaborazioni riccamente ammannite della gastronomia persiana, successivamente riprese in occidente su impulso arabo e salutate da secolare successo.

È del tutto perspicuo che una tanto cospicua dotazione di competenze tecniche non possa certo essere germinata dal nulla. Recenti rinvenimenti hanno restituito evidenza a quella che l’archeologo Jean Bottero ha a buon titolo definito la prima grande cucina del passato remoto, cui la cultura gastronomica persiana ha generosamente attinto. Si tratta della civiltà alimentare mesopotamica, il cui inimmaginabile grado di raffinatezza e perfezione tecnica è attestato da alcuni ricettari in lingua accadica risalenti addirittura al 1700 a.c.. È risaputo che le popolazioni di stanza tra Tigri ed Eufrate intrattennero relazioni ed interscambi privilegiati – ancorché a tratti inevitabilmente burrascosi – con gli agguerriti vicini d’oriente. E nel 539 a.c. Babilonia divenne addirittura una satrapia persiana, per successivamente restarlo, salvo brevi interruzioni, lungo l’arco di oltre un millennio.

Tra le antichissime ricette mesopotaniche a noi pervenute spicca quella di una vivanda che rivela sorprendenti analogie con la polenta e osei della nostra tradizione. Il procedimento per la sua preparazione prevedeva che degli uccelletti, con il corredo dei loro ventrigli, passassero per un’elaborata cottura in due fasi: dapprima saltati velocemente in una padella di metallo, quindi stufati a lungo in una casseruola di terracotta con l’aggiunta di erbe aromatiche, porro ed aglio su una base liquida di acqua e latte (ancora ai nostri giorni talune versioni azzardano il complemento, esecrato dai puristi, della panna). Così approntata, la cacciagione minuta veniva distribuita con la sua salsa nell’incavo di una pagnotta impastata con farina, porro, aglio ed un po’ di grasso di cottura dei volatili. Una volta farcito, il timballo veniva richiuso da un opercolo ricavato panificando la medesima massa dalla quale era stata ottenuta la base.

È impossibile non restare sbigottiti dinnanzi all’ingegnosità di questa portata, vecchia quasi di quaranta secoli. E sarebbe ingeneroso rimarcare che agli uccelletti assai meglio convenga, in luogo dell’arcaico accomodamento in crosta di pane, un morbido giaciglio di polenta. È nondimeno scherzosamente suggestivo congetturare che l’arcigno Pausania non si ingannasse di troppo quando insinuava che l’imperatore Serse I ed il suo luogotenente Mardonio, nella seconda campagna persiana in Ellade, fossero davvero mossi dalla curiosità verso l’umile eppur leggendaria farinata greco-romana. Passi per la pastasciutta e per il risotto, ma è incontrovertibile che almeno la polenta sia affare nostro sin dalla notte dei tempi.

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