La strana rassegnazione sulla riforma delle Popolari

PopolariCambiare idea è legittimo. “Il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione”, recita un aforisma di Petrarca. Però è strano che la riforma delle Popolari dopo l’iniziale levata di scudi all’improvvisa e imprevedibile comparsa del decreto legge sia passata, come nelle previsioni, attraverso un voto di fiducia, ma in fondo quasi senza colpo ferire. L’ultima correzione ottenuta alla fine è che nell’assemblea che varerà la trasformazione in Spa potrà essere introdotto un limite all’esercizio del diritto di voto in assemblea del 5%, ma per 24 mesi. Una soglia che peraltro esiste già in altri istituti, come Unicredit, e senza limiti temporali, ma che alla prova dei fatti non costituisce una barriera insormontabile. Esisteva ad esempio anche al Credito Bergamasco ed è bastata un’assemblea straordinaria per togliere il limite e poi cedere il controllo al Crédit Lyonnais.

Di fatto l’introduzione del limite al diritto di voto sembra essere stato un contentino innocuo tanto per dire che sono state ascoltate le critiche. Ma critiche che in fondo non sono state così sentite. Qualcuno ha mostrato un po’ di fastidio, come avviene per tutti i contrattempi che rovinano il regolare flusso degli eventi, ma nessuno sembra sentirsi messo in discussione, tanto che la muta rassegnazione sembra nascondere anche un po’ di soddisfazione. Se questa normativa doveva servire per sgretolare presunti gruppi di potere autoreferenziali, bisogna prendere atto che non c’è stata una particolare reazione per evitare l’indebolimento. Se dopo due mesi la possibilità di una calata straniera su una parte importante del sistema creditizio o comunque un rivolgimento della governance non sembra costituire più un problema c’è da pensare che la rivoluzione, auspicata da alcuni e che dovrebbe essere temuta da altri, non ci sarà.

Anzi, di fronte al nocciolo della questione, che è il passaggio dalla cooperativa con voto capitario (un socio un voto) a una normale società per azioni, dove contano le azioni, è spuntata una tendenza diffusa ad anticipare la trasformazione che in base alla legge dovrebbe essere effettuata entro 18 mesi, ovvero prima dell’estate 2016. A far cambiare le idee sulla riforma da parte dei banchieri potrebbe essere il fatto che in realtà non ci sarà il “tutti a casa” ventilato all’inizio. Ma anzi, come ha fatto notare il capo della vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, la trasformazione in spa “consentirà ai soci di controllare più efficacemente l’operato degli amministratori, riducendo inoltre gli spazi per le ingerenze indebite e i veti ingiustificati di minoranze organizzate”. Insomma, una governance più stabile e allo stesso tempo più difficile da cambiare. Questo vuol dire che in futuro un cambiamento di maggioranza nel corso dell’assemblea come, ad esempio, è stato sfiorato in Ubi, non sarà possibile perché la conta delle azioni si farebbe prima e la riunione si farebbe a giochi fatti. E un presidente che in una Popolare può (o poteva) restare al vertice per decenni per quella che viene lamentata come autoreferenzialità, in una Spa lo potrà essere, come avviene, perché ha il pacchetto di azioni di controllo, passato da padre in figlio. Si può pensare, a questo punto, se non lo è già stato fatto, che prima di una concentrazione delle banche, ufficialmente il motivo per cui è stata pensata la riforma, ci sarà una concentrazione del capitale.

Le assemblee di questo mese, intanto, si svolgeranno secondo le regole usuali. E senza grandi temi sul tavolo, se non i bilanci, le riunioni serviranno soprattutto per misurare il polso dei soci e capire il loro orientamento su strategie che ormai non riguardano più la trasformazione in Spa (caso mai saranno da valutare i tempi, dato che in certi istituti, come Ubi, l’anno prossimo saranno da rinnovare le cariche sociali) quanto quelle politiche di aggregazione che dovrebbero rafforzare le banche ostacolando con le dimensioni quelle scalate dalle quali senza il voto capitario sono meno protette.