“Cosa resterà di questi anni 80” cantava Raf. Noi, più prosaicamente, vogliamo provare a chiederci cosa rimane dell’esperienza di governo di Matteo Renzi. Tre anni, “mille giorni esaltanti” secondo il sobrio giudizio del diretto interessato, un periodo certo non breve che era iniziato all’insegna dell’ottimismo e dell’innovazione e che si è concluso, il 4 dicembre scorso, con una delle più pesanti sconfitte (60 a 40, ricordiamolo) che un leader politico abbia mai incassato.
Bene, cosa resterà di questo triennio? Di concreto, poco o nulla. Proviamo a fare l’elenco. La riforma costituzionale, la madre di tutte le battaglie, quella che era la ragione stessa dell’esistenza dell’esecutivo perché così aveva voluto il presidente-burattinaio Napolitano, è stata spazzata via con il risultato che sappiamo a fronte di una partecipazione degli elettori che fa giustizia di tante chiacchiere sull’apatia e il disinteresse rispetto alla politica e alle scelte decisive per le sorti del Paese.
La legge elettorale Italicum, quella che Renzi decantava come la migliore del mondo (“ce la invidiano e verranno a copiarcela” sentenziava quando ancora non aveva capito di cavalcare un ronzino di cartapesta), è ancora formalmente in vigore per qualche settimana. Il 24 gennaio toccherà alla Corte costituzionale farci sapere cosa ne pensa (e si ritiene che non ne verrà fuori un verdetto da applausi), ma a prescindere da cosa uscirà dalla Consulta è già chiaro oggi che quella legge elettorale che il tapino aveva pensato di ritagliarsi su se stesso (salvo poi rendersi conto che l’identikit più conforme era quello di Beppe Grillo) rimarrà scritta sulla carta. E finirà appallottolata in un bel cestino. Tanta fatica sprecata, tanto tempo perso inutilmente, tanti bracci di ferro (fu perfino posta la questione di fiducia) che si potevano risparmiare. Come per la riforma firmata anche da Maria Elena Boschi, madonnina infilzata che nemmeno ha avuto la dignità di ritornarsene da dove era venuta (a 20 giorni dalla sconfitta referendaria non ha ancora detto una parola sulla débacle…).
Ma non è mica finita. Lo stesso destino del cosiddetto Jobs act, altra bandiera sventolata con turgido vigore dal ragazzotto di Rignano sull’Arno, è quantomai precario. Lo attende il referendum per cui la Cgil ha raccolto oltre 3 milioni di firme. Il destino sembra segnato. E non a caso si punta ad accelerare lo scioglimento delle Camere per rinviare la chiamata alle urne dei cittadini, consapevoli come si è che anche in questo caso il voto farà carta straccia di un provvedimento che ha solo fatto scialacquare miliardi a gogò senza davvero incidere significativamente sulle dinamiche del mondo del lavoro (che ha certo bisogno di riforme, ma non di manovrine da magliari toscani). Bene che vada, del progetto iniziale renziano resterà poco o nulla.
E poi, che dire della riforma delle banche popolari, quella trasformazione coatta da cooperative in società per azioni che qui a Bergamo abbiamo vissuto da battistrada? Anche quella ha subito uno stop dal Consiglio di Stato che ha deciso di rinviare la legge alla Consulta ravvisando diversi profili di incostituzionalità.
Se questa è la realtà, non occorre essere viziati da pregiudizio o animati da spiriti di rivalsa per osservare che l’esperienza del governo Renzi è destinata a passare alla storia come largamente deficitaria. Un vorrei ma non posso, un fuoco di paglia inconcludente, una rappresentazione plastica di come la corsa sfrenata faccia perdere completamente il senso della realtà. E soprattutto, le reali esigenze del Paese. Vale la pena sottolinearlo nei giorni in cui c’è chi si ostina a scrivere che “non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca”, quasi che il premier toscano abbia lasciato un’eredità da cui non si può prescindere. Certo, in questi tre anni ci sono stati anche provvedimenti importanti, come il riconoscimento delle unioni civili (merito più del Parlamento che del governo). Ma quando le fondamenta su cui si è retto un governo sono rovinosamente franate sarebbe buona cosa prenderne atto e riflettere. Se alla fine di quegli anni non resta che un cumulo di macerie, con lo sgradevole contorno di un frasario da bassa osteria (Giachetti docet), beh forse urge un radicale ricambio di uomini, di idee, di programmi. Renzi le sue chances le ha avute. Si è fatto male da solo. Ora, per cortesia e senza alcun rimpanto, avanti un altro.