Il coraggio dei manager  che scelgono la “libertà”

Il coraggio dei manager che scelgono la “libertà”

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project-managerScoprire che il tuo capo guadagna il doppio o anche il quadruplo di te è un’esperienza demoralizzante. Ma quando il divario tra te e l’amministratore delegato ammonta a 440 volte lo stipendio medio di un impiegato, non c’è morale che tenga. Lo scorso anno 10 capi di altrettante società quotate alla borsa londinese si sono spartiti 120 milioni, con una media netta di 12 milioni di sterline a testa, solo in un anno. Chi lavora con loro e per loro si porge una domanda legittima: se li meritano davvero? E se la risposta è affermativa, per quale motivo se li meritano? Se lo chiedono in molti, migliaia di impiegati di queste grandi aziende. Se lo chiede anche chi lavora in proprio o gestisce un business da piccola-media impresa, chi lavora 16 ore al giorno e mette i risparmi personali nella propria azienda, chi non viene portato in giro dall’autista, chi viaggia sui voli low cost e non sugli aerei privati.

Si tratta infatti di aziende quotate in borsa, che devono rendere conto del proprio operato, e dei compensi, agli investitori che – specialmente alla luce di una degli scandali finanziari degli ultimi anni – mettono in discussione i mega bonus dei capi e dei membri del consiglio di amministrazione. Un breve saggio appena pubblicato da David Bolchover (http://www.davidbolchover.com/) autore rispettato di libri economici, smaschera alcune verità. Il saggio si chiama “Fatto su misura. Come le opinioni (sulle performance dei dirigenti) diventano fatti”. Il breve report discute quale sia l’impatto reale e misurabile di un amministratore delegato sulla propria azienda, e si domanda quanto siano rari i capi di successo. Quanto emerge ce lo aspettavamo: non c’è scarsità di dirigenti di alto livello, e sono tutti molto più sostituibili di quanto si pensi e la cima della piramide difficilmente influenza quanto accade alla base.

Purtroppo, in Inghilterra come altrove, il sistema è perpetuato da chi ne fa parte. Chiamala casta, chiamalo old school network, il risultato non cambia: i consigli di amministrazione sono popolati da persone molto simili tra loro, che probabilmente hanno frequentato le stesse università o gli stessi licei, pronti a difendere i propri diritti – e privilegi – corporativi, a spada tratta. Protetti da consulenti esterni e advisor, scelgono chi conoscono e di cui si fidano, inclusi propri successori, selezionati tra chi porterà avanti i loro progetti. Mentre fanno ciò, si assicurano che i loro compensi rimangano intoccati o volgano al rialzo. Con scontento degli investitori, che non hanno molti scrupoli davanti agli alti compensi dei dirigenti quando le cose vanno bene, ma sono molto meno comprensivi quando i titoli scendono.

Come giustificano i propri compensi i diretti interessati? Loro si difendono spiegando i loro compensi sono direttamente proporzionali alla misura dell’azienda che guidano. Quello che però non dicono è che le grandi aziende si avvalgono dei migliori consulenti offerti dal mercato, dai revisori di conti, agli avvocati, agli addetti alla comunicazione, fino alle agenzie di pubblicità. L’unico vero rischio che corrono è quello di essere licenziati, o dimettersi, con una buona uscita che garantisce una pensione per le prossime tre generazioni. Nel caso di un piccolo imprenditore o per chi fonda una start up, il rischio è spaventoso, si chiama fallimento e non garantisce un vitalizio.

C’è anche una terza via, composta da chi decide di scendere dagli aerei privati e cambiare rotta, portando la propria esperienza altrove, mettendosi in proprio o a servizio di start up, con un compenso da minimo sindacale. Ne abbiamo visti molti che – dal 2009 in avanti – hanno lasciato i consigli di amministrazione e l’autista per mettersi  in gioco, a volte anche rischiando. Sono i manager che preferiscono la libertà e l’indipendenza, e la flessibilità di costruire un business senza il vessillo degli investitori. Chi ha fatto questa scelta si è guadagnato il rispetto della società e dell’opinione pubblica.  Non lo stesso trattamento (anche di opinione) riservato a chi siede sulle sedie dei grandi consigli di amministrazione.