La castagna del bastian contrario

La castagna del bastian contrario

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A dar retta all’impareggiabile Teofilo Folengo, quelli che nel XVI secolo la montagna di Clusone spediva in mezzo mondo erano uomini “bassi, grassi e grossi di sedere”.

Una così poco altera complessione, a giudizio del poeta, era da attribuirsi alla dieta quasi monofagica dei valligiani: panizza – la polentina di panìco che godette di universale diffusione sino all’introduzione del mais – e, soprattutto, castagne a volontà. Oltre che per le generose proporzioni, il posteriore dei nostri montanari doveva con certezza distinguersi, per dirla con Curzio Malaparte, in virtù di una non comune loquacità.

Secondo la medicina prescientifica il frutto del castagno, tra le molteplici pecche dietetiche di cui era tacciato, annoverava difatti quella di indurre una tutt’altro che commendevole ventosità intestinale. Come se non bastasse, all’ingiustamente vituperata derrata erano attribuite, al pari che alla rapa ed ai legumi più umili, deprecabili proprietà afrodisiache, che si riteneva acuissero la proverbiale lascivia degli zotici. Più recenti ed attendibili studi hanno acclarato come il regime forzatamente vegetariano di cui scriveva il Merlin Cocai fosse piuttosto all’origine di quel gozzo che per secoli ha marchiato la caricaturale iconografia del bergamasco.

In spregio all’avversione di clinici e naturalisti, la preminenza della castagna nel sistema alimentare dei nostri antenati si è storicamente affermata su basi affatto trasversali, oltrepassando i confini topografici dei distretti montani ed il limitare sociale delle classi meno abbienti. È ad esempio assodato che nel corso dell’alto medioevo la diffusione di quello che era chiamato l’albero del pane si spinse sino al cuore della pianura padana, dato che estese aree a castagneto erano censite nei pressi di centri come Spirano, Cologno al Serio e Capriate d’Adda.

Alla fine del XIII secolo Bonvesin de la Riva certificava altresì come la cibaria avesse acquisito il rango di genere di prima necessità anche negli agglomerati urbani lombardi, giacché se ne approvvigionava in gran copia la stessa Milano. L’iperbolico magister di Porta Ticinese distingueva al più tra la varietà di minor pregio definita “popolare”, relegata ad un ruolo intermedio tra la nutrizione animale e quella umana, ed i più aristocratici marroni riservati ai palati dei ceti altolocati.

biligocc - casale
La bollitura dei biligòcc

Proprio perché prevalentemente legate alle consuetudini degli strati sociali più umili, le tecniche di trasformazione agroalimentare della castagna e le modalità del suo utilizzo in cucina serbano tratti singolarmente arcaicizzanti. Valga il caso dei biligòcc, il cui procedimento di elaborazione è a tutt’oggi identico a quello descritto nel IV secolo dall’agronomo latino Rutilio Palladio. Nelle Prealpi lombarde ed in Valtellina si prepara inoltre una minestra di castagne e riso denominata mach, il cui vincolo di discendenza dal celebre maccus dell’antica Roma – una passatina di fave ancor ai nostri giorni in voga nel mezzogiorno – non necessita certo di delucidazioni. Colpisce semmai che in Valgerola, sul versante settentrionale delle Orobie, la vivanda venga accomodata con l’utilizzo del panìco in luogo del riso, riproponendo così in un’unica portata l’accoppiata di derrate montane richiamata nel Baldus di Folengo.

Se nelle vallate alpine la cucina della castagna riserva il sorprendente incontro con alcuni pronipoti della gastronomia latina, nel Sannio – storica propaggine longobarda nell’Appennino Campano – conduce invece al non meno stupefacente rinvenimento di un lontano cugino dei ravioli di casa nostra. Si tratta del caozoncello, un tortello dolce ripieno della polpa lessata dell’achenio, la cui preparazione è finalizzata in frittura. Per quanto arduo sia ricostruire la filiera delle relazioni di apparentamento, è sbalorditivo che ad una sessantina di chilometri dal Vesuvio sopravviva un’enclave presso la quale imperturbabilmente si consumano gli alter ego meridionali di casoncelli e cassoeula – localmente denominata abbullit d’porc.

Questa rassegna di bizzarrie si chiude con i dettagli di una delle antiche e suppergiù goliardiche tenzoni tra miserabili di cui è zeppa la storia. Soprattutto nelle lande a sud del Po, mazzamarroni era l’epiteto con il quale venivano dileggiati i montanari, che controbattevano apostrofando come mangiarape gli zotici dimoranti a quote più basse. E d’altronde già nel I secolo d.c. Plinio il Vecchio sottolineava come l’elettiva dimora della rapa fosse tra le brume delle piane alluvionali. È bene tuttavia precisare che dalle nostre parti il discrimine tra mangiamarroni e cagarape sarebbe risultato del tutto incomprensibile. Non solo per parecchi secoli si sono colte castagne sin sulle sponde del Fosso Bergamasco, ma le migliori rape del circondario sono da tempo immemore quelle coltivate sui declivi di Orezzo e di Bossico. Castagne in pianura e rape in montagna: come disconoscere che Bergamo sia patria dei più irriducibili tra i bastian contrari?