Oggi siamo qui, siamo a terra, siamo qui come in altre 23 altre piazze italiane. Numerosi, coraggiosi, pacifici si, ma determinati, noi siamo quelli che ogni giorno si rimboccano le maniche. Ma di fronte a questa tragedia, purtroppo, non basta.
“Siamo a terra” economicamente. Il settore dei pubblici esercizi perderà quest’anno almeno 27 miliardi di euro su 96 di fatturato complessivo. 300mila posti di lavoro nel nostro settore rischiano di scomparire definitivamente. L’ulteriore imposizione della chiusura alle 18 ci costerà da sola 2,1 miliardi di euro, impedendo a 600 mila persone di lavorare.
Tutto questo oggi costa caro a noi, ma il conto lo pagherà tutto il Paese. Se è vero, come è vero, che bar, ristoranti, pizzerie, catering, discoteche e sale da ballo popolano paesi, città, metropoli, vie e piazze del nostro Paese, dando a questi luoghi, vita, luce, socialità. Prima di questa tragedia, ogni giorno davamo da mangiare a oltre 11 milioni di persone, siamo il luogo del primo caffè e sorriso al mattino, del pranzo d’affari, della cena fra amici, spesso rappresentiamo i luoghi dove la memoria ha fissato i ricordi più intimi e belli della nostra e vostra vita.
Ma siamo imprese anche noi, con i nostri bilanci e i conti da far tornare a fine serata. Siamo più di 300mila e diamo lavoro a più di 1milione e duecentomila persone in tutta Italia, e sulle nostre imprese vive un indotto importante. Siamo infatti la parte terminale della lunga filiera del cibo, la filiera agroalimentare, a cui ogni anno garantiamo acquisti per 20 miliardi di euro. Siamo parte fondamentale dell’identità italiana, ragione primaria per il turismo e componente del vantaggio competitivo del Made in Italy, il primo motivo per cui i turisti stranieri scelgono di tornare nel nostro Paese.
Eppure, “Siamo a terra”. Comprendiamo e siamo responsabili di fronte ad una tragica emergenza sanitaria, subiamo però da mesi la sconfortante definizione di attività “non essenziali” ogni volta in cui la situazione si complica. Eppure, tutte le attività economiche sono essenziali quando producono reddito, occupazione, servizi. E tutte le attività sono sicure se garantiscono le giuste regole e attuano i protocolli sanitari assegnati. E noi li abbiamo applicati, accollandoci spesso costi importanti e responsabilità spinose.
Per questo, infine, “Siamo a terra” moralmente. Perché -dopo tutto questo, a quasi otto mesi dal primo lockdown- non veniamo considerati alleati dell’ordine pubblico e non vediamo riconosciuto il nostro valore sociale, ma ci sentiamo usati ancora una volta come capro espiatorio di socialità per controlli che mancano e misure di organizzazione che fanno difetto. Ci sfibra l’incertezza e ci demotiva l’instabilità, in un’insensata gara all’untore, e allora lo vogliamo dire con forza. Non siamo noi i responsabili della curva dei contagi. Noi non siamo il problema. Possiamo e vogliamo essere parte della soluzione.
“Siamo a terra”, ma non ci arrendiamo ne abbiamo intenzione di farlo. Lo diciamo con il pensiero che va agli amici e colleghi hanno chiuso definitivamente e a quelli che si sono tolti la vita o hanno perso la voglia di viverla. Oggi siamo in 24 piazze anche per loro, per dire a tutti voi e a tutti noi che un’altra strada è possibile.
Anche per loro, noi ci vogliamo rialzare.
Insieme, per quel senso di solidarietà che da sempre appartiene al nostro settore e che oggi attraversa le piazze di tutta Italia.
Insieme, perché solo così si può sentire la voce di un piccolo bar, di un ristorante di provincia, di un locale amato dal quartiere nel vociare indistinto della pena e del panico.
Insieme, con dignità, anche seduti per terra. Con la mascherina e il distanziamento. Con il silenzio assordante di un settore che non ha più fiato ma ha ancora una voce: quella di FIPE.
Il Governo, ancora nella giornata di ieri, ha preso provvedimenti per garantire ristori ad indennizzo delle perdite di fatturato. Non vogliamo essere disfattisti, apprezziamo gli impegni espressi, ma dopo mesi di burocrazia esigiamo che arrivino non presto, ma subito. E speriamo che arrivino accompagnati da interventi di mitigazione dei costi a partire da interventi sulle locazioni, dal prolungamento degli ammortizzatori sociali e dalla cancellazione di impegni fiscali e sulle moratorie dei pagamenti.
Gli indennizzi al settore sono un atto dovuto, non una misura compensativa: nulla può compensare la negazione del diritto al lavoro.
Queste misure sono necessarie per rimetterci in piedi. Chiediamo con forza che si renda giustizia ad un settore che oggi è sì a terra, ma che vuole tornare a correre sulle sue gambe.
Lo chiediamo per la storia delle nostre imprese, per il presente delle nostre famiglie, ma soprattutto per il futuro dei nostri figli, delle nostre città e del nostro Paese.