Il sommerso nel turismo / Fusini (Ascom): «Senza correttivi, perderemo strutture alberghiere e posti di lavoro»

Il sommerso nel turismo / Fusini (Ascom): «Senza correttivi, perderemo strutture alberghiere e posti di lavoro»

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Il direttore dell'Ascom Oscar Fusini

di Oscar Fusini*

Quando si parla di accoglienza turistica, è bene fare un po’ di chiarezza nelle differenze che intercorrono tra sommerso e abusivismo. La prima è un’attività dal contenuto economico svolto senza registrazioni, verifiche dell’identità del visitatore, rilevazioni statistiche delle presenze, adempimenti in tema di sicurezza, autocontrolli alimentari, allergeni, legionella e senza sistemi tracciati per la possibile verifica dei ricavi. La seconda, invece, l’ abusivismo, è l’esercizio senza autorizzazioni là dove sono obbligatorie, svolto in violazione della normativa nazionale e regionale, con dimensioni maggiori di quelle consentite, per periodi tali da escludere l’occasionalità oppure la non continuità e, infine, pubblicizzato con denominazioni e marchi non veritieri. Non tutto il sommerso è dunque abusivo, mentre l’attività abusiva rientra sempre nel sommerso. Fatta la premessa, va detto che l’affitto turistico, o breve, è consentito dalla legge. Ma se l’affitto breve viene proposto come B&B, allora non è legale, perché usa una denominazione diversa. Inoltre, se l’affitto breve non adempie agli obblighi di legge a carico del proprietario, è comunque attività che si muove nell’illegalità.

La nostra Associazione ha commissionato a Incipit di Perugia una ricerca per esaminare il fenomeno dell’affitto breve in Bergamasca. La ricerca ci ha offerto molti spunti di riflessione. Il fenomeno Airbnb nella nostra realtà è realmente sharing? I dati sembrerebbero dire il contrario: solo lo 0,4% delle strutture offre una stanza in condivisione, l’87% per cento è disponibile sopra i 6 mesi (quindi non è occasionale) e, infine, il 56% degli inserzionisti gestisce da 2 a 10 strutture, quindi non propriamente casa propria. In realtà, pur avendo le caratteristiche di altre città, il fenomeno da noi sembra possedere le caratteristiche di un fenomeno diffuso e poco concentrato (quindi un numero elevato di host piccoli); scelto come autoimpiego, in un momento di mancanza di sbocchi professionali e, soprattutto, utilizzato per mettere a reddito immobili sfitti propri e di terzi, spesso non utilizzabili. Come si è affermato tale fenomeno? Se da una parte ha saputo cogliere una domanda turistica insoddisfatta, dall’altra ha certamente sfruttato la vicinanza dell’aeroporto, agito sulla leva del prezzo vantaggioso e favorito la crescita del turismo slow.

La crescita viaggia a ritmi esponenziale: dalle 3 strutture nel 2009 siamo a oltre 1.000 in meno di sette anni. Non è facile oggi prevedere rallentamenti nello sviluppo, sebbene la limitata domanda potrebbe mettere un tappo alla crescita collocando, nel contempo, fuori dal mercato l’offerta di scarsa qualità. Noi siamo preoccupati perché dalla ricerca emerge una correlazione tra aree deboli e sommerso. Le aree che scontano maggiori difficoltà presentano infatti percentuali superiori di sommerso. In particolare, nelle zone di montagna, le Orobie, dove il calo degli esercizi registrati è notevole, e ai laghi e in pianura (escluso l’hinterland cittadino) dove la stasi è evidente. Il tutto deriva dal fatto che esiste in Bergamasca una robusta offerta immobiliare (case sfitte inutilizzate e inutilizzabili). La domanda è lecita: in queste aree la sharing porta maggiore turismo o drena risorse alle strutture ufficiali? La riposta è evidente: produce chiusura di attività ufficiali e perdita posti di lavoro in aree già colpite da una forte crisi occupazionale. L’economia condivisa presenta certamente dei vantaggi: integra il reddito familiare, apre anche culturalmente la nostra provincia a segmenti nuovi e diversificati di turisti, fa conoscere località e nuovi percorsi altrimenti sconosciuti e sostiene in forma diretta e indiretta molte persone, proprietari, gestori e attività commerciali. Presenta, tuttavia, anche delle controindicazioni: non favorisce, se non in limitati casi, percorsi di crescita professionale (specializzazione, passaggio delle competenze, economie di scala), non incentiva l’investimento negli immobili, non innesca percorsi di crescita dimensionale, limita fortemente la creazione di posti di lavoro e non potenzia l’attrattività della destinazione.

L’allarme della nostra associazione è molto forte perché questo fenomeno esercita una concorrenza sleale nei confronti delle attività alberghiere e, più in generale,  delle attività imprenditoriali. Esiste infatti una forte disparità a livello di imposte che gravano sull’ospitalità organizzata in forma imprenditoriale: quest’ultime  risultano molto più onerose rispetto a quelle previste per l’ospitalità organizzata in forma non imprenditoriale. L’Iva, per esempio, è sostenuta dal cliente delle sole strutture imprenditoriali. L’Irap è versata solo dalle attività imprenditoriali e non dalle attività non imprenditoriali. L’Irpef è sostenuta da tutti, ma nel caso delle attività non imprenditoriali non esistono strumenti che consentono di tracciarne l’imponibile. L’Imu grava sulle attività imprenditoriali mentre non grava se l’attività è gestita nella prima casa del titolare dell’ attività non imprenditoriali. Anche la Tari per l’attività alberghiera è superiore a quella della privata residenza. Accanto alla pressione fiscale esiste poi anche una pressione normativa. Gli oneri burocratici e gestionali posti a carico degli hotel risultano più gravosi non solo rispetto all’ospitalità organizzata in forma non imprenditoriale ma anche rispetto ad altre strutture di tipo imprenditoriale. Se la notifica degli alloggiati dovrebbe riguardare tutti, gli obblighi in tema di barriere architettoniche e l’Haccp pesano solo sulle attività imprenditoriali, mentre gli oneri della destinazione edilizia turistico-ricettiva e la prevenzione incendi solo sugli alberghi.

Maggiori oneri significa, ovviamente, ulteriori costi per l’adempimento e risorse da investire in un momento in cui – pur avendo respirato per l’aumento delle presenze legate all’Expo – l’affitto breve prosegue nella sua marcia di crescita. Se il fenomeno non sarà contenuto, c’è il rischio di una possibile spirale per le imprese della ricettività: discesa dei prezzi – riduzione dei margini – impossibilità ad investire – chiusura delle strutture – perdita posti di lavoro. Secondo uno studio di Federalberghi affidato a Incipt, l’utile lordo prima delle imposte dirette è del 5-10 % del fatturato per le imprese e del 50/60 % per le attività non imprenditoriali. Le ricadute sono molteplici. Per il sistema generale parliamo di evasione fiscale di imposte sui redditi, di Irap e Iva, per gli enti locali di evasione di tributi e tassa di soggiorno. Per il territorio, invece, ci troviamo di fronte, inevitabilmente, a un indebolimento dell’offerta turistica e alla perdita dell’attrattività della destinazione.  C’è una soluzione? L’equilibrio di lungo termine nella convivenza tra ricettività imprenditoriale e sharing economy è possibile in un sistema d’ integrazione e di completamento di offerte differenziate, basate su servizi diversi proposti da operatori imprenditoriali e non imprenditoriali, entrambi qualificati e che competono sul servizio e sul prezzo. Il cliente esprime la sua preferenza tra strutture diverse, ma altrettanto uniformi per qualità, affidabilità e trasparenza del rapporto. Il sistema fiscale è neutrale, in quanto il reddito e il lavoro sono tassati nello stesso modo.  Il sistema ricettivo è aperto a tutti e virtuoso perché sviluppa la concorrenza, spinge gli investimenti e migliora l’attrattività della destinazione. Questo è un sistema obiettivo, da ricercare attraverso la revisione della normativa nazionale e regionale e promosso con autodisciplina e codici etici. La nuova legge regionale Lombardia 27/2015 va in questa direzione.

* direttore di Ascom Confcommercio Bergamo