“Senza un Sistema Paese efficiente per le imprese sarà sempre dura”

Andrea Paganelli
Andrea Paganelli

Andrea Paganelli, milanese, 46 anni, laurea in Ingegneria delle tecnologie industriali al Politecnico, dal 1996 al 2001 ha lavorato per la New Holland, marchio che appartiene al gruppo Fiat. Dal 2002 al 2004 ha diretto gli stabilimenti di montaggio della Bonfiglioli Riduttori. Da nove anni è alla Same Deutz-Fahr di Treviglio, dove oggi ricopre il ruolo di direttore industriale del gruppo. L’azienda, fondata nel 1927 dai fratelli Cassani, impiega 1.280 lavoratori ed è quarta nel mondo per la produzione di trattori e macchine agricole. Il 90% delle vendite avviene all’estero.
Ingegner, la contrazione del mercato italiano spinge per forza a cercare uno sbocco al di fuori dei confini nazionali?
“In Italia, da tre-quattro anni, la situazione economica è disastrosa. E’ necessario puntare ai nuovi mercati, dell’Est asiatico e del Sudamerica. Anche se in Europa stanno funzionando bene quelli di Germania e Polonia”.
Si produce anche nei Paesi in via di sviluppo per il minor costo della manodopera?
“Assolutamente no, sì produce lì per aggredire quel mercato con un prodotto adatto alle richieste domestiche. E spesso, ma non sempre, può significare la creazione di macchinari dalla qualità low cost”.
La sua visione sull’Italia è pessimistica?
“Se vuoi vendere, da noi, è un problema. Da sola un’azienda non ce la fa. Manca un sistema Paese che agevoli l’imprenditoria. Se l’economia non si rimette presto in moto vedo poche speranze per il futuro”.
Stiamo seguendo le sorti di Spagna e Grecia?
“Nei Paesi del Mediterraneo le difficoltà economiche sono acuite. Anche per questo la nostra forza è lo stabilimento tedesco di Lauingen. Ma dal gennaio del 2014 apriremo anche in Cina, con il via produttivo dello stabilimento nello Shandong”.
Perché i tedeschi non hanno subìto gli effetti della crisi?
“E’ una ruota che gira. La Germania investe nella piccola e media impresa che a sua volta traina l’agricoltura. In questo modo i contadini riescono ad accedere ai finanziamenti pubblici e gli operai possono ottenere, facilmente, mutui o prestiti in banca”.
Quanto influisce il costo del lavoro?
“Il prezzo di un prodotto è dato per l’85 per cento dal materiale, la manodopera incide per il 15 per cento”.
Ma il salario in Germania è tra i più alti.
“Un operaio tedesco medio, di quarto livello, costa all’azienda 36-38 euro all’ora. Il collega italiano 27 euro. In un anno i primi scioperano, se capita, al massimo quattro ore, gli italiani cinquanta ore, a volte con picchi di otto al mese, facendo lievitare il costo del lavoro. Dunque, conviene produrre in Germania”.
La colpa è del sindacato?
“No, è uno strumento importante che porta a raggiungere accordi per mantenere i giusti equilibri tra le parti. Diverso il giudizio per la Fiom, troppo estremista”.
Cosa può fare lo Stato italiano per agevolare le imprese?
“La tassazione è esagerata e ci sono pochi finanziamenti a fondo perduto. Mio papà è stato un industriale nel settore della falegnameria. Ricordo che quando ha iniziato aveva acquistato i macchinari grazie alle agevolazioni statali. Ed è stato possibile farlo fino a quindici anni fa. Oggi non più. E poi, se le imprese non sono in parte defiscalizzate, non possono permettersi di investire”.
Cosa pensa dell’Imu?
“Lo Stato deve pur reperire i soldi da qualche parte, purché in modo giusto. A giugno, la Same per il sito produttivo di Treviglio, pagherà una cifra davvero spropositata”.
La ricetta contro la crisi?
“Solo con la ricerca e lo sviluppo si progredisce. Nel quinquennio 2006-2011 noi abbiamo speso per investimenti 100 milioni di euro, in quello successivo oltre il doppio, 250 milioni. Chi ha tirato la cinghia alle prime avvisaglie della crisi oggi è fuori dal mercato”.
Cosa abbiamo, invece, noi italiani, che gli altri ci invidiano?
“La flessibilità. Siamo dei camaleonti, bravi ad adeguarci quando cambiano le carte in tavola. Noi siamo esperti nel crearci i problemi, ma sappiamo anche come risolverli. In questo diamo del filo da torcere ai tedeschi, che fanno fatica ad affrontare gli imprevisti. Sono troppo rigidi e inquadrati”.
C’è chi propone la staffetta generazionale: un lavoratore più anziano accetta meno ore in cambio dell’assunzione di un giovane, è d’accordo?
“Mi trovo bene con i dipendenti di lungo corso perché hanno esperienza. Ma abbiamo anche il management più giovane, con una media di ingegneri trentacinquenni. E quattro sono donne”.
Quale differenza c’è tra i due sessi nel modo di lavorare?
“Le ingegnere sono più brave. Sono più pignole, determinate. E sanno come farsi rispettare dal resto del personale”.
In un colloquio di lavoro, c’è un errore da con commettere?
“Sì, il millantare esperienze e capacità. Chi bara con un curriculum esagerato, viene scoperto subito. La sincerità e la trasparenza sono le doti che più apprezzo”.
Chi riesce a far carriera?
“Chi ha voglia di fare. Di solito individuo i più capaci e li chiamo gli “alti potenziali”. Un’azienda deve saper offrire opportunità, spianando loro la strada, magari con dei corsi di leadership o gestione del personale, a seconda delle lacune che possono avere”.
Ci sono però ragazzi che non trovano sbocchi e sono costretti a cercare fortuna all’estero.
“Se l’Italia può assorbire mille ingegneri e ce ne sono diecimila, l’unica soluzione è scappare. Ma anche fuori dai confini nazionali, chi possiede le qualità giuste riesce a emergere. Anche dal basso, da un semplice stage, in qualche anno si può raggiungere una buona posizione”.
Spesso però c’è chi aspetta fino a quarant’anni perché non trova il lavoro che ritiene più adatto a sé.
“Questo è un problema di eccessive aspettative. Tutti sognano di diventare top manager. Però non ci sono solo generali, ma anche caporali, tenenti e soldati semplici. E ognuno può concorrere al bene della sua azienda”.