Formaggi, a Cogne l’affinatore “stellato” è bergamasco

Il sapere e la bravura degli affinatori bergamaschi si fanno strada anche al di fuori dei confini provinciali. E forse non c’è da stupirsi visto che i migliori prodotti orobici rimangono quelli legati al mondo caseario. Capita così, girando dalle parti di Cogne, in Val d’Aosta, di incontrare nello stellato Petit Restaurant, ospitato all’interno dell’Hotel Bellevue, un orobico Doc, trasferitosi ai piedi del Gran Paradiso. Si tratta di Roberto Novali, quarantottenne originario di Leffe che ormai da circa tre lustri cura la selezione di prodotti caseari che finiscono sul carrello dei formaggi. Avvicinatosi alla professione quasi per caso, visto che prima lavorava nel settore del tessile, Novali è diventato un punto di riferimento del ristorante e i clienti si affidino a lui per selezionare i formaggi da degustare al tavolo e per avere delucidazioni sulla provenienza.

D’altro canto il suo è un lavoro meticoloso, che parte dalla selezione dei prodotti freschi da portare a maturazione e passa attraverso le strategie di affinatura, fino ad individuare momento ideale per presentare il formaggio in sala. Con scelte spesso originali. Per fare un esempio, il Parmigiano Reggiano qui viene cosparso di olio di oliva per sopperire alla mancanza di umidità essendo Cogne a 1.500 metri di altezza. E poi c’è stata la decisione, che ormai risale a più di dieci anni fa, di affidarsi solo a formaggi rigorosamente italiani, tra i quali non possono certo mancare quelli bergamaschi. Dal Roccolo alla Formaggella della Val Gandino, dal Taleggio fino ai caprini della Via Lattea, che Novali conta di inserire a breve nel carrello.

Carrello formaggi - Petit Restaurant Cogne - affinatore Roberto Novali

Anche se i rapporti più stretti e proficui sono quelli raggiunti con Alvaro Ravasio di CasArrigoni di Peghera, in Val Taleggio. «Poi – rivela candidamente l’affinatore -, è chiaro che il formaggio più utilizzato qui in Val d’Aosta rimane la Fontina, della quale si fa un utilizzo davvero massiccio. Basti pensare che all’anno ne vengono consumate ben 200 forme, distribuite tra il ristorante, il Bar à Fromage e la Brasserie du Bon Bec in centro al paese. Tutte e tre sono locali della famiglia Roullet che è proprietaria dell’albergo e che possiede anche un alpeggio».

I riconoscimenti per il lavoro svolto, tra l’altro, non sono mai mancati, visto che negli anni, e in un paio di occasioni, il carrello di formaggi curato da Roberto Novali è arrivato alle finali nazionali giungendo sempre tra i migliori d’Italia. Ma non è tutto. Novali si occupa anche dell’orto che si trova vicino all’albergo e dal quale arrivano verdure e erbe per il ristorante, oltre a svolgere, nei due mesi circa durante i quali l’albergo rimane chiuso, opere di piccola manovalanza. Insomma, è un bergamasco tuttofare, che si rimbocca le maniche e che sfodera con nonchalance un dialetto orobico di tutto rispetto. Che forse non è più così complicato da capire per i valligiani e per i clienti dell’albergo i quali ormai conoscono bene l’affinatore bergamasco.

 


«Vi racconto cosa significa lavorare in un ristorante stellato»

Aimo e Nadia è uno di quegli indirizzi dai quali non si può prescindere se si vuole entrare in contatto con la storia della ristorazione italiana. Perfino oggi che Aimo ha superato gli ottanta anni di età, che si mostra un po’ meno nel ristorante ed ha passato il timone di comando a una formidabile coppia di giovani e brillanti cuochi, capaci idealmente (e non solo) di unire a tavola l’intera penisola, visto che Alessandro Negrini è un valtellinese Doc, mentre Fabio Pisani arriva dalla lontana Puglia.

Uno degli aspetti più sorprendenti di questo inevitabile avvicendamento nel locale di via Montecuccoli a Milano è stato certamente l’approccio soft, da parte del duo Negrini/Pisani, e la volontà di mantenere lo stile e l’impronta tradizionale della cucina storica, pur con interessanti accorgimenti che hanno saputo portare il ristorante verso uno stile più moderno e lineare. Anche quando si è trattato di presentare i classici della casa o, invece, di stimolare la curiosità del cliente verso nuovi prodotti e delizie del Bel Paese.

L’esperienza a tavola qui diventa un vero e proprio Gran Tour italiano come dicono delizie quali la cicerchia, i calamaretti spillo, i mandarini di Calabria o il bergamotto che spuntano puntualmente dal menù. In attesa di scoprire quali saranno le novità che riguardano Aimo e Nadia per le prossime stagioni, visto che si parla di un restyling della sala e di un dehors esterno tutto ancora da realizzare, abbiamo incontrato uno dei due cuochi, Alessandro Negrini, per capire, tra le altre cose, dove sta andando la cucina italiana e come lavorano ai fornelli i giovani che escono dalle scuole alberghiere. Un discorso curiosamente affrontato proprio nel momento stesso in cui dalla porta d’ingresso del locale faceva capolino un cinese di quindici anni che, prendendo a due mani il coraggio, ha chiesto ai due cuochi di poter fare uno stage presso il ristorante.

Cosa sta accadendo di questi tempi nei ristoranti? Quali sono i trend del momento, le principali novità e cosa chiedono i clienti?

«Non è difficile da dire. Perché se vogliamo è anche quello che ci aspettiamo quando varchiamo la soglia di un ristorante. Si tratta dell’emozione, della capacità di trasmettere attraverso il cibo un’immagine, una persona, un luogo, un pensiero felice. In fin dei conti sono quelle stesse sensazioni che noi abbiamo codificato nel tempo e nella nostra memoria gustativa e che ci piace poi ritrovare nel piatto. Anche per questo la storia e la tradizione qui da Aimo e Nadia sono un valore imprescindibile. Se invece si vuole fare il gioco di quale potrebbe essere l’ingrediente più in voga per il 2016, io dico che saranno le cozze. E in realtà non è un’ affermazione dettata da certezze incrollabili, se non per il fatto che le vedo sempre più presenti in molti menù. Poi sai, tutto accade ciclicamente e come la vita anche la cucina è una ruota che gira. Non dimentichiamo il successo che, ad esempio, hanno avuto le acciughe o l’aceto balsamico nel recente passato».

Da parte del cliente c’è anche un approccio più salutista e attento verso quello che si mangia?

«Sicuramente, e non è una questione di opportunità da parte del ristoratore, come molti pensano. In realtà le porzioni nel corso degli anni sono decisamente diminuite ed è un dato di fatto che chi si siede al tavolo fa fatica a mangiare in quantità. Non a caso si tende a star meno seduti al ristorante rispetto a un tempo».

Veniamo a un tasto che in Italia a volte è dolente, quello della formazione dei giovani che escono dalle scuole e vengono catapultati nelle cucine.

«Come sempre in questi casi, conta molto la provenienza del giovane. Ci sono scuole che lavorano bene e altre meno bene. In realtà andrebbe fatta una rigorosa selezione già all’ingresso delle scuole, per scremare chi vede la professione come un bel gioco del momento, grazie anche al successo mediatico di tutto ciò che riguarda il food. In questo modo avremmo dei giovani vogliosi e pronti ad affrontare nel migliore dei modi il mondo del lavoro. Poi c’è da dire che non tutti gli istituti alberghieri possono contare su insegnanti validi e che fanno loro stessi una continua formazione e si aggiornano sulle novità della ristorazione; e questo è un grandissimo problema. Infine manca il lato pratico delle scuole alberghiere, un po’ per questione di investimenti è un po’ perché queste istituzioni sono spesso mosse da meccanismi burocratici che non aiutano. Così il giovane si ritrova da un giorno all’altro a passare dal lato teorico della cucina a quello pratico, con gravi difficoltà. In un mondo che, in qualche modo, è un po’ militaresco».

Da Aimo e Nadia cosa chiedete ai giovani che bussano alla vostra porta?

«Innanzitutto la serietà. Poi un pizzico di curiosità ma sempre restando fermi al proprio ruolo. Negli ultimi anni ho visto troppo spesso da parte di giovani di talento perdere il senso delle proporzioni, voler a tutti i costi correre verso il futuro, quando invece andrebbe prima studiato e conosciuto meglio il passato. C’è sempre la tendenza a voler fare i fenomeni e a non restare umili. Invece se c’è una cosa che ci insegna la cucina di Aimo è l’assoluta grandezza della cucina di tradizione, dell’italianità, di un pensiero genuino da diffondere e interpretare in modo da incuriosire anche le nuove generazioni di clienti che magari si affacciano per la prima volta alla grande ristorazione».

Qual è il lavoro fondamentale per un ristorante che, come Aimo e Nadia, vanta due stelle Michelin?

«Innanzitutto l’accoglienza e l’attenzione per il cliente che deve vivere i suoi momenti nel ristorante come un’esperienza unica. Poi c’è anche la creatività della cucina, ma senza lasciarsi prendere la mano. Altrimenti ci si perde. Invece, la costanza, il rigore, la serietà, la passione permettono di durare più a lungo. Il progetto è sempre quello di migliorarsi, di avvicinare clienti nuovi».

Una bella sfida per due cuochi così diversi per provenienza e background…

«Sì, ma io e Fabio in qualche modo ci completiamo a vicenda. È sempre stimolante e divertente questo dualismo nord/sud che si avverte in cucina anche se poi per entrambi la missione è quella di preservare il gusto primario e il “bambino” creato da Aimo. Con l’idea di riattivare la memoria gustativa attraverso piatti in parte nuovi. Noi percepiamo Il Luogo di Aimo e Nadia come un ristorante che ha una sua forza essenziale e in fin dei conti non ci sentiamo dei traghettatori. Infatti i clienti storici continuano a tornare e a rivivere certe sensazioni. Per assurdo, un giorno io e Fabio potremmo perfino non essere più in cucina, eppure il ristorante continuerebbe a vivere da protagonista».

Non a caso molti sono piatti della memoria…

«Certo, basti pensare alla Zuppa etrusca, con verdure dell’orto, legumi e farro della Garfagnana alle erbe aromatiche e fiori di finocchio selvatico. Con tutte le verdure che vengono cotte separatamente e assemblate solo all’ultimo. Oppure gli Spaghetti al cipollotto fresco e peperoncino, che risale, nella sua prima versione, all’anno 1965. E in mezzo a tutto questa storia c’è anche qualche tocco di Valtellina e di Puglia. Il ricordo delle mie valli lo si incontra subito a inizio pasto, visto che utilizzo il grano saraceno in una cialda croccante con burro e arancia, mentre il sud esce con tutta la sua prepotenza nella Cicerchia con marasciulo, lampascioni e olive, oppure nel raviolo di baccalà con pasta di pane di Matera».


Cucinare con i fiori, quattro piatti da premio

 

Insalata di baccalà con spinacino e petali di cipolla di Tropea, crumble alla paprika dolce e maionese di prezzemolo (della Trattoria La Curt di Artogne), Calsù con strisec (del Giardino di Breno), luccio in carbone (delle Antiche Rive di Salò), cremoso di riso integrale e strisec (silene) con croccante al cioccolato bianco e salsa alle fragole di bosco (del ristorante Sloppy & Go, di Rogno): sono questi i quattro piatti vincitori della terza edizione di “Un fiore nel piatto”, la gara gastronomica abbinata alla rassegna florovivaistica “Darfo Boario Terme in Fiore” promossa dall’Amministrazione comunale e coordinata da Loretta Tabarini.

La “sfida” a colpi di ricette creative ispirate alle erbe e ai fiori camuni è arrivata al rush finale: il verdetto d’autore è stato affidato alla giuria guidata dal conduttore televisivo e guru della gastronomia Edoardo Raspelli, coadiuvato dalla modella attrice Maura Anastasìa e supportato dalle valutazioni di Anna Vaglia dell’Associazione italiana sommelier, Cristian Spagnoli (vincitore del Global Chef Challenge), Giuseppe Dadà, quality director di Ferrarelle Spa, dal dirigente scolastico Antonino Floridia e dagli insegnanti Ivan Dossi e Salvatore D’Urso. I giudici hanno assaggiato i 21 piatti finalisti, stabilendo il “menù ideale” – composto da antipasto, primo, secondo e dessert – che verrà servito nel corso della cena di gala in programma lunedì 9 maggio alla Scuola alberghiera Olivelli-Putelli di Darfo.

Dopo il prologo gastronomico, sabato 30 aprile è invece fissata l’apertura di Darfo Boario Terme in Fiore, «una vetrina creativa e dinamica, aperta a tutte le eccellenze del territorio – spiega ilvicesindaco Attilio Cristini -. Il tema di quest’anno è “Il fiore nel campo” e porta avanti un approfondimento iniziato nel 2013 con l’unicità del clima della Valcamonica e la sua biodiversità vegetale, proseguito nel 2014 con un’analisi della filiera alimentare e sfociato lo scorso anno con il tema dell’acqua e il suo ruolo essenziale nella nostra valle».


«I casoncelli? Troppo “strani” per i palati australiani»

Riccardo Morlotti - chef Australia Nonostante sia molto legato al piccolo paesino della Val San Martino in cui ha trascorso l’infanzia, Riccardo Morlotti ha viaggiato molto per perfezionare la sua arte culinaria. Per crescere professionalmente ha accettato di buon grado ogni sfida lavorativa, sia in Italia che Oltreoceano. E così, a soli 25 anni, ha già
cucinato per il ristorante Da Castelli di Palazzago, il Cappello d’Oro di via Papa Giovanni XXIII a Bergamo, il Best Western di Monza e Brianza, il Grand Resort Du Lac e Du Parc di Riva del Garda, per poi spingersi fino a Bangkok, dove ha preparato manicaretti in alcune delle più rinomate cucine tailandesi.

Ma la svolta per questo chef di Palazzago è arrivata in Australia. Al ristorante italiano Cafe Bellavista di East Perth ha esercitato per nove mesi come chef de partie. Si è poi trasferito a Mount Hawthorn all’Azure Italian restaurant dove per un anno e mezzo ha rivestito incarichi di crescente responsabilità come chef de partie e sous chef.

In attesa di esprimere al meglio la sua vena creativa in fatto di cucina italiana e orobica, oggi Morlotti lavora come cuoco di punta al Varsity di Nedlands, un sobborgo dell’area metropolitana di Perth. Anche dietro alle succulente costolette di maiale in salsa barbeque o alle insalate di zucca con mandorle tostate che si possono gustare in questo american bar si cela tutta la sua anima versatile e originale. E fare bella figura in un continente dove Internet e i mass media giocano un ruolo più determinante del passaparola è quanto mai essenziale.

Più che per Facebook o Tripadvisor, gli australiani vanno matti per Zomato, la piattaforma web che fornisce informazioni dettagliate, foto e recensioni su oltre un milione di ristoranti in 22 Paesi nel mondo. «Ho avuto esperienze personali negative con le recensioni online – spiega Riccardo –, il mio datore di lavoro controllava ogni singolo giorno le recensioni per leggere i commenti dei clienti e lamentarsi con me se qualcosa non era andato per il verso giusto. Allucinante! Per questo ora non leggo mai i commenti: ognuno è fatto a modo suo, con gusti differenti». In questi mesi trascorsi nell’altro emisfero, Riccardo ha anche capito che tra Bergamo e Perth c’è un abisso culinario che pare incolmabile. Ancora oggi piatti mediterranei, paste fresche fatte in casa o risotti al dente sono un privilegio per pochi selezionati ristoranti in Australia. Ecco perché l’idea di portare laggiù i casoncelli alla bergamasca pare una vera e propria utopia. Eppure Riccardo Morlotti un tentativo l’ha fatto. Con la freschezza e l’apertura mentale di un 25enne desideroso di sperimentare, ha cercato di scalfire le abitudini degli australiani. Ma il risultato non è stato proprio quello sperato. Quelle che da noi sono considerate delle prelibatezze, nell’altro emisfero, proprio non vanno giù: «Ho provato a proporre i casoncelli come piatto speciale in uno dei ristoranti italiani in cui ho lavorato – racconta – ma con molta delusione ho ricevuto solo critiche sul ripieno che per la clientela australiana aveva un sapore strano e troppo ricco di erbe. La cucina bergamasca è complicata da proporre perché usa ingredienti tradizionali molto difficili da trovare all’estero. L’unica cosa che sono riuscito a trovare è la polenta, ma non c’è paragone con quella bergamasca».


Birra e cucina, un matrimonio di gusto

“Se ami il cibo, ma conosci solo il vino, è come se cercassi di comporre una sinfonia con solo metà delle note e metà orchestra”. Oliver Garrett, il celebre birraio americano della Brooklyn Brewery ne è convinto. Ogni prelibatezza gastronomica può sposarsi alla perfezione non soltanto con un bianco fermo o un buon rosso ma anche con una birra di qualità. Basta scegliere quella giusta.

Ma se in America e nei Paesi nordici questo binomio è ormai un’abitudine consolidata, per una terra più legata al vino come la Bergamasca, e l’Italia intera, si tratta di una tendenza di più recente espansione.

Sono stati i giovani, abituati a viaggiare all’estero e alla costante ricerca di qualcosa di alternativo, i primi ad apprezzare la cultura brassicola, soprattutto durante le sagre e le Oktoberfest. Ed ora questa antica bevanda, le cui origini risalgono alla Mesopotamia, ha letteralmente conquistato un pubblico più maturo, andando ben oltre il banale accostamento con la pizza o i crauti. In molti ristoranti, anche di alta cucina, non è raro trovare accanto alla carta dei vini una ricca gamma di bionde, rosse o stout in grado di esaltare o contrastare ogni sorta di cibo. E c’è chi addirittura mette la birra in tavola durante i pranzi di gala.

Tra i pregi di questa bevanda fermentata a base di acqua, malto, luppolo e lievito spiccano la versatilità, la moderata gradazione alcolica e un prezzo più contenuto rispetto al vino. La tavolozza di profumi e stili offerta dalla birra è ormai tra le più sofisticate. Ecco perché, prima di decidere a quale piatto abbinarla, va assaggiata, a meno che non ci si affidi ai consigli di esperti del settore come il biersommelier. Da quando la birra è stata messa al pari del vino, infatti, in Italia si è andata sempre più affermando questa nuova figura
professionale che in Germania esiste già da tempo.

La regola generale è che la birra deve essere robusta e intensa quanto le pietanze a cui viene accostata: il connubio risulta particolarmente riuscito se c’è qualche sapore o aroma in comune. Birra e formaggio, per esempio, dovrebbero essere entrambi aciduli. Gli ingredienti leggermente amari della birra stimolano l’appetito. E allora perché non iniziare il pasto con una birra leggera per pulire il palato e preparare lo stomaco al cibo? Veniamo poi ai primi. Alle zuppe leggere si accosta una chiara e secca; alle minestre, invece, una maltata come la Scotch Ale. Parlando di secondi, una Ale chiara, caratterizzata dal forte aroma del luppolo, va d’accordo con le insalate verdi, mentre le birre amare sono adatte a quelle condite con aceto. Con bistecca o roastbeef meglio optare per le scure, mentre le birre di luppolo secche contrastano il piccante dei piatti esotici. Via libera, invece, alle chiare per pesce e pizza.
La birra si sposa bene anche con il dolce: una Doppelbock, al delicato gusto di ciliegia, o una Imperial Stout sono perfette con il cioccolato. Per le torte fruttate meglio una Lambic. E per chiudere il pasto si consiglia una birra “pesante” ma dolce che faciliti la digestione.

In Bergamasca oggi ci sono locali specializzati tra i migliori d’Italia e parecchi birrifici riconosciuti su scala nazionale anche da specialisti del settore come la Guida alle Birre d’Italia curata da Slow Food. Tra i più famosi spiccano Endorama di Grassobbio, Hammer di Villa d’Adda, Hopskin di Curno, Sguaraunda di Pagazzano, Maspy di Ponte San Pietro. E poi c’è la Elav di Comun Nuovo che ha lanciato un’originale versione della Vienna Lager preparata con la polenta, sfruttando le croste che restano attaccate al paiolo. Da segnalare anche il birrificio Valcavallina di Endine Gaiano e il Via Priula di San Pellegrino che lo scorso febbraio si sono aggiudicati un secondo e un terzo posto all’11esima edizione del premio Birra dell’anno, promosso dall’associazione Unionbirrai.

A conferma della sempre più marcata attenzione al connubio tra birra artigianale e cibo, è nato il primo concorso internazionale Armonia “Birra nel piatto”, che premia l’utilizzo delle birre in cucina e nella ristorazione.

I locali: «Etichette selezionate danno una marcia in più alla proposta»

Le esperienze di De Gusto, In Croissanteria e Fiore dell’Oste

In un mercato sempre più competitivo, esibire una carta delle birre ricca e dettagliata sta diventando un punto di forza per parecchi locali. Meglio ancora se il ristoratore sa suggerire al cliente il connubio ideale tra cibo e birra. In gioco non c’è la classica pizza abbinata a una bionda ma una vasta gamma di ricette, dall’antipasto al dolce, che ben si sposano con stout e bevande luppolate prodotte artigianalmente. «La sfida è unire la buona birra alla buona cucina, affiancare alla paziente spillatura la preparazione di piatti curati e ricercati, arrivando a creare un locale accogliente e prezioso, laddove il valore è dato dal gusto per ciò che si prepara e si serve», racconta Luca Carrara, 32enne che da agosto 2014 gestisce il De Gusto in via del Lazzaretto all’incrocio con via Baioni, a Bergamo. In meno di due anni questo risto-pub cittadino è balzato in vetta alle preferenze degli internauti su Tripadvisor e non solo. Merito anche dei suoi tre cuochi bergamaschi William Bertocchi, Jonathan Signorelli e Cinzia Mismetti che, dopo gli studi all’alberghiero di Nembro, hanno viaggiato molto per scoprire tutti i segreti della cucina internazionale. Ciò che ne deriva è un menù in costante evoluzione che varia a seconda delle stagioni.

Tra le proposte inserite di recente al De Gusto spiccano il risotto alla valtellinese, il merluzzo con piselli e liquirizia, la selezione di formaggi, il tutto accompagnato da birre alla spina: Canediguerra Bohemian Pilsner, Brown Porter, Rodenbach Grand cru, Hilltop Barry’s bitter, Endorama Buendia, Carrobiolo Triple. «L’obiettivo – afferma Carrara – è riuscire a far apprezzare la birra anche in momenti in cui non è abituale berla, come l’aperitivo e la cena; abbinare la birra a tapas e piatti golosi e stuzzicanti è un modo per valorizzarla al meglio».

in croissanteriaIn linea con la moda del momento Nicolò Vezzoli, titolare della pasticceria In Croissanteria di Carobbio degli Angeli, ha fatto un cambiamento radicale negli ultimi tre mesi. Dopo l’esordio dolce, con vendita di pasticcini e brioche, oggi ha allargato la sua offerta proponendo uno street food di qualità per il pranzo e la cena, il tutto abbinato a una vasta selezione di birre artigianali. E i consensi non tardano ad arrivare: «Pur non essendo una birreria nel vero senso del termine, il nostro giro di clientela sta aumentando – dice Vezzoli –. Abbiamo aperto come pasticceria ma poi abbiamo pensato di aggiungere piatti più strutturati che si avvicinano allo street food, dagli hamburger ai cibi etnici rivisitati, dall’astice canadese alla pizza gourmet, il tutto accompagnato da una delle nostre tre birre artigianali: la bionda, la rossa e la Indian Pale Ale. La prima si adatta bene a cibi leggeri come il nostro hamburger “Italo” con burrata e pesto. La rossa sta bene con piatti più strutturati come l’hamburger con il cheddar, il bacon e l’insalata. La Ipa, invece, è più amarognola, di nicchia, per intenditori, deve piacere. Interessante è anche l’accostamento tra la birra e le quattro pizze gourmet che stiamo inserendo nel menù. Si tratta di pizze alternative che hanno in prezzo dai 15 ai 25 euro perché farcite con ingredienti selezionati: gambero rosso, burrata, pata negra, trancio di tonno scottato, gamberi avvolti nel bacon».

Anche Cristian Borace, titolare del Fiore dell’Oste di Brusaporto, ha deciso di allargare la sua offerta culinaria affiancando al suo consolidato ristorante il “Forno dell’Oste”, uno spazio adibito alla degustazione di birre artigianali e buon cibo. «Il vino la fa sempre da padrone – ammette Cristian – però quando organizziamo le serate di degustazione cibo e birra il riscontro è positivo». E poi c’è un notevole risparmio rispetto al vino: «Si passa dai
20 euro di una buona bottiglia di vino ai 12 euro di una birra da 750 ml – conferma Cristian –. La più leggera è la classica bionda Ale non pastorizzata e non filtrata ad alta fermentazione, con un grado alcolico del 5%. Con il suo aroma maltato leggero, morbido, dal sentore di erbaceo e di miele, si abbina
agli antipasti o alla classica pizza.Le birre doppio malto leggermente dolciastre si sposano coi taglieri di formaggi; quelle più strutturate stanno bene anche con i dolci. Usiamo la birra anche come ingrediente nella preparazione di risotti, stufati, ma anche di pane e torte. Tra i nostri piatti forti spiccano il risotto pancetta e birra rossa, gli gnocchi ceci e birra, le costine di
maiale e lo stinco alla birra. Con la birra ho persino preparato il tiramisù e il caramello».


Verdure come strumenti musicali, al ristorante arriva il “Conciorto”

Anziché artisti, si definiscono “ortisti” e naturalmente la loro performance non è un concerto ma un “Conciorto”. Già, perché oltre a flauti traversi, sax e chitarre, suonano anche melanzane, carote, zucchine, cetrioli, grazie alle nuove tecnologie (ototo, l’interfaccia arduino-based) che permettono di trasformare oggetti di uso quotidiano in strumenti musicali.

A proporre il singolare spettacolo sono Biagio Bagini, autore di programmi radiofonici per Rai Radio2, e Gianluigi Carlone, leader della Banda Osiris, che saranno di scena a Bergamo venerdì 18 marzo al ristorante culturale In dispArte di via Madonna della Neve 3.

conciorto 2L’orto è lo spazio di riferimento a cui guardano i due suonatori, perché è il luogo dove la parola è come un seme. Che poi getta foglioline che sono note. Che poi diventano piante in forma di canzone. Qui crescono canzoni pop, rock e moderne che raccontano i vissuti di melanzane, peperoni e zucchine, e parlano degli stati d’animo dell’orticoltore, oltre a raccontare le storie di orti di personaggi famosi. Il Conciorto sfrutta il proprio terreno a fini elementari di divertimento intensivo e danno vita a un concerto sostenibile, un vero “live in the garden”.

L’inizio del concerto è alle 21.30. Il costo di ingresso 10 euro.


Il video della goliardata finisce in rete. E il ristorante perde clienti

Ristorante La Campagnola LovereCapita che in una notte in cui si è un po’ alzato il gomito, dopo che gli ospiti se ne sono andati, in cucina ci si lasci andare a una goliardata. Per fare il simpatico, per ottenere l’attenzione e le risa degli amici. Capita di fidarsi di una persona, che un amico evidentemente non è, che registra tutto con il cellulare.

Capita che il giorno dopo il filmato “compromettente” venga postato in rete e si diffonda nei social network: lo vedono amici, clienti e il passaparola (ma forse in questo caso è più corretto parlare di passavideo) diventa virale. Il ristorante, frequentatissimo, comincia a perdere clienti.

È quanto è successo alla “Campagnola” di Lovere. Per vent’anni è stato “il ristorante” dell’Alto Sebino e della Valcamonica. Ci hanno cenato tutti: operai, coppie, compagnie di amici, ragazzini e anziani. A pranzo e a cena il locale era sempre pieno. Piaceva a tutti, per la cucina semplice e di qualità, ma soprattutto per la simpatia del titolare. Angelo Bozzetti è un ristoratore esuberante, vulcanico, talvolta esagera. Se sei suo amico o anche solo compaesano lo sconto è assicurato, e di questa generosità qualcuno ne ha anche approfittato.

Scrive su Facebook Giovanni, suo amico: «Angelo è brillante, ma soprattutto ci mette il cuore. Ogni tanto magari nell’euforia dei suoi show ha esagerato un po’, ma le risate da piangere se le sono fatte tutti. Ricordo episodi degni del miglior teatro comico. Una cliente inglese voleva il formaggio coi buchi, lui l’aveva finito e gli ha trapanato davanti agli occhi, con tanto di trapano e prolunga, un pezzo di Parmigiano Reggiano. Oppure i famosi bicchierini di vodka che incendiava e si attaccava sul petto, sulla faccia e sulle gambe, per far divertire o semplicemente perché in quel momento gli andava così. E ancora le cantate a squarciagola con spogliarello finale. Ne potrei raccontare a milioni di serate goliardiche. Mi rendo conto – continua Giovanni – che ha fatto una cazzata, ma quante ne abbiamo fatte noi e voi nella vita? Quello che vi chiedo è di passare a trovarlo, mangiarvi qualcosa e farvi una serata diversa. Il posto è bello, la cucina dello chef Natale è ottima e soprattutto il clima è diverso dai soliti ristoranti: “Buona sera, volete ordinare?” Se ci siete già stati in passato tornateci, se non ci siete mai stati andateci per favore. Giuro che non ve ne pentirete…».

Noi non abbiamo voluto vedere il video.  Ma ci uniamo all’invito di Giovanni, perché un errore lo possono commettere tutti, perché crediamo che tanti anni di impegno, di lavoro e di successi non possano essere cancellati da una bravata, anche se di cattivo gusto, e perché la privacy è un diritto involabile.

 


Da Alzano a Copenhagen, «così ho conquistato i palati danesi»

Francesca ParazziTra una ripresa economica che stenta a decollare e i proclami che, più o meno a giorni alterni e da più parti politiche, raccontano di un’economia ora in crescita, ora ferma al palo, la tentazione di uscire dai confini nazionali per farsi una nuova vita e trovare un lavoro è sempre molto forte, soprattutto tra i giovani.

I quali non a caso lamentano in Italia una percentuale di disoccupazione piuttosto alta, che non lascia intravedere almeno nel breve periodo grandi opportunità, se non quelle, nella migliore delle ipotesi, del precariato o del lavoro a tempo determinato. Così vale, ovviamente, anche per il complesso mercato della ristorazione, dove però l’italiano ai fornelli o in sala, può giocare su più fronti, essendo ancora oggi queste due tra le professioni più facilmente esportabili, non a caso presenti in forze in molti Paesi europei e non solo.

ristorante Marchal CopenhagenOltretutto con risultati che spesso sfiorano l’eccellenza, perché quando c’è un riconosciuto talento, spesso, all’estero, finisce per essere premiato, mentre all’interno dei confini italiani non sempre questo accade. Un bell’esempio ci viene fornito dall’avventura un po’ speciale capitata in sorte a Francesca Parazzi, ventottenne bergamasca originaria di Alzano Lombardo che fino a qualche anno fa serviva piattoni di stinco in una birreria bergamasca ed ora si trova a svolgere l’impegnativo ruolo di sous chef nella brigata del ristorante Marchal di Copenhagen, uno degli indirizzi emergenti della cucina nordica, ospitato all’interno dello storico e magnifico Hotel D’Angleterre.

Un percorso a dire il vero non nato dal caso, ma che sembra essere un po’ la bella favola capace di far sgranare gli occhi, un po’ figlia della caparbietà e un po’ del pizzico di fantasia messo in campo da parte della protagonista.

Francesca Parazzi vanta trascorsi professionali piuttosto classici come lei stessa racconta: «Ho frequentato l’istituto alberghiero professionale di Clusone, e all’ultimo anno di specializzazione seguivo gli insegnamenti di Mauro Elli (lo stellato de Il Cantuccio ad Albavilla, in Brianza), che mi ha introdotto al mondo del lavoro. La prima vera esperienza l’ho fatta in un piccolo albergo ad Onore, in provincia, durante le vacanze estive del penultimo anno scolastico. Poi, una volta finiti gli studi, ha lavorato come capo partita in pasticceria presso un ristorante italiano di un golf club a Glasgow in Scozia. In seguito, sempre in pasticceria come commis, sono finita durante l’estate al Castello di Velona, in Toscana e poi all’Hotel Milano di Bratto come commis di cucina, terminando dopo quattro anni come capo partita agli antipasti. La gestione di una cucina in prima persona però è stata quella della birreria Ein Mass a Montello».

E proprio qui scatta la “sliding door” che la convince, per crescere professionalmente, a cercare tramite il web un’opportunità a Copenhagen, dove il compagno Matteo sta effettuando un dottorato in fisiologia dell’esercizio fisico presso l’Università. «Devo dire – ricorda oggi Francesca – che trovare un lavoro in Danimarca è stato piuttosto semplice. E tra i tanti ristoranti che cercavano personale mi sono proposta al Kanalen, un bistrò situato non troppo distante dal famoso Noma che per anni è stato il miglior ristorante al mondo. Ho mandato un curriculum e dopo un breve periodo di prova ho subito iniziato a lavorare come capopartita e successivamente come secondo chef. Il tutto in un periodo che va dal settembre del 2013 al giugno 2014».

Questi dieci mesi trascorsi a stretto contatto con la realtà emergente della cucina nordica si sono subito rivelati fondamentali, per conoscere una nuova materia prima, assimilare nuove metodologie di lavoro e mettersi in mostra grazie a una versatilità e a un rigore che è stato notato immediatamente anche da altri cuochi. Così due anni fa, nel momento di riapertura dello storico Hotel D’Angleterre, completamente rinnovato, si presenta l’opportunità di lavorare con Ronny Emborg, talentuoso cuoco danese che si prende in carico la cucina del Marchal, il nuovo ristorante dell’albergo. Per Francesca è l’approdo verso una cucina e un ambiente più professionali e di maggior spessore, che, tra l’altro, prevedono il confronto con la difficile e più complessa ristorazione d’albergo. Il Marchal è un urban restaurant elegante e raffinato con una cucina che sfiora la classicità francese e la mescola alla geometria e all’essenzialità che è facile trovare a queste latitudini.

ristorante Marchal Copenhagen - piatto 1Così il Baccalà viene cotto in tempura con midollo affumicato, spinaci e ribes nero, la Tartare di carne si presenta con rafano, pomodori, cipolle e nasturzio, e le Animelle sono fritte per poi incontrare una salsa al rabarbaro fermentato e un brodo di vitello. Ma allo stesso tempo qui si può vivere l’esperienza di un piatto grandioso e storico come la Chateaubriand, rigorosamente per due, così come la Rana pescatrice cotta all’osso con lardo, pepe nero, patate reidratate e salsa alle cozze. Il Marchal al suo primo anno di apertura riceve una meritata stella Michelin (guida 2015) con Ronny Emborg in cucina. Poi il danese si trasferisce negli Stati Uniti per aprire il ristorante Atera a New Yorke il suo secondo, l’austriaco Christian Gadient, diventa l’executive chef.

A scalare, i due junior sous chef, Francesca Parazzi e Alex Schonning Petersen vengono promossi a sous chef proprio dall’inizio di quest’anno. «I miei compiti sono ben precisi – racconta Francesca -. Gestisco il servizio sia a pranzo che a cena, ma anche gli ordini e la mise en place di ogni partita. Il lavoro mi sta dando grandi soddisfazioni perché ogni giorno scopro nuove tecniche di lavorazione o materie prime con cui progettare ricette o anche solo piccoli elementi che possono fare la differenza in un piatto. E poi vedo le grandi differenze sotto l’aspetto gerarchico tra quello che succede in Italia e quello che invece succede in Danimarca. In Italia la cucina è sempre più inquadrata, mentre quella danese è più elastica e si basa molto sul lavoro di squadra».

ristorante Marchal Copenhagen - piatto 2

Ma non ti manca un po’ Bergamo, viene da chiedere? «Certo, mi manca ammirare le montagne e quando torno cerco sempre di trovare una serata libera per trascorrere qualche ora a Città Alta, ma qui a Copenhagen devo dire che mi trovo benissimo. La città è vivibile e organizzata, poi tra la primavera e l’estate è ricca di eventi e la scelta dei locali è quasi infinita. Puoi trovare un kebab, vicino a un bistrò o a un ristorante stellato. Insomma, un po’ per tutti i gusti». Un bell’esempio di volontà, intraprendenza e talento.


Turisti del gusto in Val Brembana? Si può fare

Fare i turisti in casa propria? Si può. Basta mettere nella borsa da viaggio un po’ di tempo per concedersi di guardarsi attorno con calma, un briciolo di curiosità per uscire dalle rotte già percorse e la voglia di scambiare qualche parola con chi si incontra. Lo abbiamo sperimentato grazie al Distretto delle Attrattività Territoriali Vallinf@miglia, che aggrega, secondo l’input a fare rete dato dalla Regione Lombardia, 11 Comuni (Zogno, capofila del progetto, Sedrina, Ubiale Clanezzo, Valbrembilla, Taleggio, Vedeseta, Blello e, in provincia di Lecco, Pasturo, Cassina, Moggio e Cremeno) di quattro valli (Valbrembana, Valbrembilla, Valtaleggio e Valsassina) in un percorso di valorizzazione unitario che ha scelto di puntare sul paesaggio e sulla natura, ma anche sulle testimonianze del passato, i prodotti tipici e la buona tavola. Il tutto da gustare senza fretta né clamori, a misura di famiglia, come ricorda la denominazione, nonni compresi.

Occorre ammettere che il compito di dare appeal turistico a realtà storicamente più vocate alla manifattura e all’edilizia o di riportare interesse sulle seconde case non è facile, ma se è vero che oggi – come indicano gli studi – ciò che il visitatore vuole è vivere un’esperienza e avere un contatto autentico con il territorio, allora le possibilità ci sono tutte. Perché di cose da raccontare questi luoghi ne hanno e le persone che abbiamo conosciuto hanno deciso di credere nella propria terra e di fare del proprio meglio per metterne in risalto le peculiarità. A cominciare da Elena Riceputi e Marta Torriani, che con la loro giovane agenzia Emozioni Orobie hanno organizzato il tour che vi racconteremo, e da Barbara Pesenti Bolò, ex hostess sulle linee aeree, che ci ha accompagnato ritagliando tempo al suo duplice lavoro, la mattina nel suo negozio di alimentari di Gerosa con tanto di consegne a domicilio nelle frazioni, dal pomeriggio alla reception di un albergo a Bergamo.

Siete pronti? E allora partiamo. Naturalmente parleremo di cibo e del protagonista di queste valli, il formaggio.

Negozio e cucina, a Zogno il locale che esalta i prodotti tipici

Capofila del Dat è il Comune di Zogno. Ed un biglietto da visita delle specialità della Valle lo si trova alla Baita dei Saperi e dei Sapori Brembani, proprio sulla strada provinciale. Il locale, realizzato dalla Latteria di Branzi in collaborazione con la Comunità Montana, è aperto da quasi due anni ed è una sorta di brochure – ma molto più concreta – della gastronomia locale. Ci si trova infatti il bancone per la vendita dei formaggi, gli scaffali con i prodotti tipici, un laboratorio di cucina, una cantinetta a vista per la stagionatura, uno spazio degustazione che può diventare sala conferenze e video. Insomma un luogo in cui fermarsi per acquistare il souvenir gastronomico, la tappa per un aperitivo o per la cena, oppure per tutte e tre le cose insieme in una formula moderna per far parlare le tipicità. «Vendita e somministrazione sono state messe in dialogo – spiega in sala Hakim Jendauni, marocchino, il papà dipendente della Latteria di Branzi -. Le proposte di degustazione e quelle della cucina vogliono mostrare le caratteristiche e la gamma degli utilizzi dei nostri formaggi. Chi si ferma a mangiare può scegliere tra tre primi e tre secondi che variano seguendo le stagioni. Pasta fresca e risotti sono tra i protagonisti e si accompagnano, ad esempio, agli asparagi in primavera alle castagne e ai porcini in autunno. La cifra è la semplicità, come la tradizionale “polenta e ciareghì”, resa però più elegante». In cucina c’è Romeo Gervasoni, da Roncobello, con trascorsi in Germania, sul lago di Garda e a Foppolo, che ricorda tra anche gli “gnocchi di ricotta con erbe di monte essiccate e burro”, il “risotto allo zola di capra e frutti di bosco” o i “tagliolini freschi con carciofi e agrì”. Tutt’altro che banale pure il tagliere dell’aperitivo, un viaggio tra formaggi di diversa pasta, stagionatura, aromatizzazione, accompagnato da salumi selezionati, mostarda, giardiniera e persino un croccante di mandorle. Da non perdere le “bese”, i ritagli dopo la pressatura della cagliata del Branzi, fritti in una pastella di farina e birra artigianale.

Visto che siamo turisti, vediamo di organizzarci per scoprire anche qualcosa più del territorio. La visita del Museo della Valle nel centro di Zogno entusiasmerà i bambini con la sua sezione sui pesci fossili ritrovati nelle vicinanze, alcuni di rilevanza fondamentale nella paleontologia. Oppure si potrà fare una sosta a Ubiale Clanezzo per attraversare il Brembo sulla lunga passerella (vietato dondolarsi!) che ha preso il posto del traghetto o spostarsi di poco per ritrovarsi sul ponte di Attone, risalente al X secolo, che invece si trova sul torrente Imagna. Chi ama l’arte non può perdere nella parrocchiale di Sedrina, progettata dal Codussi, la pala d’altare di Lorenzo Lotto, “Madonna in Gloria e Santi” (1542).

Brembilla, l’antica Osteria è anche anch’essa un “monumento”

L’itinerario del Dat piega a sinistra ed è a Brembilla (che ora con Gerosa forma il Comune di Val Brembillla) che si trova quello che per gli amanti della gastronomia può essere considerato a tutti gli effetti un “monumento”. L’Antica Osteria il Forno, la cui attività è documentata dalla licenza del 1811, ha ricevuto il riconoscimento di “Locale storico” da parte della Regione ma ha saputo soprattutto conservare il suo passato e valorizzarlo. È stata forno, stallo per i cavalli, alloggio, trattoria, macelleria, negozio e pesa pubblica e le cinque sale da cui oggi è composta hanno tenuto traccia delle destinazioni di un tempo. Da notare, la sala del forno con volta a botte in tufo, il pavimento vecchio di 140 anni nella sala centrale e, in un’altra saletta, un affresco con un’annunciazione del 1500, che prima era all’esterno. Anche in cucina la parola d’ordine è stata salvaguardia. Nonostante gli ampi spazi, per circa 200 coperti, il locale non ha ceduto al richiamo della pizzeria o delle proposte che di volta in volta hanno fatto tendenza, ed ha avuto ragione, almeno a  giudicare dalle tavolate di giovani incontrate nelle nostra visita, ben felici di spaziare tra casoncelli e taragne. Zia Alessandra Offredi, ottant’anni, è orgogliosa di avere dato l’impronta con i piatti di famiglia, come i ravioli e la gallina, ed ora i nipoti Andrea e Marco Cornoldi, quinta generazione, proseguono sulla stessa linea o addirittura tornando indietro. «Ad esempio, abbiamo riscoperto i “nusecc” – dice Andrea –, gli involtini di verza con il ripieno dei casoncelli che facevano le nonne, e stiamo rivalutando un altro piatto di casa, “patate, fasöi e codeghì”, ossia patate, fagioli e cotechino, che proponiamo in una forma più elegante, in carta fata con i fagioli passati». I pezzi forti sono i ravioli di carne al burro versato, i risotti mantecati con i formaggi locali e per secondo farona ripiena, gallina lessa, polpa di cervo con l’immancabile polenta o la taragna. Per chi è a caccia di un emblema del territorio c’è anche “polenta e osèi” con gli uccelletti cucinati con panna e salsiccia, «come era tipico delle nostre zone – ricorda Andrea – dove anche il condimento doveva dare sostanza». Il Forno ha anche alcune camere, nel caso la vostra voglia di vacanza stia prendendo il sopravvento.

Per smaltire un pranzo come questo o prepararsi alla cena si può arrivare a Gerosa e con una piacevole e panoramica camminata sulla mulattiera raggiungere il santuario del Madonna della Foppa, luogo di devozione e pellegrinaggio per via di due apparizioni, nel 1558 e nel 1630.

Un museo diffuso racconta la cultura del Taleggio

In Valtaleggio, manco a dirlo, tutto vi parlerà del tipico formaggio. Gli enti locali, gli abitanti e le aziende hanno deciso di ribadire con forza che la forma oggi famosa e ricercata in tutto il mondo è nata lì e che solo tra quelle montagne la si può conoscere ed apprezzare al meglio. È così nato l’Ecomuseo, un museo grande tanto quanto il territorio, dove le opere da ammirare sono i pascoli, l’aria, le baite con i tipici tetti in piode, il caseificio, le aziende di stagionatura e dove a fare da guida sono i residenti stessi. Il progetto porta con sé una buona dose di originalità e innovazione. Per un soggiorno esclusivo, tutto tradizione e natura, senza dimenticare i comfort, sono state recuperate due baite ed è stata lanciata la formula baita&breakfast, dove le colazione è a base di prodotti tipici e c’è pure una zona relax con sauna, mentre per far conoscere da vicino la vita dei bergamini e l’arte del formaggio sono a disposizione tre installazioni, a Sottochiesa, Vedeseta e Peghera, che uniscono multimedialità ed esperienza diretta, si chiamano La VaCCanza, Tu Casaro e Stagiònàti. Un pacchetto davvero insolito ed intrigante che comprende anche cinque itinerari tematici e che però non ha ancora segnato, per ammissione dei promotori, una svolta nell’attrattività e andrebbe rilanciato.

La cooperativa e lo Strachitunt, una storia di resistenza

Chi vive e lavora qui, del resto, lo sa che rimanere comporta difficoltà. La cooperativa agricola Sant’Antonio a Vedeseta, in frazione Reggetto, è un esempio di resistenza. È l’unico caseificio della Valtaleggio e lavora esclusivamente il latte della zona, circa 25 quintali al giorno, di sei conferenti, offrendo agli allevatori di montagna un reddito equo e sostenibile e creando occupazione. Sono partite da qui riscoperta dell’ormai famoso Strachitunt, lo stracchino rotondo dalla caratteristica erborinatura che nasce dall’unione della cagliata della sera con quella del mattino, e l’iter che ha portato alla Dop, che ha delimitato il territorio di produzione ai soli comuni di Taleggio, Vedeseta, Gerosa e Blello, escludendo tutti gli altri, in primis la pianura che aveva già “adottato” la specialità. Per un errore nel disciplinare, relativo a misure e peso delle forme, lo scorso anno la vendita a marchio è stata sospesa. «Un’inesattezza puramente formale – spiega il presidente della cooperativa Flaminio Locatelli –. È bastato cambiare un numero e tutto è andato a posto. Le correzioni sono state inviate lo scorso 20 novembre e dalla primavera potremo con ogni probabilità tornare sul mercato con lo Strachitunt Dop. Fortunatamente i clienti hanno capito che il prodotto era lo stesso e continuato ad acquistarlo pur senza denominazione, ma ovviamente questa sospensione un po’ di problemi ce li ha creati». «Sinceramente avremmo fatto a meno della Dop – confessa -, perché significa burocrazia e spese per la certificazione, ma era l’unico modo per tutelare il prodotto e il nostro lavoro. Basti pensare che qui a Vedeseta siamo la realtà che impiega più persone, quattro: due casari, addetti anche alla raccolta del latte, e due donne part time».

Mauro Arnoldi - PegheraAnnesso al caseificio c’è lo spaccio dove, oltre allo Strachitunt, si possono acquistare le altre produzioni: il Taleggio, lo Stracchino di Vedeseta (un antenato del Taleggio), l’Alben (simile al Branzi), le formaggelle, la Magrera, tutti rigorosamente a latte crudo. Vengono realizzati in proprio anche gli yogurt e il burro.

Per trovare gli stagionatori occorre invece andare a Peghera, nel comune di Taleggio. Si tratta di realtà aziendali, CasArrigoni e Arnoldi Vataleggio, storiche e strutturate, che vendono ormai in tutto il mondo. «Se rimaniamo c’è un perché – afferma Mauro Arnoldi, dell’omonima società -. Perché ambiente e clima hanno alcune caratteristiche uniche, ma anche per come sono esposte e costruite le aziende, con locali quasi tutti sotto terra, e naturalmente per la conoscenza dei prodotti che qui si tramanda da generazioni». Taleggio, Quartirolo, Salva Cremasco e Strachitunt rappresentano il grosso delle specialità trattate ed essendo delle Dop ognuna richiede il rispetto di precise norme.

La sfida di Alida, da affineur a ristoratrice

Una bella conoscenza dei formaggi ce l’ha anche Alida Pesenti Bolò, che sempre a Peghera, dopo 15 anni da affineur, ha accettato la sfida di mettersi ai fornelli per proseguire l’attività del ristorante Liberty. «È nato come osteria e posto di ferma per i cavalli, ha più di cento anni – evidenzia – ed è sempre stato della famiglia di mio marito. Nel 2001 è venuto a mancare mio cognato, che lo gestiva, e a me dispiaceva chiuderlo e mettere fine ad una storia così lunga». Si è perciò messa in gioco frequentando i corsi della scuola alberghiera di San Pellegrino e scoprendo una passione per la cucina. La scelta è di utilizzare soprattutto ciò che offre la zona, ma per portare un po’ di novità agli habituée si fa anche il pesce. Il formaggio è spesso protagonista e la fantasia non manca. Tanto che Alida ha vinto il premio “Ecomuseo & Strachitunt, due risorse per la Valtaleggio” con le sue “madeline allo speck e salvia con salsa di Strachitunt e miele di acacia”. Tra gi altri piatti, gli “gnocchi di castagne e patate con fonduta di Taleggio e bresaola del salumificio Corticelli”, i casoncelli di magro secondo la ricetta del posto, i risotti, le tagliatelle alle ortiche, speck e funghi porcini, le “crespelle Valtaleggio” (con Taleggio, patate, rosmarino e pere) e per secondo le carni di cinghiale, cervo, la lepre in salmì. I dolci sono fatti in proprio, così come la giardiniera con le verdure dell’orto. Da esperta affinatrice, Alida seleziona inoltre le forme e ne cura l’ultimo tocco nella “moscarola” di casa. «Il ristorante non ha mai avuto la carta – precisa -, solo il menù del giorno. Le nostre proposte del resto sono conosciute e il massimo per me è quando mi dicono “fai tu”». Ad aiutarla c’è la figlia Gloria, ostetrica in cerca di lavoro, contagiata nel frattempo dalla passione per la ristorazione. «Ammetto che la decisione di portare avanti l’attività era un salto nel vuoto – dice Alida -, ma il posto è nostro e con bar, tabacchi e qualche stanza ce la facciamo».

Ai Piani di Artavaggio la famiglia bergamasca salita in quota

E perché, a questo punto del viaggio, non permettersi uno sguardo “oltreconfine”? Basta proseguire lungo la strada provinciale per raggiungere la Valsassina, che con quattro comuni partecipa al Dat Vallinf@miglia. Una sosta panoramica alla Culmine di San Pietro (1.258 metri) e poi giù fino a Moggio. Non perdete l’occasione di chiedere in paese dell’epica impresa della biblioteca parrocchiale prima di prendere la funivia per i piani di Artavaggio (tra 1.600 e 1.900 metri di quota) e scoprire con una facile passeggiata un’altra storia bergamasca e altre scelte coraggiose. Quelle dei fratelli Galizzi – Giacomo, Achille e Ruggero – che con papà Rocco e l’aiuto di Evelyn, moglie di Giacomo, hanno riportato in vita il rifugio Angelo Casari, intitolato al nonno, Alpino del Polo con la spedizione del dirigibile Italia, che lo ha costruito nel 1960 ed ha tirato su altri due rifugi da quelle parti. I nipoti, impegnati nell’azienda di famiglia di demolizioni e scavi a San Giovanni Bianco, di fronte alle difficoltà dell’edilizia hanno scelto di salire in quota e rispolverare quell’eredità. «Era il 2009 – ricorda Giacomo -, il rifugio era stato chiuso per 25 anni ed abbiamo cominciato a ristrutturarlo. Prima il tetto, poi il bar, il ristorante e infine le camere». Ora il “Casari” è aperto tutto l’anno ed è un punto di riferimento per gli escursionisti di ogni stagione, forma fisica ed età. Basti pensare che il mercoledì è diventato la “giornata del pensionato”, con menù a prezzo fisso (10 euro per primo o secondo, 15 per entrambi) che invita gli “over” a godersi la montagna in compagnia. Ai fornelli c’è papà Rocco, che in gioventù ha avuto esperienze in cucina, mentre le torte sono di Evelyn, che usa anche farine integrali e di farro. Pizzoccheri e cervo sono i piatti più richiesti, non mancano i formaggi (anche brembani, vista la provenienza dei gestori) e, in generale, la scelta è di utilizzare materie prime selezionate e di produzione artigianale. Si usano anche le erbe spontanee, come il paruch e l’aglio orsino. «La vita quassù? È cambiata del tutto – ammette Giacomo -. Bisogna fare i conti con l’acqua che gela, la motoslitta che si rompe, il telefono che non prende e internet che va sì e no. È un altro mondo, ma penso che siano ancor più i vantaggi degli svantaggi».


Cacciagione, un mese di proposte nei ristoranti bergamaschi

Per gli amanti della selvaggina e dei sapori di terra torna la rassegna “Caccia in cucina”, organizzata dall’Ascom di Bergamo e dall’Anuu (associazione di cacciatori che a livello provinciale conta più di 5.000 iscritti) in collaborazione con il Consorzio di Tutela del Valcalepio e giunta alle 14esima edizione. Per un mese, dal 20 febbraio al 20 marzo, 26 ristoranti (2 in città e 24 in provincia) propongono nel proprio menù piatti a base di cacciagione con l’obiettivo di valorizzare una tradizione culinaria diffusa sul territorio.

La manifestazioncaccia in cucina - logoe, che negli anni scorsi aveva respiro regionale e si svolgeva in diverse province lombarde, quest’anno, complici le difficoltà delle Amministrazioni provinciali nel garantire il sostegno, viene portata avanti solo in Bergamasca, dove ha sempre riscosso grande successo in termini di adesioni e gradimento.

Rispetto al passato ci sarà più tempo per gustare le diverse proposte, l’iniziativa dura infatti un mese, anziché una settimana, in tutti i locali. La mappa è ampia e va dalla montagna alla pianura al lago, senza dimenticare la città e l’hinterland. Anche i piatti spaziano e interpretano le diverse carni in abbinamenti e cotture classiche o innovative. Alcuni ristoratori hanno anche scelto di condividere le proprie ricette con gli appassionati, che potranno trovarle pubblicate sulla rivista dell’Anuu.

I locali aderenti

  • BERGAMO
Ristorante Il Circolino – vicolo S. Agata 19 – tel. 035 218568

Pasta fresca al ragù di lepre; Stufato di cinghiale con polenta (fino all’8 marzo)

Ristorante Ol Giopì e la Margì – via Borgo Palazzo 25/g – tel. 035 242366 (chiuso il lunedì)

Trofiette alla lepre tartufate; Cosciotti di cervo al Valcalepio

  • ALBINO
Ristorante Isola Zio Bruno – via Serio 24 – tel. 035 751687 (chiuso il lunedì)

Risotto con pernice al profumo di tartufo; Stufato di capriolo al Valcalepio

  • ALZANO LOMBARDO
Trattoria del Brugo – località Burro snc – tel. 327 503032

Tortelli al cinghiale in salsa di verdure brasate; Bocconcini di cervo in salmì con polenta “rustida”

  • AMBIVERE
Trattoria Visconti – via A. De Gasperi 12 – tel. 035 908153 (chiuso il martedì e mercoledì)

Pappardelle al ragù di fagiano; Polenta con cinghiale

  • BOTTANUCO
Ristorante Villa Cavour – via Cavour 49 – tel. 035 907242 (chiuso la domenica sera)

Terrina di fagiano con misticanza e aceto di mele; Lepre in salmì con polenta

  • BRANZI
Ristorante Corona – via San Rocco 8 – tel. 0345 71042 (chiuso il martedì e mercoledì)

Tortelli di selvaggina ai mirtilli; Polenta taragna con capriolo in salmì e cervo alle erbe alpine

  • CAPRIATE SAN GERVASIO
Osteria Da Mualdo – via Privata Crespi 6 – Frazione Crespi – tel. 02 90937077 (chiuso la domenica sera e il lunedì)

Bottoni di pasta fresca ripieni al cinghiale selvatico, bietola appassita, Strachitunt fondente e melograno; La quaglia: coscette brasate lentamente con polenta rustica e petto arrostito, servito con zucca e sedano appena cotto allo zafferano

  • CASTIONE DELLA PRESOLANA
Ristorante La Teglia – via Papa Giovanni XXIII 20 (chiuso il martedì)

Capriolo in salmì; Filetto di cervo al vino rosso; Cinghiale in umido

  • FINO DEL MONTE
Ristorante Garden Hotel – via Papa Giovanni XXIII 1 – tel. 0346 72369 (chiuso il lunedì)

Lasagnette al salmì di lepre con formaggio piccante; Petto d’anatra con mele caramellate e uvetta

  • FORESTO SPARSO
Ristorante Il Platano da Gira – via Franzi 5 – tel. 035 930118 (chiuso martedì sera e mercoledì)

Farfalle al ragù di lepre

  • GAVERINA
Ristorante K2 – Località Moletti 1 – tel. 035 814262 (chiuso il lunedì)

Cucina casereccia e pasta fresca con cacciagione

  • GRUMELLO DEL MONTE
Ristorante da Ubaldo – via Fontana Santa snc –tel. 035 830243 (chiuso il sabato a pranzo)

Gnocchi di polenta con ragù di selvaggina; Stracotto di cinghiale con polenta di Rovetta

  • MAPELLO
Trattoria Bolognini – via Divisione Alpina Tridentina 11 – tel. 035 908173 (chiuso il martedì)

Tagliatelle con la lepre; Bocconi di cinghiale al rosmarino

  • PIAZZATORRE
Albergo Ristorante Piazzatorre – via Centro 21 – tel. 0345 85033 (chiuso il mercoledì)

Pappardella fresca all’uovo con ragù di camoscio; Sminuzzato di cervo alle erbe di montagna

  • PONTERANICA
Ristorante da Tandy – via 8 marzo 15 – tel. 035 5292072 (chiuso il mercoledì)

Risotto alla fagianella e timo limonato; Bocconcini di capriolo al cioccolato amaro e composta di mirtilli

Trattoria Del Moro – via Castello 42 – tel. 035 573383 (chiuso il lunedì)

Foiade al sugo di lepre; Polentina con cinghiale e verdurine

  • RIVA DI SOLTO
Ristorante Bellavista – via Gargarino 23 – tel. 035 986034 (chiuso il martedì)

Cinghiale con polenta

  • SCHILPARIO
Hotel Ristorante S. Marco – via Pradella 3 – tel. 0346 55024 (chiuso il lunedì)

Le Pappardelle fresche al nostro ragù di cinghiale al coltello; I Bocconcini di cervo stufati alle bacche di ginepro e polenta grezza

  • SERIATE
Ristorante Al Centro – corso Roma 1 – tel. 035 4235467 (aperto venerdì, sabato e domenica sera)

Tagliatelle di castagne e ragù di cinghiale; Polenta taragna con bocconcino di cervo

  • SERINA
Ristorante La Fenice – via Dante Alighieri, 14 – tel. 0345.66315

Bocconcini di cervo panna e noci; Ravioli di cinghiale con stufato di cipolle

  • SPINONE AL LAGO
Ristorante Da Pacio – via G. Verdi 5 – tel. 035 810037 (chiuso le sere di martedì e mercoledì)

Tris di selvaggina con polenta taragna; Cervo, canguro, antilope, cinghiale

  • TRESCORE BALNEARIO
Ristorante della Torre – piazza Cavour 26/28 – tel. 035 941365 (chiuso domenica sera e lunedì)

Terrina di fagianella ai profumi del bosco in pasta sfoglia su Porto rosso ristretto; Costoletta di cervo alla Maria Stuarda con spuma di castagne e topinambur

  • URGNANO
Ristorante Quadrifoglio – via D. Alighieri 780 – Fraz. Basella tel. 035 894696

Tagliatelle di pasta fresca al salmì di lepre; Polpa scelta di cinghiale con funghi porcini e polenta

  • VILLONGO
Ristorante Cadei – via Roma 9 – tel. 035 927565 (chiuso il lunedì e martedì sera)

Brasato di cinghiale con polenta; Bocconcini di cervo alla boscaiola

  • ZOGNO
Ristorante Da Gianni – via Tiolo 37 – tel. 0345 91093 (chiuso il lunedì)

Polenta taragna con bocconcini di cervo