E il piatto racconta di storie e viaggi lontani

E il piatto racconta di storie e viaggi lontani

La cucina italiana, spesso considerata simbolo di tradizione, è in realtà il frutto di scambi culturali e contaminazioniAnche se viviamo in un’era in cui il mondo è incline a chiudersi e a vietare, oggi come non mai dobbiamo ribadire con forza che la cucina è il frutto di scambio e conoscenza. Di intrecci, inavvertiti e casuali. Di ponti e dialoghi. Di certo, non è fatta di muri e sordità. 

L’Italia, patria di ricette replicate in tutto il mondo (anche con varianti che spesso fanno storcere il naso ai difensori delle tradizioni, pensiamo solo alla carbonara), è forse l’esempio più chiaro e lampante di quanto popoli diversi e lontani possano creare un mix esplosivo e vincente davanti ai fornelli. Come ampiamente testimoniato dal professore di Storia del cibo Alberto Grandi, la cucina italiana non fonda le sue radici nella storia ma è nata molto più recentemente di quel che pensiamo, presumibilmente nel Dopoguerra. Perché è vero che i prodotti italiani sono buonissimi, spesso i migliori al mondo, ma è falso che abbiano origini leggendarie, perse nella notte dei tempi. Non è serio sostenere che Michelangelo faceva incetta di lardo ogni volta che passava per Colonnata, così come non è credibile che i milanesi abbiano insegnato agli austriaci a preparare la cotoletta. La ricerca storica attesta che la cucina italiana, intesa come prodotti e ricette della tradizione, è un’invenzione recente e, di fatto, un’efficace trovata di marketing: la narrazione della tradizione è spesso l’ingrediente contemporaneo che rende i nostri piatti ancora più gustosi. La ricerca dello storico Grandi ci ricorda che, fino a un recente passato, gran parte degli italiani moriva di fame, mentre le élite si dilettavano con cuochi e buon cibo. Inoltre, molti piatti simbolo della “tradizionale” cucina italiana, dalla pizza alla pasta, non sarebbero stati possibili senza il fondamentale contributo dei migranti italiani, che tornarono da terre lontanissime con qualche soldo in tasca e prodotti alimentari praticamente sconosciuti fino al 1900. È proprio questa la contaminazione. 

La contaminazione portata dalla storia

A contaminare può essere la storia, che si ripresenta puntuale e influenza quella che è la proposta di un locale che non vuole nascondere il suo passato. Alla Trattoria Visconti di Ambivere, ad esempio, la storia la vivi e la respiri ogni volta che entri nella sala principale, quando guardi gli arredi e quando scorri la carta. Storia, passato e tradizione non mancano mai, a partire dai casoncelli della nonna Ida: «Era mia mamma, la nonna dei miei figli: hanno deciso loro di chiamare così questo piatto che non esce mai dalla carta – spiega Fiorella Visconti, oggi uno dei volti dell’accoglienza dalla trattoria di Ambivere -. La ricetta di quei casoncelli in realtà non era nemmeno della nonna Ida perché, a sua volta, lei l’aveva ereditata da sua suocera che prima ancora l’aveva imparata da qualche altro suo familiare. Del resto prima tutto funzionava così nei paesi, ogni famiglia aveva il suo modo di preparare i casoncelli, il coniglio arrosto, la gallina ripiena. E ogni ricetta, magari anche solo per qualche piccolo particolare, era differente da quella delle altre famiglie. Ovviamente non veniva mai dispersa: passava di generazione in generazione. Era questo il modo dei nostri avi di custodire la tradizione».

Trattoria Visconti Ambivere

«Altra nostra ricetta storica è quella delle polpettine di zucchine tanto care al Papa Buono – continua Fiorella Visconti -. Una prozia di mio marito Giorgio, al servizio dei preti della parrocchia di Mapello, negli anni Venti ricevette la visita di Monsignor Roncalli, non ancora Cardinale di Venezia e non ancora Papa Giovanni XXIII. Fu proprio il futuro Papa Buono a complimentarsi per le polpettine esclamando la frase ‘Si è grandi anche nelle cose piccole’. Successivamente questo piatto riscosse un gran successo in trattoria e le polpettine vennero spesso richieste all’atto della prenotazione. Per quello cerchiamo di lasciarle più che possiamo tra le nostre proposte, tanto che oggi le serviamo con una caponata alla siciliana che abbiamo studiato con Filippo Cammarata, oggi chef dell’Osteria Tre Gobbi di Bergamo».

«Fare i conti con la contaminazione della storia ogni giorno, ad ogni servizio, non è facile perché si tratta anche di una responsabilità, di un compito che noi prendiamo molto, molto seriamente – sottolinea la titolare della Trattoria Visconti -. Ma quando penso al passato del mio ristorante, alla storia, alle ricette e a tutti quegli aneddoti che cerchiamo di trasferire ai nostri ospiti sono prima di tutto orgogliosa di quello che stiamo facendo io e la mia famiglia».

La contaminazione portata dai viaggi

Ma a contaminare possono essere anche i viaggi. Viaggiare è uno dei mezzi più potenti per far circolare idee, abitudini e sapori. Le cucine si influenzano l’una con l’altra quando le persone si spostano e portano con sé le proprie tradizioni culinarie. Gli emigranti italiani, ad esempio, hanno portato la pizza e la pasta in tutto il mondo, e queste si sono adattate ai nuovi contesti locali, generando variazioni oggi conosciute in ogni continente. In America, la pizza ha assunto una forma completamente diversa rispetto a quella napoletana originale, arricchendosi di ingredienti che riflettono la cultura statunitense.

A Pagazzano, nel cuore della Bassa Bergamasca, Filippo Moriggi porta in gran parte dei suoi piatti anni di viaggi in giro per il mondo. Oggi nella sua carta ci sono più piatti internazionali che italiani: «Ho iniziato con un solo piatto internazionale, oggi siamo arrivati al 60-65% di contaminazione della mia carta – spiega -. Sono partito un po’ in sordina perché volevo vedere come reagiva, piano piano, la clientela. La risposta è sempre stata positiva e oggi siamo arrivati a questi risultati, la gente arriva anche da fuori provincia per provare i nostri piatti internazionali. Come le sopaipillas, dei lievitati di zucca serviti col pebre (aceto di mele, pomodorino, coriandolo, cipolla rossa, pepe), che oggi sono le nostre nuove entrée. Le ho ideate con Valentina, la madre cilena di un mio carissimo amico, Pedro, che è stata da noi a Pagazzano tre giorni per passarmi la ricetta perfetta».

Come detto, nei piatti di Filippo Moriggi ci sono le avventure compiute dallo chef e dalla moglie Giulia Crippa (anche lei impiegata nel ristorante di Pagazzano) in diversi angoli del mondo: Vietnam, Malesia, Tailandia. Poi Cambogia, Nuova Zelanda, Stati Uniti. E anche tanto Sud America. «Gran parte dei miei piatti sono frutto di collaborazioni nate al momento, in strada: quando vedevo uno street food che m’incuriosiva, soprattutto in Tailandia, chiedevo di insegnarmi a cucinare quello che avevo appena assaggiato. Non ho mai partecipato ai classici corsi di cucina da turisti, i piatti internazionali che oggi propongo li ho imparati così – svela Moriggi -. Ci tengo a sottolineare che questa cucina non è fusion ma è cucina internazionale originale al 100%. L’unica modifica che faccio in alcune ricette riguarda le spezie: alleggerisco magari limando l’uso del peperoncino per rendere quel piatto più vendibile al palato di un italiano».

«Il pubblico? Quello ha risposto subito benissimo: la tajine di agnello è stata la primissima proposta internazionale che ho messo in carta, la gente tornava e la richiedeva. Questo – spiega lo chef – mi ha portato a sviluppare ancora di più quel tipo di proposta. Grazie all’enorme comunicazione che sta dietro alla cucina oggi la gente è un po’ più curiosa e open mind, cosa che vent’anni fa era molto più difficile. Prima l’italiano andava all’estero e cercava il ristorante che facesse pasta e pizza, oggi prova il cibo locale e se ne innamora. La contaminazione internazionale era il mio grande obiettivo quando ho aperto Locanda Viola, oltre a pasta e risotti – che restano tutt’oggi un caposaldo del mio menù – volevo proporre tutto quello che avevo visto, assaggiato e imparato nei miei viaggi per il mondo: posso dire di essere riuscito nel mio intento».

 

RICETTA

Spicy chicken wings

di Filippo Moriggi

Ingredienti per 1 kg di alette di pollo

 

Per la marinata:

20 g di olio sesamo

40 g di salsa di soia 

50 g di sake

50 g di olio arachidi

20 g di farina

 

Per la glassa:

150 g di zucchero

100 g di salsa sriracha

100 g di salsa di soia

100 g di sake

20 g di zenzero

50 g di olio di sesamo

 

Procedimento:

Amalgamiamo gli ingredienti della marinata, immergiamoci le alette di pollo e lasciamole riposare per almeno due ore. Passate le due ore, portiamo a 170° la temperature dell’olio di arachide e friggiamoci le alette di pollo: 6-7 minuti dovrebbero bastare, l’importante è che il pollo non risulti crudo.

Finita la frittura, asciughiamo per bene le alette e copriamole con la glassa che avremo preparato frullando in un mixer tutti gli ingredienti, prima di farli riposare in frigorifero per almeno un quarto d’ora.

Le alette di pollo vanno servite ben calde.