Il malaffare dilaga. E intanto condanniamo a morte la civiltà

corruzioneOggi, nel definire le malversazioni, le truffe, le corruzioni, i furti, che sono divenuti la semplice quotidianità della cronaca politica, si tende ad usare toni sommessi, a minimizzare, a far passare come normale ciò che, viceversa, in un mondo civile dovrebbe essere un’assoluta eccezionalità. Sotto il capace ombrello del garantismo, che, a un dipresso, significa, dati i tempi biblici della giustizia italiana, né più né meno che oblio, tanto del peccato quanto del peccatore, si riparano ladri e truffatori di ogni risma e di ogni bandiera: sicuri dell’impunità, certi di farla franca e di poter tornare a rubare o a truffare, pressochè indisturbati. Sarà che, dentro il calderone, prima o poi, ci finiscono tutti, il che induce prudenza nel censurare e nel punire certe marachelle; sarà che si teme che il farabutto, ancorché tale, mantenga un grado di potere atto a fartela pagare o a venirti, prima o poi, utile, tutti stanno abbottonati, ogni volta che qualche politico, qualche grand commis, qualche boiardo viene scoperto con le mani nella marmellata. Io non so dire se questo dipenda anche da un’insopportabile assuefazione della gente e da un senso di impotenza, mista a disinteresse, che riducono il nostro popolo ad un gregge belante, in cui ciascuno si fa sempre e solo gli affari propri: fatto si è che, se a uno non tocca direttamente di andarci di mezzo, di quel che accade al prossimo nulla gli frega. E questa è la morte della civiltà: né più né meno.

Quando si perde completamente il senso altruistico della società, che verte sul considerare un torto fatto ad altri come se lo facessero a noi, questa società cessa di esistere: associarsi significa avere interessi comuni e, se questi interessi smettono di essere comuni, l’associazione non ha più senso. Per questo, io dico che chiunque rubi sulla pelle del popolo, che chiunque arraffi, intrallazzi, spadroneggi, alle spalle della gente, è un gran porco. Non è uno che ha sbagliato, uno che è scivolato: è proprio un porco, di quelli che vanno additati al pubblico ludibrio. Poco cambia se si tratti dell’Inps o della sanità, delle case popolari o dei centri di accoglienza: la porcheria è, comunque, gigantesca, perché attenta alla vita stessa della nostra democrazia, della nostra libertà. Il resto sono chiacchiere: cortine di fumo, nebbia per distrarre il pubblico dalla questione fondamentale. Il cavillo, l’appello alla legge, sono semplicemente azioni dilatorie: sistemi di distrazione di massa, per distogliere l’attenzione e la rabbia popolare dal colpevole, dissertando astrattamente sulla colpa e sulla pena, come dei Beccaria fuori tempo massimo. La civiltà giuridica dell’habeas corpus è una bellissima cosa: qui, però, ci troviamo di fronte allo sfacelo della Nazione. Siamo un Paese in cui gente plurindagata, pluricondannata, pluriporciforme, viene serenamente mantenuta ai vertici della pubblica amministrazione, trasferendola, semplicemente, da un settore all’altro, nella fiducia della dimenticanza e nella certezza dell’impunità: un Paese in cui si tagliano le ecografie, in cui si risparmia sulle manutenzioni, in cui si abbandonano i bisognosi, per riempire le tasche di qualche suino in grisaglia. Questo è insopportabile. Non è difficile da digerire: è, letteralmente, insopportabile.

Un politico, un dirigente, un amministratore che rubino, vanno perseguiti con severità esemplare: non sospensione dall’incarico, non censura, ma vent’anni di galera. Non sto mica scherzando: vent’anni di galera mi sembrano pena equa per chi abbia, di fatto ucciso dei vecchietti lasciati senza cure o vessato dei cittadini rimasti senza assistenza, rubando le risorse che a loro avrebbero dovuto essere destinate. Me ne frego dei moderni indirizzi rieducativi, che dicono che la prigione è inutile: sarà anche inutile, ma, certamente, rappresenta un deterrente migliore rispetto al niente. Io lo dico sempre: leva la patente a chi parcheggia sui posti riservati ai disabili e vedrai che, dopo cinque o sei patenti ritirate, a nessuno verrà più in mente di mollare l’auto dove non deve. Allo stesso modo, prendi uno che abbia rubato milioni di euro dirigendo enti pubblici o facendo il politicante e sbattilo in cella, ad apprezzare la bellezza dell’essere uguale agli altri, privato dell’assise onde andava superbo: e vedrai che rieducazione efficace! Perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: e, se la teoria fa a pugni con la realtà, è la teoria che va cambiata. Coi porci ci vogliono i porcari, non gli assistenti sociali: è ora di dire basta a tutto questo girarsi dall’altra parte, far finta di niente. Perché, ammesso e non concesso che, finché non tocca a noi, possiamo fregarcene, adesso, comincia a toccare a quasi tutti. Nel terzo millennio, dunque, la coscienza sociale dipende dalla quantità e non dalla qualità, con tanti saluti alla teoria delle rivoluzioni elitarie di Sorel: così, alla fin fine, mi auguro che le porcate aumentino ancora, superando il limite del sopportabile, in modo che la gente, se Dio vuole, si svegli. E venga la resa dei conti, tanto per i ladri che per i filosofi.

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