Egregio Bergamaschi
leggo con attenzione la sua rubrica e mi rendo conto che la mia e-mail è forse fuori luogo. Le scrivo perché il figlio di mia sorella, 21enne, ha abbandonato gli studi, non ha intenzione di riprenderli, non è interessato a nulla e neppure sta cercando un lavoro, dice che tanto è inutile. Sta sprecando gli anni migliori della crescita e mia sorella non si dà pace.
Chi può darci una mano?
e-mail, Bergamo
L’attuale crisi economico-finanziaria ha confermato due fatti che erano già tristemente noti a tutti: il tasso di disoccupazione giovanile (considerando i giovani sino a 30 anni) è costantemente superiore al doppio del tasso di disoccupazione complessivo e la categoria dei giovani è massicciamente esposta ad un costante peggioramento delle occupazionali. In questo periodo sono quindi i “giovani” a soffrire maggiormente la crisi, non solo perché non hanno accesso ad un mondo del lavoro che non conoscono, ma perché si ritrovano a vivere demoralizzati una quotidianità senza aspettativa; sono individui rassegnati e demotivati, privi di stimolo anche solo per fare il minimo sindacale e cambiare la propria vita. E’ un fenomeno nuovo che preoccupa l’Europa e ovviamente l’Italia e che racconta di una generazione che si ritiene “senza speranza”, che vive alla giornata o sulle spalle della famiglia di origine e non riesce a realizzare piani per costruirsi una vita personale e professionale autonoma. Ma non solo: è una fetta di popolazione con meno di trentacinque anni che non solo non possiede un lavoro, ma non lo sta nemmeno cercando e non frequenta corsi di aggiornamento; i sociologi si sono persino scomodati a declinare un nome per loro e oggi sono conosciuti come “neet”, acronimo che nella lingua inglese significa “not in education, employment or training” e che identifica una generazione di giovani disoccupati al di fuori di ogni ciclo di istruzione e formazione, che ha abbandonato i percorsi scolastici, non ha un impiego, non segue corsi di formazione e vive alla giornata senza un reale progetto di vita. E se pensiamo al nostro paese, gli ultimi dati non sono confortanti: i “neet” italiani hanno dai 15 ai 29 anni e nel 2012 sono arrivati a 2 milioni 250mila; ciò significa che in Italia un giovane di quella fascia di età su 4 si trova in questa terribile condizione. Il dato potrebbe essere meno negativo se ci trovassimo di fronte a una realtà in movimento, di giovani che non hanno lavoro al momento, ma si stanno attrezzando per mettersi in gioco, non appena ci sarà l’inversione della curva, ma purtroppo non è così. L’appartenenza alla categoria “neet”, oltre ad essere uno spreco del potenziale dei giovani, ha ripercussioni negative per l’economia e la società. Trascorrere dei periodi di tempo come “neet” può condurre all’isolamento, all’insicurezza, alla criminalità, ad avere problemi di salute fisica e mentale; e ognuna di queste conseguenza implica un costo sociale. Pertanto appartenere al gruppo “neet” non costituisce solo un problema individuale, ma anche un problema per la società e l’economia nel suo complesso. Non si pensi che il problema sia recente: basti pensare che l’acronimo “neet” è nato nel Regno Unito alla fine degli anni 80, per definire una modalità alternativa di classificazione dei giovani a seguito dei cambiamenti avvenuti nelle politiche in materia di indennità di disoccupazione; da allora l’interesse per i “neet” è cresciuto a livello politico europeo e definizioni equivalenti a questa sono state create in quasi tutti gli Stati membri. Magari avrebbe avuto più senso anticipare delle strategie per gestire una situazione che aveva già tutte le caratteristiche dell’urgenza. Negli ultimi anni gli Stati membri dell’Unione Europea hanno predisposto politiche nazionali ed europee destinate ad aumentare l’occupabilità giovanile e a promuovere maggiore partecipazione all’occupazione da parte dei giovani, sia attraverso misure relative all’istruzione, come il prevenire e ridurre l’abbandono scolastico e incrementare i corsi di istruzione e formazione professionale, sia attraverso misure che facilitano la transizione dalla scuola al lavoro. Inoltre molti paesi hanno introdotto una serie di incentivi, di agevolazioni fiscali e sovvenzioni al fine di incoraggiare le aziende ad assumere, formare i giovani e a creare occupazioni supplementari destinate a loro, ma non sempre sono state strategie vincenti. Certo è che il lavoro da fare è ancora lungo e oltre allo Stato, è importante anche l’intervento della famiglia e dei genitori, che hanno il dovere di trasmettere il desiderio di una vita “realizzata” e appagante e non devono mai legittimare atteggiamenti di stallo e di rinuncia; ma purtroppo in molti casi non è così. Infine, una riflessione: chiunque sia entrato negli “anta” ricorda sicuramente che quando si era ragazzi, non si provava nessun timore per il futuro, anzi si era convinti che, in un modo o nell’altro, avrebbe trovato un’occupazione e uno stipendio; magari non il mestiere dei sogni, ma non c’erano dubbi che avrebbe vissuto una vita dignitosa. Avevamo “speranza e voglia di sognare” e francamente ci piacerebbe che la stessa fortuna l’avessero anche i giovani di oggi.