Troppe bischerate sulla scuola, ci vorrebbe un antisessantotto
Cola sciropposa la melassa mediatica: c’è l’autunno che incombe, con le nebbie e le castagne genge, e c’è il primo giorno di scuola, con i primi batticuore e le speranze negli occhi stellanti di citti e cittelle. Questi sono gli indefettibili temi della retorica settembrina. Ogni settembre che Dio manda in terra, ci sono le interviste alle mamme, tutte fiere dei loro Nicholas e delle loro Jessiche che si accingono ad imparare a sillabare ba-ba e bu-bu, immortalate davanti a qualche istituto comprensivo di Vattelapesca. Del pari, indefettibilmente, ci giungono le alate parole di provveditori e ministri, piene di motti augurali e di garanzie istituzionali: noi ci tocchiamo apotropaicamente sugli auguri e sorridiamo, con diabolica ironia, delle garanzie. Infine, dopo le fanfare e gli zuccherini, comincia la mazurka: e lì, è il caso di dirlo, cade l’asino. Perché, lungi dall’essere quel meraviglioso mondo di Oz che si evince da circolari e telegiornali, l’inizio dell’anno scolastico assomiglia piuttosto al cerchio degli ignavi, che corrono a perdifiato dietro ad un’insegna che, beffardamente, muta colore ad ogni piè sospinto. E il piè sospinto dipende dai governi, dai ministri, dalle furbe trovate di qualche docimologo demente. La triste verità è che non ci si capisce niente: mancano docenti, cattedre si volatilizzano ed altre si materializzano, come in un vecchio film di Star Trek, i programmi non si capiscono, gli obiettivi, obiettivamente, sono alquanto vaghi e le competenze…beh, le competenze!
Insomma, è un maledettissimo imbroglio, questo accidente di inizio anno scolastico. E la buona scuola sembra sempre meno buona e, soprattutto, sempre meno scuola: sembra il parcheggio di un supermercato, un ufficio collocamento, una giostra di paese, un centro sociale, una clinica neuropsichiatrica, ma non sembra punto una scuola come ce la immaginiamo. Intendiamoci, alla fine le classi si formano, gli orari si incastrano, i supplenti suppliscono ed i docenti docentano (quest’ultimo verbo a pera l’ho inserito per permettere a qualche professoressa di lettere di conquistare il suo momento di gloria, segnalando al direttore che il verbo docentare, sia pure frequentativo, non esiste proprio): questo, per esclusivo merito di quei poveri disperati che si rovinano la salute cercando di mettere una pezza alle sesquipedali bischerate della burocrazia scolastica. Perché, vorrei che lo sapeste, la scuola, buona o cattiva che sia, sopravvive grazie alla pazienza e allo spirito di sacrificio di un manipolo di insegnanti e di dirigenti che, non del tutto immemori dei tempi antichi, in cui si era usi lavorare e far silenzio, si dannano per riparare i danni che un’impostazione criminale della pubblica istruzione infligge al buon senso e all’educazione dei nostri ragazzi.
La scuola, badalì, non è messa come dite voi, quando ne parlate maluccio, magari davanti al cappuccino, perché l’erede non ha capito una mazza di Eraclito e ha preso tre in filosofia: è molto peggio, è drammaticamente peggio. Questo Paese sta andando in malora per un’infinità di motivi e, tra questi, la scuola è il più grave, il più strategico, il più grottesco: la scuola dovrebbe essere il nostro futuro e, invece, è decisamente un trapassato. Nel senso più cadaverico del termine. Io mi sono un tantino stancato di fare diagnosi e suggerire medicine, però un ultimo tentativo lo voglio fare: siccome le cose vanno sempre peggio e, ai piani alti, cinguettano felici con imbarazzante incoscienza, voi che amate la scuola e che desiderate che i nostri figli ne escano, non si dice pronti alla vita, chè la prontezza uno se la deve sudare, ma quantomeno alfabetizzati, cercate di fare sentire la vostra voce.
E’inutile raccontarci tra noi, davanti al solito cappuccino, che la scuola fa schifo e, poi, non dire nulla e non fare nulla, quando chi la riduce così si inventa artagotiche scempiaggini ad ogni chiaro di luna. Sapete cosa ci vorrebbe? Un antisessantotto: una rivoluzione alla rovescia, che la facesse finita col cumulo di bischerate che si è andato ammassando sulla scuola, tra sperimentazioni e feticismi didattici, negli ultimi cinquant’anni. Capisco che sia un filo utopistico immaginare degli studenti che vanno in piazza a chiedere di studiare, a domandare ordine, selezione, meritocrazia: però, se le riforme, anziché riformare, demoliscono, al popolo non rimangono che le picche e le torce. Altrimenti, sciroppatevi le amarene ministeriali e i baci di dama provveditorali: beccatevi la buona scuola e mettetela in cornice, con le castagne e le foglie morte. Però, a questo punto, lasciatemi almeno bere il cappuccino in pace, senza piangermi sulla spalla perché Nicholas è ignorante come una rapa e Jessica scambia Garibaldi con Pippo Baudo.